lunedì 10 agosto 2009

Rossini Opera Festival, a Pesaro fischi per la costosa “Zelmira” Il Velino 10 agosto

Rossini Opera Festival, a Pesaro fischi per la costosa “Zelmira”


Roma, 10 ago (Velino) - La trentesima edizione a Pesaro del Rossini Opera Festival (Rof) è stata inaugurata ieri sera da “Zelmira”. L’allestimento, le scene, i costumi e la regia sono stati fischiati da gran parte del pubblico dopo circa quattro ore di spettacolo nell’“Adriatic Arena”, lo stadio di pallavolo trasformato in teatro in attesa che il fatiscente Palafestival venga nuovamente reso agibile. Una reazione quella del pubblico che deve invitare la gestione del Rof a una riflessione. “Zelmira” è un’opera che al giorno d’oggi viene eseguita raramente. E’ stata rilanciata circa 20 anni fa con un’elegante ma scorciata produzione al Teatro dell’Opera di Roma e messa in scena in un differente allestimento a Pesaro nel 1995. Anche se raccolse grande successo nel 1822-26, pare che oltre alle due edizioni citate non ve ne siano state altre in tempi moderni. Ultimo lavoro di Gioacchino Rossini per il San Carlo di Napoli, l’opera venne concepita guardando a Vienna, dove tutta la compagnia del teatro napoletano la portò in una lunga trasferta durante la quale venne acclamata e replicata per circa un mese. Si disse che venne apprezzata soprattutto dal potentissimo Metternich che ne patrocinò addirittura un’esecuzione a Verona per il congresso della Santa Alleanza. Venne rappresentata a Venezia, a Roma in parallelo in due teatri (Argentina e Valle) e quasi contemporaneamente all’Accademia Filarmonica. Andò, ovviamente, alla Scala e in altri importanti teatri italiani. A Londra venne scelta per inaugurare la stagione rossiniana al King’s Theatre e a Parigi venne ampliata e leggermente modificata nel finale, all’inizio delle attività del Théatre Italien. Poco dopo il silenzio sino al 1995, o giù di lì, e anche da allora pochissime riprese.

Per una curiosa coincidenza, il debutto napoletano di “Zelmira” il 16 febbraio 1822 avvenne pochi giorni prima che Rossini compisse trent’anni. Molto liberale sotto le lenzuola, – non si faceva scrupolo che il proprio impresario Domenico Barbaja fosse l’amante della sua stessa donna, Isabella Colbran la quale, dopo pochi giorni dal lancio dell’opera di cui era la protagonista, sarebbe diventata sua moglie -, il compositore pesarese era già intimamente conservatore dal punto di vista politico. Rossini era un “legittimista”, ossia favorevole al ritorno dei “legittimi” sovrani sui troni delle rispettive dinastie dopo il tormentone rivoluzionario e napoleonico. Pur se l’arzigogolato libretto di Andrea Leone Tottola (basato su un drammone di tal Pierre-Laurent Burette che firmava con lo pseudonimo di Dormont de Belloy), si svolge ai tempi omerici, in “Zelmira” intrighi, tradimenti, parricidi veri e presunti hanno come fulcro centrale la legittimità dinastica in quanto elemento essenziale per quell’ordine che a Rossini era già tanto caro. Il musicologo Bruno Cagli considera un pregio del libretto quello di essere “un centone di situazioni melodrammatiche di forte connotazione” e afferma che l’opera è “un lavoro di supremo magistero in cui ogni dettaglio sembra sottoposto ad un vaglio spietato ed ogni elemento (del lessico rossiniano, n.d.r.) riproposto o ripensato ex-novo”. Una specialista rossiniana come Kathleen Kuzmick Hansell mette in risalto l’estremo virtuosismo delle parti vocali, l’orchestrazione piena di colore e fantasia, le soluzioni avanzate. Altri ancora, come Emilio Sala, vedono “Zelmira” come un ponte verso il melodramma belliniano (“Bianca e Fernando”, “Il Pirata”).

Forse sarebbe il caso di considerare “Zelmira” come figlia d’occasione del proprio tempo, sia drammaturgicamente che musicalmente. Rossini aveva dato il meglio di sé pochi mesi di cominciare a comporla, con quel “Maometto II” così innovativo che nessuno comprese e che fu un fiasco tale da essere coperto da una fitta coltre di oblio sino alla fine del Novecento (da allora viene riproposto continuamente in Italia ed all’estero). “Zelmira” rappresenta non solo un passo indietro, ma l’inizio di una parabola discendente pur se interrotta da capolavori assoluti come “Semiramide”, “Le Comte Ory” e “Guillaume Tell”. Ha una struttura sghemba con un secondo atto che dura meno della metà del primo, un lunghissimo finale di circa mezz’ora, vere e proprie gare di vocalità tra i due tenori protagonisti, una scrittura vocale per l’eroina eponima a pennello unicamente per la Colbran, nessuno sviluppo psicologico dei personaggi. Ciò spiega, probabilmente, anche il modesto successo riscosso dopo i valorosi tentativi di rilancio negli ultimi tre lustri. Da un lato, il problema chiave del dramma in musica – la legittimità dinastica – non interessa a nessuno più o meno dal 1830. Dall’altro, l’elegante tavolozza orchestrale e i virtuosismi vocali guardano più al passato che all’avvenire in un’Europa dove andava in scena il “Freischütz” di Weber. Riccardo Bacchelli fu forse troppo severo nell’includerla tra le opere di Rossini “o stanche, o vuote, o stentate, o raffazzonate”. Stendhal utilizzò un linguaggio ancora più pesante. Forse, tutti i torti non li aveva. La rarità delle messe in scene è indicazione indiretta di come non si tratti di un lavoro tra i migliori del pesarese.

Un astuto teatro di regia risolverebbe in parte questi problemi ponendo al centro di “Zelmira” il nodo della legittimità democratica, più consono ai nostri tempi. Al limite, e per celia (non senza ironia), il legittimo Re Polidoro sarebbe vestito e truccato come Berlusconi (l’eletto del popolo e capo legittimo), Antenore e Leucippo come Franceschini e Di Pietro, il Gran Sacerdote come D’Alema, Ilo come Pierferdinando Casini, Zelmira sarebbe una decisa Gelmini e Veltroni finirebbe tra i coristi. Non è però questa la strada che al Rof seguono Giorgio Barberio Corsetti e i suoi collaboratori (Christian Taraborrelli e Angela Buscemi) per le scene e i costumi. Non siamo nelle mitiche isole greche omeriche, come negli allestimenti visti negli ultimi anni, ma in un Novecento travagliato da guerre (forse balcaniche, oppure in Iraq o ancora in Afghanistan) e lotte cruente di potere e, secondo le intenzioni di Barberio Corsetti, l’intera opera sarebbe “un sogno degli spettatori”. Non mancano ovviamente uniformi di soldati in tuta mimetica. In breve, il drammone del benpensante Tottola diventa un “teatro epico” alla Bertold Brecht. Ma il conservatore, ove non reazionario, Gioacchino Rossini ha una vena ben differente da quella di Kurt Weill anche quando è alle prese con una tavolozza di stimoli musicali non sempre compiuti. Ad aggravare la situazione, ove mai ce ne fosse bisogno, seguendo i canoni del “teatri epico”, non c’è recitazione vera e propria: i cantanti, d’altronde, sono stereotipi di idee non personaggi. Inoltre, la scena unica, quasi sempre nell’oscurità, è dominata da un enorme specchio (Barberio Corsetti dovrebbe lasciare tale attrezzeria a Braunschweig e agli allievi di Svoboda, ossia a specialisti che se ne intendono) e da tronconi di statue: il primo oltre a mostrare scena, orchestra e spettatori da varie prospettive è anche schermo di proiezione per scene di tortura (siamo in una dittatura o no?); le seconde salgono e scendono sul palcoscenico senza un significato che appaio chiaro agli spettatori.

Ove ciò non bastasse, l’edizione “critica” utilizzata per lo spettacolo, firmata da Helen Greenwald e Kathleen Kuzmick Hansell, fonde la versione napoletana con quella viennese e quella parigina. L’esito è una durata wagneriana di una tavolozza incompiuta. Lo stesso Rossini, in vita, non fece nulla per resuscitare “Zelmira”, ma riversò parte dalla musica in altri lavori. Per quanto riguarda la parte musicale, l’orchestra del Teatro Comunale di Bologna guidata da Roberto Abbado ha offerto una lettura pulita e ben calibrata: deve avere provato a lungo per solo quattro rappresentazioni. Dei due tenori, Gregory Kunde, pur goffamente vestito, (un Re usurpatore in doppio-petto da saldo ma con corona e scettro) si è districato bene nel ruolo nonostante le difficoltà con gli acuti e alcuni segni di stanchezza. Juan Diego Flórez (un Ilo in sahariana) è seguito da una tifoseria da curva Sud ed è stato applaudito a scena aperta sin dalla “cavatina” iniziale di agilità. Kate Aldrich, la protagonista Zelmira, è un mezzo soprano, mentre il ruolo venne concepito per la Colbran che era sia soprano sia mezzo: scansa gli acuti e superacuti e ha una dizione quasi incomprensibile.

Marianna Pizzolato (Emma) ha un’emissione perfetta e una dizione precisa e pure lei si tiene lontana dagli acuti. Alex Esposito, Mirco Palazzi, Francisco Brito e Sávio Sperandio sono le trucide macchiette previste dalla regia. Il coro, che un ruolo essenziale, è parso all’inizio uscire da un film di Carlo Verdone ma ha acquistato movimento e spessore via via che lo spettacolo avanzava. In sintesi: si sconsiglia che dello spettacolo resti traccia in dvd, mentre un cd può essere un’utile aggiunta alla discografia rossiniana. Un’ultima osservazione: questo allestimento di “Zelmira” pare sia costosissimo. Non sarebbe stato meglio distribuire le risorse su più repliche di spettacoli meno elaborati e tali da essere coprodotti con altri teatri o noleggiati in Italia e all’estero?

(Hans Sachs) 10 ago 2009 12:50





Alla c.a. Ruggero Guarini,Emanuele Gatto

Vi ho fatto inviare le foto di tutte le tre opere- oltre a “Zelmira”, “La Scala di Seta” e “Le Comte Ory”. Suggerisco di mettere “Zelmira” oggi, “Scala di Seta” a metà settimana e “Le Comte” lunedì prossimo. Sarò in Francia dal 15 al 24 e non so cosa vi invierò prima della fine del mese. Fatemi in ogni caso sapere a chi inviare
Giuseppe

Fischiato l’allestimento della prima del Rof
“ZELMIRA”, ROSSINI A 30 ANNI ERA GIA’ CONSERVATORE
Hans Sachs

La trentesima edizione del Rossini Opera Festival (Rof) è stata inaugurata la sera del 9 agosto con “Zelmira”. L’allestimento, le scene, i costumi e la regia sono stati fischiati da gran parte del pubblico dopo circa quattro ore di spettacolo nell’”Adriatic Arena”, lo stadio di pallavolo trasformato in teatro in attesa che il fatiscente Palafestival venga nuovamente reso agibile. La reazione del pubblico deve invitare la gestione del Rof ad una riflessione. Cerchiamo di spiegare perché è stata così rumorosa.
“Zelmira” è opera raramente eseguita in tempi moderni – venne rilanciata circa 20 anni fa con un’elegante (ma scorciata) produzione al Teatro dell’Opera di Roma e messa in scena in un differente allestimento Pesaro nel 1995. Anche se fu di grande successo nel 1822-26, pare che oltre alle due edizioni citate non ci ne siano state altre in tempi moderni. Ultimo lavoro del pesarese per il San Carlo venne concepita guardando a Vienna, dove tutta la compagnia del teatro napoletano andò in una lunga trasferta e l’opera venne acclamata e replicata per circa un mese; si disse che venne apprezzata soprattutto dal potentissimo Metternich che ne patrocinò addirittura un’esecuzione a Verona per il Congresso della Santa Alleanza. Venne rappresentata a Venezia; a Roma in parallelo in due teatri (Argentina e Valle) e quasi contemporaneamente all’Accademia Filarmonica. Andò, ovviamente, alla Scala ed in altri importanti teatri italiani. A Londra venne scelta per inaugurare la stagione rossiniana al King’s Theatre ed a Parigi venne ampliata, leggermente modificata (nel finale), all’inizio delle attività del Théâtre Italien. Poco dopo il silenzio sino al 1995, o giù di lì, ed anche da allora pochissime riprese.
Per una curiosa coincidenza il debutto napoletano di “Zelmira” avvenne pochi giorni prima che il compositore compisse trent’anni. Molto liberale sotto le lenzuola – non si faceva tanto scrupolo che il suo impresario Barbaja fosse l’amante della sua stessa donna, Isabella Colbran che , dopo pochi giorni dal lancio dell’opera (di cui era la protagonista) sarebbe diventata sua moglie, era già intimamente conservatore sotto il profilo politico. Era un “legittimista” – ossia a favore del ritorno dei “legittimi” sovrani sui troni delle rispettive dinastie dopo il tormentone rivoluzionario e napoleonico. Pur se l’arzigogolato libretto di Andrea Leone Tottola (basato su un drammone di tal Pierre-Laurent Burette che firmava con lo pseudonimo di Dormono de Belloy), si svolge ai tempi omerici, intrighi, tradimenti, parricidi veri e presunti hanno come fulcro centrale la legittimità dinastica in quanto elemento essenziale per quell’ordine che a Rossini era già tanto caro. Bruno Cagli considera un pregio del libretto quello di essere “un centone di situazioni melodrammatiche di forte connotazione” ed afferma che l’”opera un lavoro di supremo magistero in cui ogni dettaglio sembra sottoposto ad un vaglio spietato ed ogni elemento (del lessico rossiniano – n.d.r.) riproposto o ripensato ex-novo”. Una specialista rossiniana come Kathleen Kuzmick Hansell mette in risalto l’estremo virtuosismo delle parti vocali , l’orchestrazione piena di colore e fantasia , le soluzioni avanzate. Altri ancora, come Emilio Sala, vedono “Zelmira” come un ponte verso il melodramma belliniano (“Bianca e Fernando”, “Il Pirata”).
Il vostro “chroniqueur” è un scettico e considera “Zelmira” figlia d’occasione del proprio tempo sia drammaturgicamente sia musicalmente. Rossini aveva dato il meglio di sé pochi mesi di cominciare a comporre “Zelmira” con quel “Maometto II” così innovativo che nessuno comprese e fu un fiasco tale da essere coperto da una fitte coltre di oblio sino alla fine del Novecento (da allora viene riproposto continuamente in Italia ed all’estero). “Zelmira” rappresenta non solo un passo indietro ma l’inizio di una parabola discendente (pur se interrotta da capolavori assoluti come “Semiramide”, “Le Comte Ory” e “Guillaume Tell”); ha una struttura sghemba (con un secondo atto che dura meno della metà del primo), un lunghissimo finale primo (circa mezz’ora), vere e proprie gare di vocalità tra i due tenori protagonisti, una scrittura vocale per l’eroina eponima a pennello unicamente per la Colbran , nessuno sviluppo psicologico dei personaggi. Ciò spiega, a mio avviso, anche il modesto successo dopo i valorosi tentativi di rilancio negli ultimi tre lustri. Da un lato, il problema chiave del dramma in musica – la legittimità dinastica – non interessa più nessuno (dal 1830 o giù di lì). Da altro, l’elegante tavolozza orchestrale e i virtuosismi vocali guardano più al passato che all’avvenire in un’Europa dove andava in scena il “Freischütz” di Weber. Riccardo Bacchelli fu forse troppo severo nell’includerla tra le opere di Rossini “o stanche, o vuote, o stentate, o raffazzonate”. Stendhal utilizzò un linguaggio ancora più pesante. Forse, tutti i torti non li aveva. La rarità delle messe in scene è indicazione indiretta di come non si tratti di un lavoro tra i migliori del pesarese.
Un astuto teatro di regia risolverebbe in parte questi problemi ponendo al centro dell’opera il nodo della legittimità democratica, più consono ai nostri tempi. Al limite, e per celia (non senza ironia), il legittimo Re Polidoro sarebbe vestito e truccato come Berlusconi (l’eletto del popolo e capo legittimo), mentre Antenero e Leucippo come Franceschini e Di Pietro, il Gran Sacerdote come D’Alema, Ilo come Casini (Pierferdinando), Zelmira sarebbe una dedica e decisa Gelmini. Veltroni finirebbe tra i coristi.
Non è la strada che seguono Giorgio Barbieri Corsetti e i suoi collaboratori (Christian Taraborrelli e Angela Buscemi) per le scene ed costumi. Non siamo nelle mitiche isole greche omeriche come nei due allestimenti precedenti che ho visto in questi anni, ma in Novecento travagliato da guerre (forse balcaniche, oppure in Iraq od ancora in Afghanistan) e lotte cruente di potere – secondo le intenzioni di Barbiero Corsetti – l’intera opera sarebbe “un sogno degli spettatori”. Non mancano ovviamente uniformi soldati in tuta mimetica. In breve, il drammone del benpensante Tottola diventa un “teatro epico” alla Bertold Brecht. Ma il conservatore, ove non reazionario, Gioacchino Rossini ha una vena ben differente da quella di Kurt Weill anche quando è alle prese con una tavolozza di stimoli musicali non sempre compiuti. Ad aggravare la situazione (ove mai ce ne fosse bisogno), seguendo i canoni del “teatri epico”, non c’è recitazione vera e propria: i cantanti , d’altronde, sono stereotipi di idee non personaggi. Inoltre, la scena unica – quasi sempre nell’oscurità- è dominata da un enorme specchio (Barberio Corsetti dovrebbe lasciare tale attrezzeria a Braunsweigh ed agli allievi di Svoboda – ossia a specialisti che se ne intendono) e da tronconi di statue: il primo oltre a mostrare scena, orchestra e spettatori da varie prospettive è anche schermo di proiezione per scene di tortura (siamo in una dittatura o no?) , le seconde salgono e scendono sul palcoscenico senza un significato che appaio chiaro agli spettatori.
Ove ciò non bastasse l’edizione “critica” utilizzata per lo spettacolo – firmata da Helen Greenwald e Kathleen Kuzmick Hansell – fonde la versione napoletana, con quella viennese e quella parigina; l’esito è una durata wagneriana di una tavolozza incompiuta ; lo stesso Rossini, in vita, non fece nulla per resuscitare “Zelmira”, ma riversò parte dalla musica in altri lavori.
La parte musicale è apparsa di quella scenica. L’orchestra del Teatro Comunale di Bologna (dove l’opera non è in programma la prossima stagione e dubito che lo sarà mai) guidata da Roberto Abbado ha offerto una lettura pulita e ben calibrate: devono avere provato a lungo per solo quattro rappresentazioni. Dei due tenori, Gregory Kunde (pur goffamente vestito: un Re usurpatore in doppio-petto da saldo ma con corona e scettro) si è districato bene nel ruolo nonostante difficoltà con gli acuti e segni di stanchezza. Juan Diego Flórez (in sahariana) è seguito da tifoseria da curva Sud; è stato applaudito a scena aperta sin dalla “cavatina” iniziale di agilità. Kate Aldrich, la protagonista, è un mezzo soprano, mentre il ruolo venne concepito per la Colbran che era sia soprano sia mezzo: scansa gli acuti (per non dire dai superacuti) ed ha una dizione quasi incomprensibile. Marianna Pizzolato ha un’emissione perfetta e una dizione precisa; pure lei si tiene lontana dagli acuti. Alex Esposito, Marco Palazzi, Francisco Brito e Sávio Sperandio sono le trucide macchiette previste dalla regia. Il coro, che un ruolo essenziale, è parso all’inizio uscire da un film di Carlo Verdone ma ha acquistato movimento e spessore via via che lo spettacolo avanzava.
In sintesi, si sconsiglia che dello spettacolo resti traccia in DvD, mentre un cd può essere un’utile aggiunta alla discografia rossiniana. Un’ultima notazione: questo allestimento di “Zelmira” pare costosissimo. Non sarebbe stato meglio distribuire le risorse su più repliche di spettacoli meno elaborati e tali da essere coprodotti con altri teatri o noleggiati in Italia ed all’estero?

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