martedì 21 aprile 2009

MUSICA DI STATO, Il Foglio 22 aprile

Il paradosso è doppio. Sergei Prokofiev, tornato in Patria intriso di cultura futurista e dadaista, ce la mise tutta per ingraziarsi Stalin: il grimaldello per acquisirne le simpatie sarebbe stato un dramma in musica sovietico sino al midollo (“Seymon Kokto”) per il grande pubblico “rivoluzionario”. Pur se basato su un romanzo di uno scrittore iper-allineato con il regime (Vladimir Katayev, pure co-autore del libretto, Premio Stalin del 1949), il lavoro piacque poco al Piccolo Padre. Vsevolod Meyerhold , direttore del teatro che lo aveva commissionato (l’Opera Stanislasky di Mosca), venne, prima, torturato e ,poi, fucilato (oggi è considerato uno dei maggiori innovatori del teatro del Novecento e nella capitale russa hanno creato un museo in suo onore). Il lavoro – nell’Ucraina degli ultimi giorni della prima guerra mondiale, i contadini ed i partigiani “buoni” mettono in fuga gli occupanti tedeschi ed i possidenti terrieri loro collaborazionisti- è stato quasi mai rappresentato nell’Urss sino agli Anni 70. Arriva soltanto oggi in Italia ed in uno dei rari teatri lirici (quello di Cagliari) il cui Sovrintendente, Maurizio Pietrantonio, è considerato contiguo al centro destra. Come mai, per tanti decenni (la prima mondiale risale al 23 giugno 1940) Sovrintendenti culturalmente vicini al centro-sinistra, sempre pronti a mettere in scena lavori di origine sovietica (se non altro nell’ambito di tournee di compagnie dell’Europa orientale) non si sono mai accorti di questa fatica di Prokofiev?
Cerchiamo di spiegare il doppio paradosso. Prokofiev era un figlio capriccioso della “Grande Madre Russia”. Aveva giovanissimo, allacciato relazioni con i futuristi italiani, incontrati a Milano nel corso di un viaggio. Ai primi rulli di tamburo della rivoluzione, ancorché già famoso (benché solo 26nne), espatriò e visse tra gli Usa e l’Europa 17 anni scrivendo e componendo capolavori dadaisti (se ne era appassionato in Francia) come “L’amore delle tre melarance” ed “Il giocatore” e sposando una bellissima spagnola. Rientrò in Russia spinto sia dalla nostalgia sia dalla lusinghe di una intellighenzia ancora non decimata dalle purghe staliniane. Gli venivano indubbiamente concessi privilegi, ma il suo comportamento quotidiano era poco “politically correct”; nella Mosca della metà degli Anni Trenta, scorrazzava a tutta velocità (in strade in cui non c’era quasi nessuna auto privata) in un Ford ultimo modello, indossava un cappotto di puro cammello, scarpe gialle e cravatte arancione, aveva una moglie il cui abbigliamento (ed i cui profumi) venivano da Parigi ed aveva iscritto i figli alla scuola privata anglo-americana (sarebbe stata chiusa nel 1937). Tentava d’integrarsi componendo lavori quali la “Cantata per il XX anniversario della rivoluzione d’ottobre”, le “Quattro marce”, i “Canti dei nostri giorni” e musiche per film “patriottici”- il più noto è “Alexandr Nevsky” di Sergej Eisenstein. Ma gli esiti erano dubbi: la “Cantata” fu bocciata dal Comitato delle Arti del Pcus e, lui vivente, non venne mai eseguita.
Si rivolse, dopo altri tentativi a “Seymon Kokto”, certo che il binomio Kataiev-Meyerhold (non ancora in disgrazia) gli avrebbero fatto fare centro (al cuore di Stalìn). Mentre l’opera stava per debuttare colpo di scena: il patto Molotov-Ribbentrop non consente di mostrare tedeschi “cattivi”. Riscrittura, quindi, del libretto sostituendoli con reazionari “russi bianchi”. Di nuovo, si sta per debuttare quando giunge la notizia dell’invasione dell’Urss da parte delle armate di Hitler. Si torna al libretto originale. Il nostro si aspettava un successo strepitoso (anche a ragione della contingenza politica). La stampa fu gelida:troppo recitativo, mancanza di melodie di facile apprendimento, poco folklore. Dal Comitato delle Arti giunse l’accusa di “formalismo” che solo quattro anni prima aveva impedito le rappresentazioni della “Lady Macbeth” di Schostakovich. Quindi, “Seymon” finì in soffitta – per decenni. Gli stessi “compagni” nei Paesi occidentali mostrarono poca curiosità per il lavoro. Mentre Prokofiev, capita la lezione, iniziò a comporre una “Cantata per i 60 anni di Stalin” e la monumentale “Guerra e Pace”.
Cosa diede fastidio al Comitato delle Arti? Ascoltata oggi nell’unica edizione in commercio l’opera appare straordinariamente moderna: ad un libretto impregnato di realismo socialista corrisponde una scrittura musicale e vocale (ben 48 brevissime scene e) in cui si va dal parlato ritmato alla melodia con tutte le gradazioni intermedie. Ci sono echi di Mussorgski nel modo in cui le voci si sovrappongono e canti popolari si inseriscono nella partitura. Pur volendo comporre l’opera sovietica per eccellenza, Prokofiev era rimasto futurista e dadaista e guardava al futuro. I censori staliniani se ne accorsero allora. Ed oggi la cultura italiana di destra.

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