mercoledì 2 settembre 2009

LA RIPRESA D’AUTUNNO, LA POLITICA E LE RISPOSTE SUL LAVORO , FFwegmagaziine 2 settembre

L’occupazione ed il lavoro saranno tra i temi principali della ripresa politica autunnale – di ripresa economica non se ne parlerà prima dell’autunno 2010 (secondo le previsioni diramate il 29 agosto dai 20 maggiori istituti econometrici internazionali, tutti privati, nessuno italiano, che fanno parte del gruppo del “consensus”. C’è un fenomeno che , mutuando il termine dalla fisica, gli economisti chiamano di isteresi: le imprese riprendono ad assumere solamente quando, dopo un periodo di recessione, il rilancio è solido. La Confindustria ha indetto un importante convegno internazionale per 9 settembre : la sfida dell’occupazione sarà uno dei temi di fondo.
Sino ad ora grazie ad una struttura produttiva basata sul manifatturiero, la crisi ha pesato sull’occupazione in Italia meno che altrove: secondo i più recenti dati Ocse, il tasso di disoccupazione nel nostro Paese, alla fine secondo trimestre 2009, era pari al 7,3% della forza lavoro- rispetto al 18,1% in Spagna, al 9,4% negli Usa, al 9% in Gran Bretagna, al 9,4 Francia , all’8,3% in Germania (ed al 9,4% come media dell’area dell’euro). In autunno – lo danno ormai per scontato tutti gli istituti – ci sarà verosimilmente un balzo : la stime vanno dai 300.000 ai 500.000 di uomini e donne che perderanno il lavoro e lo cercheranno senza trovarlo. Anche grazie ad una serie di misure di flessibilizzazione, in Italia, il tasso di disoccupazione è diminuito di due punti percentuali negli ultimi anni arrivando al 6,5% delle forze lavoro. Ciò si è verificato in marcata controtendenza con la media europea dove, prima della crisi in corso dall’estate 2007, tra i Paesi di maggiori dimensioni unicamente la Spagna ha avuto un’esperienza simile, mentre in Francia e Germania si è rimasti arroccati a tassi di disoccupazione rispettivamente attorno al 10% ed al 12%. E’ proprio vero che, come sostiene l’opposizione, l’aumento dell’occupazione registrato dai dati Istat rifletterebbe lavori “non buoni “ (forse “cattivi”?) in call centers e pizzerie oppure in servizi domestici soprattutto per extra-comunitari. I dati, inoltre, sarebbe “gonfiati” dalla registrazioni a ragioni di sanatorie (relative ancora una volta agli extra-comunitari). L’Istat (istituto noto per l’imparzialità) segue nell’indagine sulle forze di lavoro rigorosamente metodi e procedure Ocse tali da non rendere possibili “gonfiamenti” da registrazioni post-sanatorie.
L’analisi nuda e cruda dei dati dice, poi, che le categorie che, negli anni precedenti la crisi, più hanno tratto vantaggio dalla riduzione della disoccupazione sono i giovani e le donne (gruppi il cui accesso all’occupazione è stato spesso bloccato dalle rigidità esistenti prima delle norme che vanno sotto il nome di legge Biagi). Sono tutti finiti nei call centers o a vendere pizze oppure a pulire le scale di condomini oppure ancora a tentare di piazzare enciclopedie, aspirapolvere, polizze di assicurazione e fondi comuni? Non è andata affatto così : è aumentato molto il lavoro autonomo e professionale e l’occupazione nei servizi.
Anche ove fosse andata come descritto in certi quadri a tinte fosche, non sarebbe necessariamente un male .David Audretsch (Max Planck Institute) Martin A. Carree, Rory Thurik (ambedue dell’ Università di Rotterdam), e A.J. Van Steel (Ministero del Lavoro dei Paesi Bassi) – tutti distinti e distanti dalle beghe e dalle “primarie” nostrane- hanno esaminato le dinamiche del mercato del lavoro in 23 Paesi Ocse del 1994 al 2002 giungendo alla conclusione che anche quando si inizia con lavori “precari” si sprigiona un “effetto imprenditoriale” che porta o alla creazione di vere e proprie imprese od ad occupazione permanente in seno ad esse. Ancora più positive le analisi di Michael Moynagi e Richard Worsley nel volume “Working in the 21st century” pubblicato in Gran Bretagna nell’ambito del progetto “Future of Work”: con una ricca messe di dati (anche italiani) mette una pietra tombale su tutta la letteratura sociologica sulla “fine del lavoro” e dimostra che è in atto una trasformazione verso lavori “buoni” in cui grazie alle tecnologia ciascuno può definire le proprie modalità ed i propri orari. Lo conferma il World Employment Report dell’International Labour Office (non certo un pensatoio del centro destra) . Infine, l’Economist Intelligence Unit (altro istituto che non ha mai guardato con grande simpatia l’attuale Governo italiano) dedica uno studio al fatto che la contrazione dell’occupazione nel manifatturiero e l’espansione di quella nei servizi (altra caratteristica evidenziata dai dati Istat) è “segno di progresso economico e sociale non di declino”. Non solo ma la stessa logica della riduzione degli orari di lavoro allo scopo, vero o presunto, di attivare nuove opportunità di lavoro (a chi non ce le ha e le cerca) pare appartenere al passato. Daniel Hamermesh (dell’Università del Texas) e Joel S. Slemrod (dell’Università del Michigan) sono tornati di recente sul tema dell’economia del “workaholismo”, ossia dell’intossicazione da troppo lavoro che richiede sempre più lavoro. Quantizzano come ormai sia diventato un problema serio non solo negli Usa far sì che certe fasce del mercato del lavoro vadano in pensione quando sarebbe logico. Tanto più che la Corte Suprema ha dichiarato discriminatori contro gli anziani i “limiti di età” che costringono alla quiescenza. Il troppo lavoro per alcune categorie ed il troppo poco per altre rischia di diventare uno dei problemi centrali del 21simo secolo.
Quali sono le risposte che la politica può dare a questi temi? In Italia, la disoccupazione riguarda soprattutto il Mezzogiorno (dove è circa tre volte la media nazionale); interessa i distretti industriale del centro-nord a ragione della caduta della domanda internazionale causata dalla crisi mondiale. Si tratta di due fenomeni differenti. Il primo è strutturale: la disoccupazione è conseguenza del ritardo di sviluppo. Il secondo dipende dalla congiuntura nel resto del mondo.
Alla ripresa autunnale, la Banca per il Mezzogiorno sarà un altro degli argomenti centrali del dibattito politico. E’ tema di politica nazionale che riguarda non solamente il Sud e Roma – sino a qualche lustro fa l’azione della Cassa per il Mezzogiorno arrivava a sfiorare la provincia di Latina- ma anche aree della Penisola, come l’Abruzzo, il Molise e la Sardegna, che per non più incluse nella nomenclatura europea come Regioni “obiettivo 1” (ossia in ritardo di sviluppo) hanno una struttura economica fragile. La nuova Banca, soprattutto, se verrà istituita, non dovrà guardare principalmente al futuro prossimo venturo ma al post-2013, quando verosimilmente l’apporto dei fondi strutturali europei non riguarderà l’Italia che in misura molto modesta.
Ad una Banca per il Mezzogiorno, si lavorò, con alla guida l’allora Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giuliano Amato, alla fine degli Anni 80 quando, in seguito ad un incidente parlamentare, la Cassa chiuse i battenti. Da allora, molto è cambiato. Tuttavia, può essere utile riprendere in mano parte delle analisi fatte all’epoca.
Ci sono due aspetti in particolare che, anche alla luce della fine dei “banchi” meridionali – quello di Napoli e quello di Sicilia – e dell’evoluzione (pure tecnico-metodologica) dell’ultimo quarto di secolo meritano di essere esaminati con cura: a) il merito ed il rischio di credito dei soggetti e b) la valutazione dei progetti (e l’enfasi ai benefici occupazionali che occorre dare nei criteri di scelta).
Senza dubbio le casse di risparmio e le banche popolari di credito cooperativo che , con la loro vasta rete, sarebbero elemento centrale del nuovo istituto, hanno esperienza di analisi di merito e di rischio. Portano un bagaglio ricco di culture differenti, più spesso in materia di analisi di merito ma meno profondo in campo di rischio. Sarebbe utile, ove non essenziale, mettere in atto un programma organico di seminari e di corsi di formazione sia per trarre il meglio dal ricco bagaglio sia per definire parametri di valutazione dei potenziali creditori e criteri di scelta uniformi sia per irrobustire le analisi di rischio.
E’ auspicabile che dal merito e dal rischio del soggetto si vada alla valutazione dell’oggetto – il progetto. In questa materia, ha avuto per anni esperienza la Cassa Depositi e Prestiti che, pur entrando in funzione molto minoritaria nel nuovo istituto, alla metà degli Anni 80 aveva creato nel proprio seno un gruppo di valutazione che utilizzava metodi e procedure semplificate ma rigorose per esaminare proposte d’investimento dei Comuni. Il gruppo ha operato,con alterne vicende, sino a qualche anno fa quando si è sfarinato per vari motivi (pensionamenti, poco interesse da parte del management). Occorre ripristinarlo. Oppure creare una struttura del genere in Città Italia (il centro studi Anci) o alla Svimez oppure altrove. Non si può eludere il problema. E tornare a progetti fasulli o inesistenti o a basso rendimento economico e sociale. Ne andrebbe della reputazione della Banca e dello sviluppo del Sud e delle Isole.
Per quanto riguarda l’aspetto relativo al nesso tra occupazione e sbocchi commerciali , il rapporto della Fondazione Fare Futuro “Fare Italia nel mondo” è ricco d’indicazioni precise . Esse rappresentano un’utile tavola di bordo per la politica .

Nessun commento: