venerdì 15 maggio 2009

INDIVIDUO E STATO NELL’ERA POST-GLOBALE Roma, 15 maggio 2008

Workshop
INDIVIDUO E STATO NELL’ERA POST-GLOBALE
Roma, 15 maggio 2008
Giuseppe Pennisi
Premessa
L'economia sociale di mercato è un approccio al benessere sociale e allo sviluppo che si propone di
garantire sia la libertà di mercato sia la giustizia sociale, armonizzandole tra di loro. L'idea di base è
che la piena realizzazione dell'individuo non può avere luogo se non vengono garantite la libera
iniziativa, la libertà di impresa, la libertà di mercato e la proprietà privata, ma che queste condizioni,
da sole, non garantiscono la realizzazione della totalità degli individui (la giustizia sociale) e la loro
integrità psicofisica, per cui lo Stato deve intervenire laddove esse presentano i loro limiti.
L'intervento non deve, però, guidare il mercato o interferire con i suoi esiti naturali: deve prestare il
suo soccorso laddove il mercato stesso fallisce nella sua funzione sociale e deve fare in modo che
diminuiscano il più possibile i casi di fallimento del mercato medesimo. Trae origine
dall'Ortoliberalismo della Scuola di Friburgo di Walter Eucken, durante la crisi della Repubblica di
Weimar, scuola che già riconosceva la necessità di un controllo non dirigista dello Stato nei
confronti del sistema economico capitalista. Colui che elabora per primo una vera e propria teoria
dell'economia sociale di mercato è Wilhelm Röpke (1899-1966). Röpke propone una "terza via" tra
liberalismo e collettivismo, in cui lo Stato svolge una funzione garantista nei confronti del libero
mercato, ed è consapevole della necessità di una profonda revisione delle regole che
“monopolizzano” il sistema economico.
Le caratteristiche dell’economia sociale di mercato vengono chiaramente delineate in un lavoro
recente della Fondazione Bertelsmann (Bertelsmann Foundation, 1997): «non esiste alcuna
contraddizione tra il mercato e la prospettiva sociale […]adeguate strutture istituzionali e la rule of
law sono in grado di coordinare i comportamenti centrati sull’interesse individuale, orientandoli a
conseguire risultati moralmente accettabili […]. La concorrenza è il mezzo per scoprire e realizzare
i potenziali guadagni da integrazione che sprigionano dal rafforzamento della divisione nazionale ed
internazionale del lavoro […]. La concorrenza è sociale e la politica della coesione sociale è
produttiva».
In linea con l’obiettivo di questo seminario di meglio definire l’interazione tra individuo e Stato
nell’era post-globale, questa nota si propone di porre sul tappeto alcuni temi di discussione
relativamente alle specifiche che “l’economia sociale di mercato”, nata nel periodo tra le due guerre
mondiali, e veicolo essenziale per i “miracoli economici” successivi al secondo conflitto mondiale
(Janossy, 1972; Kindleberger, 1967), dovrebbe assumere in un XXI secolo attraversato da una
crisi finanziaria ed economica internazionale e caratterizzato da un’integrazione economica
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internazionale promossa da una “General Purpose Technology” come la tecnologia
dell’informazione e della comunicazione (De Filippi, Pennisi, 2003) che riduce le distanze di spazio
e di tempo sino quasi ad annullarle.
La nota si sofferma su questi temi di discussione: a) “l’economia sociale di mercato” nel rule of law
dell’economia internazionale per superare la crisi in corso e, quel che più conta, per definire le
regole e le prassi del mondo del “dopo-crisi”; b) il ruolo dello Stato nel frenare le tendenze verso la
frammentazione economica internazionale; c) la funzione dello Stato nel rafforzare l’efficacia e
l’efficienza del mercato; d) il “capitale sociale” come strumento di controllo nei confronti delle
disfunzioni del “non mercato” e di valorizzazione del nuovo stato sociale (welfare) che emergerà
nel dopo-crisi.
In premessa, occorre ricordare tre caratteristiche essenziali dell’integrazione economica
internazionale: a) la scomposizione geografica della catena del lavoro; b) l’importanza crescente
delle relazioni interpersonali sulla spinta della riduzione delle distanze di spazio e di tempo derivate
dalla tecnologia dell’informazione e della comunicazione (De Filippi, Pennisi, 2003, Blinder 2006);
c) l’aumento progressivo della flessibilità e della versatilità del lavoro (Lindeck, Snower, 2000).
L’economia sociale di mercato ed il futuro dell’economia internazionale
È tema pressante non solo in ragione della crisi finanziaria ed economica in atto ma anche a causa
del G8 in programma il prossimo luglio in Italia. È un vertice di capi di Stato e di governo
differente da tutti gli altri poiché sarà verosimilmente l’ultimo della serie iniziata circa 35 anni fa
nel Castello di Rambouillet. In quanto ultimo G8 resterà negli annali della storia economica e,
soprattutto, dovrà indicare agli altri G la rotta per il futuro, non solo per uscire dalla crisi ma per
quello che dovrà essere il mondo del dopo-crisi. Un po’ come avvenne con le conferenze di Bretton
Woods (per la finanza) e di La Havana (per il commercio) mentre volgeva al termine la Seconda
guerra mondiale (Gardner, 1956). Ciò rende tremendamente importanti il ruolo e le responsabilità
dell’Italia, ultimo Presidente dell’ultimo G8.
L’attenzione si è concentrata sulle nuove regole per la finanza mondiale (Kose, Prasad, Rogoff,
Wei, 2009), È tema centrale sia per il riassetto sia per il dopo-crisi. Data la delicatezza della
materia, è necessario che prevalga il riserbo della diplomazia economica internazionale. È, tuttavia,
di buon auspicio, il fatto che il 18 aprile all’Adlon Hotel di Berlino, nell’ambito di una riunione
dell’Aspen Institute, politici e tecnici dei maggiori paesi industriali ad economia di mercato (gli
italiani e i tedeschi) siano giunti ad un’intesa. È pure importante sapere che, per mutuare il titolo di
un breve ma efficace studio predisposto dal Ceps di Bruxelles e dall’Assonime italiana (Di Noia,
Micossi, 2009), le nuove regole saranno ispirate a semplicità e trasparenza.
L’ultimo G8, però, non potrebbe aprire il solco per il dopo-crisi se non affrontasse l’altro problema
chiave: dal dopoguerra alla metà degli anni Ottanta, il mondo (e in particolare i paesi Ocse) ha
conosciuto una crescita senza precedenti accompagnata da una riduzione delle disparità, ma negli
ultimi 20 anni (sino alla crisi in corso) la crescita è stata a macchia di leopardo e ovunque
contraddistinta da un aumento delle differenze di reddito e di benessere. Il mercato è stato la
locomotiva della crescita sino a quando i conducenti erano consapevoli di tenere la barra di una
rotta che ne correggesse le imperfezioni e coniugasse crescita con equità. Tornerà ad esserlo se i
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conducenti del futuro riacquisteranno tale consapevolezza e terranno la barra dritta. Lo sottolinea
efficacemente monsignor Giampaolo Crepaldi, segretario del Pontificio Consiglio Justitia et Pax in
un suo lavoro recente (Crepaldi, 2006) e Giuseppe Di Taranto nella rassegna sull’economia
dell’integrazione internazionale (Di Taranto, 2009).
I segni recenti di “deglobalizzazione”
Da alcuni mesi si avvertono i segni di una contrazione non solo del commercio mondiale (per
l’anno in corso l’Organizzazione mondiale del commercio, Omc, prevede una riduzione in valore
del 9% dell’export globale) ma anche degli altri indicatori d’integrazione economica internazionale.
Si è prosciugato il private equity internazionale, sono in caduta libera gli investimenti diretti
all’estero, frenano anche le migrazioni. Diciassette dei paesi del G20 hanno posto barriere
protezionistiche agli scambi. Tornano i controlli valutari. È probabile che quando, con il dovuto
distacco, gli storici economici si occuperanno di questi lustri porranno probabilmente il 2008 come
l’anno dell’inizio convenzionale della deglobalizzazione. Si stanno correggendo, ove non
capovolgendo, le affermazioni banali sulle implicazioni (sull’economia reale) della crisi sulle piazze
finanziare e si sta iniziando a comprendere come ciò che avviene, ormai da anni, sui mercati
finanziari è conseguenza di disfunzioni dell’economia reale. Lo dicono gli esperti della moneta. Già
un anno fa, Paul Tucker del Monetary Policy Committee, il direttorio della Bank of England,
sottolineava che: a) è la prima volta che una crisi di questa portata avviene in periodo di pace; b)
una delle sue determinanti è stata il social contract tra banche centrali e autorità politiche per fare
fronte a problemi economici sistemici (Tucker, 2008). Questo social contract ha dato priorità
all’innovazione finanziaria, senza, però, definirne regole adeguate. Sino a quando è giunta
l’implosione – una rarità in tempo di pace – dopo che, in seguito alla depressione degli anni Trenta,
le autorità di politica economica hanno iniziato a gestire domanda aggregata con strumentazione
tale, in certi casi, da consentire pure il fine tuning (virtuosismo). Considerazioni simili si leggono in
una raccolta di saggi, a cura di Gian Giacomo Nardozzi appena completata (Nardozzi, 2009).
Anche se, per utilizzare il lessico del presidente Usa Barack Obama, si intravedono “barlumi” di
ripresa, la più recente tornata di previsioni econometriche (18 aprile 2009) non è ottimistica. I 20
maggiori centri privati di analisi macro-econometrica (non ce n’è neanche uno italiano) stimano, per
l’anno in corso, una contrazione del 2,7% per gli Usa, del 3,4% per l’area dell’euro, del 3,5% per la
Gran Bretagna e del 6,5% per il Giappone. Lenta e graduale la ripresa ora preconizzata per 2010
(secondo stime che gli istituti stessi chiamano preliminari): 1,4% per gli Usa, 0,2% per l’area
dell’euro, 0,3% per la Gran Bretagna e 0,4% per il Giappone. Non si tratta unicamente di dati
“congiunturali”, ossia di breve periodo. Un’analisi di documenti tecnici (apparentemente solo per
gli addetti ai lavori) sul commercio internazionale evidenzia che è cambiata l’elasticità degli scambi
mondiali di manufatti alle variazioni del Pil: dopo essere stata, nel corso degli anni Novanta, attorno
a 2,5 (ossia gli scambi mondiali aumentavano di 2,5 punti percentuali quando il Pil cresceva di un
punto percentuale), risulta in questo primo scorcio di XXI secolo inferiore a 2 e pare tenda ad
approssimarsi a 1 (Wto 2008). In breve, ciò vuole dire che il meccanismo tradizionale di
propagazione della crescita si sta indebolendo. E lo sta facendo molto rapidamente (Guerrieri,
Padoan, 2009).
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Altro indicatore di rilievo è il vero e proprio crollo degli investimenti diretti all’estero: pur tenendo
conto delle scorrerie dei fondi sovrani dei nuovi ricchi dell’economia mondiale, dall’inizio del
secolo il flusso di investimenti diretti (non in portafoglio) all’estero è quasi dimezzato rispetto
all’ultimo decennio del secolo scorso (ad esempio, Zhan, He, 2009).
Dopo il fallimento della trattativa multilaterale sugli scambi sono in corso due tendenze piene di
insidie (per l’integrazione economica internazionale): il rafforzarsi di mercati comuni o zone di
libero scambio regionali e il moltiplicarsi di accordi commerciali bilaterali. Il pullulare di accordi
bilaterali (Trakman, 2008) minaccia di frammentare il commercio o almeno di ingabbiarlo in una
ragnatela simile a un labirinto.
Le esperienze del passato insegnano che le deglobalizzazioni, se lasciate a sé stesse, non portano
nulla di buono: sono spesso state i prolegomeni di conflitti di vasta entità: la prima grande
deglobalizzazione 1870-1910 si chiuse con due colpi di pistola a Sarajevo. Forse il conflitto armato
risultante dalla deglobalizzazione è già iniziato; il terrorismo ormai ramificato in tutto il mondo
(anche in Italia) è la sua avanguardia. Lo avverte uno dei maggiori economisti americani, Martin
Feldstein, alla guida del Comitato dei consiglieri economici della Casa Bianca per due
amministrazioni e presidente (una carica elettiva quadriennale), per quattro lustri, del National
Bureau of Economic Research (Nber), l’equivalente Usa di un Cnr per la disciplina economica
(Feldstein, 2009). Röpke lo aveva anticipato in un libro premonitore degli anni Quaranta.
Chi sono gli alleati della deglobalizzazione? Non sono certo i rumorosi no global. Hanno la
capacità di organizzare manifestazioni ma non quella di invertire le tendenze. I veri alleati della
deglobalizzazione sono quelli che, ai tempi del Kennedy Round (ossia nella seconda metà degli
anni Sessanta) Mario Casari (Casari, 1967) chiamava i ”barracuda-esperti”: sovente alti funzionari
molto vicini a settori produttivi intrinsecamente protezionisti, nonché a sindacati, anch’essi sempre
più ostili alla globalizzazione anche quando, a parole, se ne professano favorevoli. Una schiera
vasta e composita che si nutre delle imperfezioni e delle disfunzioni del mercato e delle rendite che
esse comportano.
Per un mercato forte, plurale e leale è necessario uno Stato forte con regole chiare e semplici, ma
rigorose. Tale Stato forte è mancato – lo sottolineano gli storici economici (Hatton, O’Ruorke,
Taylor, 2007) quando la deglobalizzazione del primo decennio del secolo scorso ha portato alla
prima guerra mondiale, le cui ferite hanno generato le seconde. Non è stato adeguatamente
compreso come il progressivo indebolimento dello Stato abbia rappresentato una delle determinanti
che hanno innescato la crisi in corso. Lo avverte il premio Nobel Paul Krugman (Krugman, 2008):
sino alla metà degli anni Ottanta il processo d’integrazione economica internazionale è stato
pilotato da Stati forti e consapevoli dei necessari riequilibri e ammortizzatori interni (ad esempio,
l’accordo del Plaza del 1985 sui tassi di cambio e le politiche di crescita); dal dopoguerra alla metà
degli anni Ottanta, il mondo è stato caratterizzato da una rapida crescita e da una riduzioni delle
disparità tra ricchi e poveri; negli ultimi venti anni, invece, alla globalizzazione e alla
finanziarizzazione apparentemente senza regole ha corrisposto un aumento delle disuguaglianze,
con la minaccia di un sempre maggior distacco tra individuo (specialmente nelle fasce più deboli e a
minor reddito e livelli di consumo) e Stato.
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Se gli Stati non intervengono a governare i processi, la deglobalizzazione può comportare una
frammentazione con danni per tutti, specialmente per i più fragili. La storia non si ripete
meccanicamente, ma chi non ne apprende le lezioni può pagare lo scotto, sempre alto,
dell’ignoranza.
Un mercato forte (anche internazionale) è possibile solo a fronte di Stati forti
La crisi finanziaria ed economica sta comportando (Società Libera 2009) un ritorno della presenza
pubblica nell’economia (sia all’interno dei singoli Stati sia nell’arena internazionale) in questa
prima parte del XXI secolo dopo trenta anni circa in cui il mercato è parso come lo strumento
migliore per curare le proprie imperfezioni (in inglese si utilizza il termine più pregnante failure,
fallimenti) e pure per frenare quelle del “non mercato”. Federico Caffè, maestro per decenni della
principale scuola di economia politica dell’Università di Roma La Sapienza, scrisse un libretto di
poche pagine (piene di sostanza) in difesa dello Stato sociale proprio prima di sparire
misteriosamente (Caffè, 1986). Circa venti anni fa, pubblicai un saggio in due puntate dopo la crisi
delle borse dell’autunno del 1987 avvertendo che il crollo avrebbe dovuto fare riflettere sulla
finanziarizzazione eccessiva del sistema economico, con elevatissime leve d’indebitamento, che
aveva preceduto lo scivolone di Wall Street (Pennisi, 1987).
Il breve saggio di venti anni fa si basava molto sul pensiero economico di Hyman Minski,
economista americano poco considerato in Italia perché anti-marxista e anti-liberista (Minski.
1999). In breve, la teoria economica di Minski riguarda l’informazione e il modo in cui essa viene
percepita da individui, famiglie, imprese e operatori economici in generale. Ciò vuol dire che
tendenze di brevissimo periodo del passato recente, vengono estrapolate nel futuro a lungo termine.
Ne consegue un processo che si può schematizzare in tre stadi: a) nel primo, ci si indebita (pure per
operare sul mercato finanziario nella convinzione che il denaro si produce per mezzo del denaro); b)
nel secondo, si tira la fune per far fronte almeno al pagamento degli interessi (non
dell’ammortamento); c) nel terzo, si entra in una catena di Sant’Antonio o “Ponzi scheme” (analoga
a quella di chi prende in prestito il 125% del valore della casa o delle azioni che possiede nella
convinzione di un apprezzamento, a breve, del 200%). Se dovessi rimettere mano oggi a quanto
scritto venti anni fa, introdurrei un altro elemento: la miopia è strabica perché confonde il rischio
(stimabile sulla base del calcolo delle probabilità) con l’incertezza (il non prevedibile ribaltamento
della situazione). Dalla finanziarizzazione si è passati a una “strutturazione” oggi alla base di molti
titoli tossici, nell’illusione che suddividendo il rischio in parti sempre più piccole (diversificandolo
in coriandoli dalla dimensioni atomistiche) esso si potesse annullare (Pennisi, Scandizzo 2003,
Pennisi 2006). Sino a quando ci si è ricordato che, in certe condizioni, gli atomi esplodono.
Con il senno di poi, si ammettono oggi i costi del capitalismo (Barbera, 2009) Si è meno certi delle
terapie. Nel nostro Dna, c’è ancora il ricordo dello “Stato impiccione e pasticcione”, per prendere a
prestito la brillante definizione data da Giuliano Amato nel 1972 (Amato, 1972).
Un mercato forte e ben funzionante richiede uno Stato altrettanto forte e ben funzionante – capace,
in primo luogo, di curare miopie e strabismi. Due anni fa, l’American Enterprise Institute e la
Brookings Institution hanno pubblicato un lavoro a quattro mani di Robert Hahn e Paul Tetlock
(Hahn, Tetlock, 2007). Ha avuto un’eco modesta in Italia, ma indicava un percorso partendo da una
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migliore valutazione economica da parte della mano pubblica e, quindi, da una migliore formazione
economica nel settore pubblico. Se non se ne prendono cura istituti pubblici di formazione, la sfida
passa alle università e alle fondazioni.
Senza dubbio la dilatazione della spesa pubblica in conseguenza della crisi finanziaria ed
economica internazionale pone nuovi problemi. Non unicamente di compatibilità macroeconomiche
di bilancio (quelle su cui più si mette l’accento) ma anche e soprattutto di qualità della
spesa e del suo contributo a uno Stato forte che regoli un mercato anche esso forte; uno Stato
spendaccione è spesso debole e contribuisce a disfunzioni di mercato quali le rendite. Il fenomeno
riguarda principalmente paesi come gli Stati Uniti (dove tradizionalmente il settore pubblico non ha
mai superato, in tempo di pace, un terzo del Pil) oppure come la Gran Bretagna e molti paesi
neocomunitari con un alto grado di “finanziarizzazione” dell’economia e l’esigenza di vasti
salvataggi di banche e finanziarie. Concerne relativamente meno paesi come la Francia, la
Germania e l’Italia che hanno mantenuto una struttura economica ancorata al manifatturiero, ma
dove le pubbliche amministrazioni intermediano oltre il 50% del Pil e sono affiancate da un vasto
“capitalismo municipale” controllato principalmente a livello locale. In Italia, esso comprende circa
400 imprese con oltre 200.000 addetti e un valore aggiunto pari mediamente all’1% del Pil, ma tale
da sfiorare in alcune Regioni il 6% del reddito prodotto in loco (Pennisi, 2009).
C’è il rischio di distorsioni? Arthur Okun, non certo un liberista, amava dire che «il secchio (della
spesa pubblica) è sempre bucato» (Okun, 1990) e non se ne possono evitare le perdite.
Okun scriveva alla metà degli anni Settanta. Da allora abbiamo imparato che ci sono antidoti. Non
per colmare tutti i buchi del secchio, ma almeno per minimizzarne la portata. Due sono
particolarmente importanti. Il primo dipende quasi interamente dalle pubbliche amministrazione. Il
secondo da tutti noi.
L’antidoto “interno” è un’attenta valutazione delle operazioni di spesa pubblica, facendo ricorso a
metodi di facile apprendimento e diffusione, nonché molto trasparenti, come quelli dell’analisi dei
costi e dei benefici (Acb) finanziari, economici e sociali, integrati, per le partite di spesa più
complesse da analisi anche econometriche degli impatti. La rassegna condotta dalla Brookings
Institution e dall’American Enterprise Institute ha ricordato come l’obbligo di Acb per le voci di
spesa pubblica introdotto nel 1982 non è stato modificato da nessun cambio della guardia alla Casa
Bianca o al Congresso e ha contribuito al miglioramento della qualità dell’azione del governo
federale. In Germania, ne viene fatto ampia applicazione (Fricsk, Ernst, 2008; National
Nomenklature, 2008). In Italia, esiste da dieci anni una norma analoga (la legge 144/1999). Occorre
chiedersi quanto è applicata e quanto disattesa (Pennisi, Scandizzo, 2003).
L’antidoto “esterno” è costituito dal capitale sociale che si sviluppa associando (oggi si direbbe
“mettendo in rete”) il capitale umano di individui, famiglie e imprese. Un quarto di secolo fa,
Robert Putnam (Putnam, 1993) misurò le differenze di capitale sociale nelle regioni italiane. Studi
recenti (e l’esperienza di questi giorni della risposta delle popolazioni al sisma in Abruzzo) provano
che l’Italia è ricca di capitale sociale, anche se non suddiviso uniformemente in tutta la penisola e
spesso non adeguatamente espresso. L’associazionismo – ha scritto il premio Nobel Douglass C.
North (North, 1994) – è il modo più efficace per fare emergere dall’ombra il capitale sociale e dare
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a esso una funzione di vigilanza, di controllo, di premio e di sanzione nei confronti di chi a livello
politico e tecnico gestisce la spesa pubblica.
Individuo e Stato nel post-globale. Il banco di prova: lo “Stato sociale”
Nel concludere, torniamo a quanto visto in premessa. Le tre caratteristiche essenziali
dell’integrazione economica internazionale sono ormai profondamente radicate e resteranno anche
dopo la soluzione della crisi finanziaria ed economica internazionale, sempre che – come nessuno si
augura – tale soluzione non sia un conflitto): a) la scomposizione geografica della catena del lavoro;
b) l’importanza crescente delle relazioni interpersonali ; c) l’aumento progressivo della flessibilità e
della versatilità del lavoro. Il vero banco di prova dell’incontro tra Stato forte e mercato forte in
un’economia sociale di mercato per il XXI secolo consisterà nel come verranno affrontati e sciolti
questi nodi con un giusto equilibrio nell’esaltazione del ruolo dell’individuo e del ruolo dello Stato.
Lo Stato sociale (ossia, previdenza e sanità pubbliche, politiche attive del lavoro, ammortizzatori
nei confronti della disoccupazione involontaria, servizi e assistenza sociale) potranno sopravvivere
alla post-globalizzazione? Una domanda analoga veniva posta alcuni anni fa, allora ci si chiedeva se
lo Stato sociale potesse sopravvivere alla globalizzazione (De Filippi, Pennisi, 2003).
Per lustri si sono confrontate due visioni: una difensiva, secondo cui (rispetto all’integrazione
economica internazionale) si sarebbero dovuti difendere alcuni “diritti quesiti” di base dello Stato
sociale; una propositiva, o, in alcune dizioni aggressiva, secondo cui chi ha a cuore le fasce deboli
avrebbe dovuto trovare percorsi, strumenti e istituti atti a fare sì che si trovava ai livelli più bassi di
reddito e di consumo traesse i maggiori vantaggi dall’integrazione economica internazionale.
All’inizio degli anni Novanta, la stessa Conferenza dell’Organizzazione internazionale del lavoro
spezzò una lancia in favore di una concertazione positiva o aggressiva – quella da me preferita
anche per il principio molto banale secondo cui in un mondo in cui tutti corrono, camminare vuol
dire stare fermi e remare controvento è la premessa per andare a picco.
Le due visioni dei nessi tra post-globalizzazione e Stato sociale sono stati di recente messi a fuoco
in un dibattito internazionale che ha visto schierati, da un lato, Hans-Werner Sinn (uno dei più
autorevoli economisti tedeschi) e, dall’altro, Dennis Snower, Alessio Brown, e Christial Merkl
(Snower, Brown, Merkl, 2009), i quali, nonostante le differenti origini, lavorano presso università e
istituti di ricerca tedeschi. Un dibattito, quindi, tra esperti differenti ma tutti plasmati dalla cultura
dell’economia sociale di mercato.
In sintesi, Sinn vede l’integrazione economica internazionale (anche rallentata dalla crisi o frenata
da contraccolpi) come un processo di specializzazione in cui aumentano le differenze di reddito sia
verticalmente (tra livelli più altri e più bassi di professionalità) sia orizzontalmente (tra aree
geografiche); lo Stato sociale rende ai paesi che lo applicano in maniera estensiva, più costoso
partecipare all’integrazione internazionale. Si verifica un vero e proprio “bazar” (è suo il termine) in
cui imprese, e anche individui e famiglie, possono scegliere la tipologia di Stato sociale che meglio
si adatta a ciascuno: la delocalizzazione e la “fiera delle tasse” (per mutuare il titolo di un libro di
Giulio Tremonti di una diecina di anni fa, Tremonti, Vitaletti, 1991) sono esempi di questo “bazar”
in cui si può essere vincenti unicamente con una minore pressione tributaria, con sindacati più
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consapevoli delle implicazioni dell’internazionalizzazione e con orari di lavoro effettivi più lunghi.
In breve, una strategia difensiva.
Contrapposta la visione di Snower, Brown e Merkl: la chiamano una grande riorganizzazione.
Partono dalla considerazione secondo cui dalla metà degli anni Novanta, gli imprenditori hanno
preso progressivamente contezza del nesso tra nuove tecnologie, sistemi di logistica ed opportunità
commerciali. La produzione e la distribuzione si stanno riorganizzando profondamente puntando su
tre caratteristiche: a) la scomposizione geografica della catena del valore; b) l’importanza crescente
delle relazioni interpersonali e c) la sempre maggiore eterogeneità, versatilità e flessibilità del
lavoro. Ciò rischia di creare una nuova categoria di perdenti se lo Stato sociale non viene ripensato
e riorganizzato, per tenere adeguatamente in conto le nuove caratteristiche di produzione e di
distribuzione. Ciò comporta uno Stato forte ed autorevole che dia a lavoratori e fasce deboli gli
strumenti per diventare essi stessi i vincitori ogni qual volta aumentano le probabilità che diventino
i perdenti. Ciò implica un drastico cambiamento di paradigma: nello Stato sociale tradizionale degli
ultimi cinque decenni, le professionalità vengono definite e classificate ed il ruolo dello Stato è
quello di tutelarle (con stabilizzatori automatici) al verificarsi di shocks, mentre in quello del futuro
lo Stato ha il compito di rendere gli individui adattabili e versatili in modo che possano essere i
protagonisti del processo di trasformazione. Snower, Brown e Merkl delineano meccanismi
specifici (welfare accounts, vouchers di supporto sociale, e benefit transfers, trasferimenti di
benefici in grado di ridistribuire gli incentivi a favore dei meno avvantaggiati). Alcuni di questi
meccanismi hanno trovato, in varie forme, terreno d’applicazione, almeno parziale, in Italia: il
sistema previdenziale contributivo, la social card, la vasta gamma di rapporti di lavoro previsti dalle
legge Biagi, il riordino della formazione professionale con accento sul life-long learning.
Un concezione avveniristica dello Stato sociale del futuro? Probabilmente sì. Almeno sino a quando
la macchina amministrativa non si pone in grado di fare fronte alla sfida. Tuttavia, ha due aspetti
che meritano di essere sottolineati: massimizza l’apporto che le nuove tecnologie della
comunicazione e dell’informazione possono dare allo Stato sociale ed esalta, al tempo stesso, il
ruolo e dell’individuo (a cui lo Stato deve offrire una gamma di opportunità) e dello Stato (che deve
cogliere nell’integrazione economica internazionale l’opportunità per nuovi compiti più innovativi e
meno burocratici di quelli del passato).
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