sabato 27 giugno 2009

MADE IN BRITTEN Il Foglio 27 giugno

Con Richard Strauss e Leos Janaceck, Benjamin Britten, è uno dei tre maggiori grandi del teatro in musica del “Novecento storico”. La messa in scena alla Scala di “A Midsummer Night’s Dream” in un allestimento concepito, nel 1991 per il Festival di Aix en Provence, dall’allora enfant prodige, Robert Carsen, ha proposto un tema raramente affrontato: quella della sensualità e della sessualità che pervade tutti i lavori di Britten, tranne gli apologhi religiosi, scritti per essere rappresentati in Chiesa. La regia di Carsen esplode di sensualità e sessualità, nei modi in cui sensualità e sessualità si potevano rappresentare circa 20 anni fa, senza la pletora, ad esempio, di maschi nudi come nel “Der Rosenkavalier” da lui allestito per il Festival di Salisburgo.
Non è stato affrontato il tema più profondo: il trattamento di Britten da parte dei “poteri costituiti” è una delle prove più concrete del fatto che nei confronti degli intellettuali ”scomodi”, le norme si interpretano ( se apprezzati a Palazzo) mentre si applicano se il Palazzo teme che possano essere eversivi.
La Gran Bretagna dell’immediato secondo dopoguerra era bigotta. Avrebbe volentieri mandato in carcere un nuovo Oscar Wilde per sodomia e corruzione di minori, se si fosse presentato il caso. E’ l’unico Paese in cui è stata vietata la messa in scena di “A View from the Bridge” di Arthur Miller (rappresentato pure della perbenista Italia centrista) perché nel secondo atto il protagonista Eddie Carbone bacia il giovane immigrato clandestino nel tentativo di far pensare alla propria nipote (su cui ha mire) che il ragazzo avrebbe tendenze allora dette “devianti”. Dato il successo mondiale del lavoro di Miller (un film di cassetta, due drammi in musica- di cui uno di Renzo Rossellini), si ricorse al sotterfugio di trasformare un teatro del West End da srl a club privato ed i biglietti in tessere di soci del sodalizio il cui unico scopo sociale era quello di mettere in scena il dramma di Miller (allora considerato potenzialmente eversivo).
In questa Londra dove, tra genuflessioni e benedizioni, si guardava dal buco della serratura, Britten rompe tutti gli schemi. Nel 1939 (all’approssimarsi dal conflitto), a 26 anni (e già famoso per un’operetta e musiche di scena), evita la leva andando oltreoceano con Peter Pears, suo compagno di vita sino alla morte. Rientrato in Patria, trionfa, non inun teatro trasformato in club, ma al Sadler’s Wells (una delle sale storiche della capitale) con “Peter Grimes”, capolavoro sulla solitudine di chi è diverso ma pur sempre incentrato su rapporti ambigui tra il protagonista ed i mozzi che ingaggia di volta in volta (e che mai ritornano dalle escursioni a mare). Ancora più esplicito “Billy Budd”, un’opera con solo uomini e ragazzi in scena - 17 voci maschili (5 tenori, 8 baritoni, un baritono basso e 3 bassi) con la vocalità chiara affidata ad un quartetto di adolescenti e dieci fanciulli che non cantano ma chiacchierano sullo sfondo. Uno dei protagonisti, Claggard (il “Male”), è un omosessuale sadico, ma anche il giovane e forse casto Billy (che è, invece il “Bene”), ha, in camerata, un duetto omoerotico con un commilitone. Il suo testamento – “A Death in Venice”- arriva nel 1973, quando Britten sapeva di essere molto malato (sarebbe deceduto nel 1976) e i “mores” britannici erano cambiati: tratto dal romanzo omonimo di Thomas Mann è un addio alla bellezza (un giovane adolescente) concepita come senso della vita. Fu un successo enorme, ripreso nel giro di un paio d’anni da 15 dei maggiori teatri europei ed americani.
A rendere il quadro ancora più complicato – ove mai ce ne fosse bisogno- oltre che imboscato e renitente alla leva (in tempo di guerra) e noto “gay” (nei repressivi Anni 50(), Britten era pure un cattolico praticante, in un Regno in cui la Regina è anche il Capo della Chiesa. Non un ateo devoto che si recava al Castello di Windsor o all’Abbazia di Canterbury per il rispetto dell’etichetta.
Dunque aveva tutte le carte per essere scomodo: pacifista (mentre si combatteva la “battaglia d’Inghilterra” per la sopravvivenza dell’Impero), “gay” nel proprio orientamento, stile di vita ed opere, cattolico osservante. Eppure , era coccolato dalla Casa Reale e dai poteri costituiti: il suo solo lavoro da dimenticare (pur se all’epoca applauditissimo) è “Gloriana”, commissionato dal Covent Garden per l’incoronazione di Elisabetta II.
Parafrasando Enrico IV di Navarra, si può dire che la tolleranza (per se medesimo) val bene una “Gloriana”.

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