lunedì 27 aprile 2009

LAVORO, IL MONDO TENTA LA RIPRESA Charta Minuta aprile

Nella veste di Presidente di turno del G8, l’Italia ha ospitato a Roma il 29 marzo il G8 sui temi dell’occupazione e del lavoro. La riunione, presieduta dal Ministro per il Lavoro, la Previdenza, gli Affari Sociali e la Salute (in breve, Welfare, utilizzando un vocabolo inglese entrato nell’uso corrente italiano) è stata estesa ad un totale di 14 Paesi - si tratterà, dunque, di un G14 che ha coinciso quasi con il G20 dei Capi di Stato e di Governo tenuto il 2 aprile. E’ stato un evento importante.
I problemi dell’occupazione e del lavoro sono tanto gravi almeno quanto quelli della crisi finanziaria. Nei giorni in cui questo articolo viene redatto (metà febbraio 2009), la sede centrale dell’Ufficio Internazionale del Lavoro ha diramato stime impressionanti: nel periodo tra il dicembre 2007 ed il dicembre 2009, al mondo 50 milioni di lavoratori (indipendenti ed autonomi) perderanno la loro occupazione e, quindi, la loro principale fonte di reddito. La contrazione dell’occupazione, afferma Nicolas Véron dell’istituto di ricerca europeo Bruegel (la sede centrale è a Bruxelles ma è una delle fonti principali di analisi dell’Economist Intelligence Unit), si sta verificando ad una velocità ben superiore a quanto avevano stimato anche coloro che avevano previsto gli effetti della crisi finanziaria sull’economia reale.
Sotto il profilo politico, oltre che economico e sociale, il nodo si presenta particolarmente grave proprio in Europa, dove negli ultimi cinque anni , nonostante la crescita rasoterra del pil e del valore aggiunto, si pensava che le riforme attuate (specialmente in materia di normativa sul lavoro) aveva fugato per sempre lo spettro della disoccupazione di massa. Un anno e mezzo fa, ad esempio, quando si respirava già l’atmosfera di crisi finanziaria incipiente, pure un quotidiano francese tradizionale a sinistra del centro ha dedicato un numero speciale a “La fine della disoccupazione di massa”. Le cifre parlavano chiaro. Almeno così si pensava. In primo luogo, a fine aprile 2007, in Europa (tanto nella zona dell’euro quanto nell’insieme dell’Ue a 27), il numero di coloro alla ricerca di lavoro (nel lessico giornalistico il tasso di disoccupazione) era sceso al 7,1% delle forze di lavoro (due punti percentuali in meno rispetto a quanto segnato due anni prima). L’Italia era entrata a buon diritto tra i Paesi con un tasso di disoccupazione moderato (il 6,2% a livello nazionale ma concentrato nel Mezzogiorno e nei bacini a riconversione industriale nel Centro-Nord). In Francia, il tasso di disoccupazione era ancora l’8,6% della forza lavoro, ma, per la prima in 25 anni, era sceso, in termini assoluti, al di sotto di due milioni di uomini e donne. La Polonia e l’Estonia contavano, nell’Ue, tassi di disoccupazione più alti di quello della Francia. Ancora maggiore il successo segnato in Germania: si era passati dai 5 milioni di disoccupati nell’aprile 2005 ai 3,7 milioni due anni dopo : la disoccupazione diminuiva, senza cessa, ogni mese da 15 mesi. Quindi, né le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione né il processo d’integrazione economica internazionale avevano creato, in Europa, quella disoccupazione di massa, senza alternative concrete di politica economica ed industriale, temuta una diecina di anni fa: si pensi, ad esempio, alla visione apocalittica della raccolta di saggi “Disoccupazione di fine secolo”, curata da Pierluigi Ciocca, e nata in gran misura nell’ambito del servizio studi della Banca d’Italia alla metà degli Anni 90.
In secondo luogo, non era tutto oro ciò che luccicava. L’Employment Outlook dell’Ocse pubblicato a fine giugno 2008 sottolineava che a partire dal 1995 erano aumentate in misura considerevole le differenze salariali (specialmente se computate sulla base del netto in busta paga). Per questo motivo, c’era un crescente interesse (anche in Italia) nella “flexsecurity” : lavoratori e sindacati dovrebbero essere pronti a rinunciare alla sicurezza nel posto di lavoro specifico per una maggiore sicurezza nel mercato del lavoro in generale accompagnata da ammortizzatori e passerelle per transitare da un impiego all’altro. Tuttavia, ere sempre l’Employment Outlook dell’Ocse a ricordare come “un’altra strada possibile consiste nel rendere più flessibili le normative sul lavoro”.
In terzo luogo, non era soltanto l’Ocse ma anche l’esclusivo (il numero dei soci non può superare 30 e devono essere tutti accademici di rango) Cercle des Economistes francese (un circolo – occorre rammentarlo – in generale a sinistra del centro) a riconoscere come l’allontanamento dello spettro della disoccupazione di massa doveva attribuirsi alle riforme in senso liberale del mercato del lavoro. Quelle già fatte in Italia ed in Germania. Quelle di cui la Francia ha mutuato alcuni istituti (quali il contratto di primo impiego) tre anni fa e che Oltralpe il nuovo Esecutivo si appresta ad estendere ed approfondire con una normativa di urgenza. Un sindacato vasto ed intelligence, e vigorosamente anti-comunista, come Force Ouvrière aveva concluso il 29 giugno 2007, a Lilla, il proprio 21simo congresso chiedendo, in pratica, l’abolizione di quel resta delle pensioni di anzianità e di misure per favorire l’occupazione e dei più giovani e dei più anziani.
Mi sono soffermato sulla situazione e le prospettive quali percepite in Europa quando la crisi finanziaria e la recessione (il Fondo Monetario prevede una contrazione del 2% del pil dei Paesi Ocse nel 2009, la più grave dalla Grande Depressione degli Anni Trenta) cominciavano a battere i primi colpi proprio per sottolineare come il drastico cambiamento di scenario, in gran misura giunto inaspettato, rappresenti un problema politico ancora più grave di quello (pur serissimo economico e sociale) ,

C’è un continente dove la svolta occupazione è ancora più grave che in Europa: crolla l’Asia, che con un tasso medio di crescita del 7,5% l’anno (due volte e mezzo più sostenuto di quello del resto del mondo) ha trainato l’intera economia internazionale. Nell’ultimo trimestre del 2008 (i consuntivi sono stati appena resi disponibili dall’ufficio statistico della Commissione Economica delle Nazioni Unite per l’Asia); Hong Kong, Singapore, la Corea del Sud e Formosa hanno accusato un tasso annuale di contrazione del pil bem del 15% e le loro esportazioni hanno segnato una riduzione (sempre annualizzata) del 50%. E la Cina? Occorre fare attenzione alle cifre: i dati ufficiali (riportati dalla Commissione Economica Onu) parlano di crescita ad un tasso annuo del 6,8% (un rallentamento pur sempre marcato rispetto all’oltre 9,5% dei tre trimestri precedenti) ma, destagionalizzate, espongo un tasso d’aumento dell’output impercettibile (attorno all’1% su base annua) per gli ultimi tre mesi del 2008. E’ atto una migrazione di circa 20 milioni di cinesi che tornano da aree industriali (dove le fabbriche sono state chiuse) verso campagne dove la rivoluzione tecnologica ha hanno sì che ci vogliono molto meno braccia per giungere a rese soddisfacenti; inoltre, la domanda dei mercati urbani si è prosciugata a ragione proprio della fuga verso il settore rurale di lavatori di manifatture che non esistono più. Poche le notizie che escono dalla Cina: sembra che siano in corso, da mesi, veri e propri moti di senza lavoro.
Circa sei anni fa, organizzata dalla Scuola superiore della pubblica amministrazione e dalla Banca mondiale, si tenne alla Reggia di Caserta un seminario a porte chiuse a cui parteciparono quasi tutti i consiglieri economici dei Primi Ministri o dei Ministri Economici dell’Asem (Asia Europe Meeting), un’associazione creata dopo la crisi dell’indebitamento estero del continente nel 1996-98. Ne scaturì un messaggio chiaro: l’Asia in generale e la Cina in particolare non avrebbero potuto sostenere a lungo saggi rapidi di crescita senza una rete di tutela sociale per i più poveri e senza un aumento del tasso di consumo. Da un canto, la rete di tutela si stava appena allestendo e, dall’altro, i consumi non crescono non tanto perché – come afferma la pubblicistica recente – gli asiatici sono iper-risparmiatori ma poiché i redditi da lavoro sono rimasti molto bassi ed in molti casi si sono contratti: in Cina (il Paese più importante se non altro per le sue dimensioni) nel 1998 i salari contribuivano al 53% del pil, nel 2007 al 40% e stime preliminari per il 2008 li portano a meno del 38%. Ciò non è solamente il risultato di un destino cinico e baro che nella Repubblica Popolare milita contro i lavoratori oppure il frutto di datori di lavoro (in primo luogo lo Stato nelle sue varie guise e forme) rapaci. I bassi tassi d’interesse, un tasso di cambio non rappresentativo del valore della valuta estera e sussidi ad industrie di vario tipo, unitamente ad una politica d’infrastturazione di base, sono all’origine di un nodo abbastanza simile a quello che Italia, Germania, Giappone ed Ungheria dovettero in vario modo affrontare al termine del miracolo economico, alla fine degli Anni 60. Fu difficile risolverlo nei nostri Paesi; è molto più arduo farlo in Estremo Oriente.
Ove il quadro non sia abbastanza fosco, occorre pensare che i problemi dell’occupazione e del lavoro minacciano di durare molto più a lungo di quelli della crisi finanziaria e della stessa recessione. Nel numero di dicembre di “Strategic Analysis”, un saggio di Wynne Godley, Dimitri Papadimitriou e Gennaro Zezza documenta che, nonostante la manovra espansionista in atto (e che sarà verosimilmente accentuata da Obama) il saggio di disoccupazione Usa (oggi al 7,2% della forza lavoro) arriverà al 10% entro il 2010. Il fenomeno dell’isteresi (ossia del trascinamento o del lasso temporale tra ripresa dell’economia e quello dell’occupazione) oggi appare più grave di quello che avvenne dopo la recessione del 1979-82 per due ragioni concomitanti: a) lo spessore della contrazione del pil e del commercio internazipnale; e b) l’integrazione economica internazionale. Lo afferma, con ricchezza di dati e d’analisi, Rajarshi Majumber in un saggio di spessore nell’ultimo fascicolo del 2008 dell’”Indian Journal of Labour Economics”. In questo quadro, peggiorano, in tutto il mondo, le condizioni di lavoro: salari, precariato, ammortizzatori. Nel prossimo decennio, il tema centrale delle politiche economiche nazionali ed internazionali sarà la ripartizione del pil tra i redditi da capitale e da lavoro – una situazione analoga a quella in cui Usa ed Europa furono alla fine degli Anni 60.
Le risposte che in giugno potrà dare la conferenza annuale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil) saranno deboli se non arriveranno segnali forti dal G8-G14 lavoristico-occupazionale di fine marzo a Roma. L’Italia sarà tanto più in grado di fornire indirizzo quanto meglio mostrerà di avere la propria casa in ordine. Per questo motivo, è molto utile che il confronto in atto su contrattazione e ammortizzatori sta avendo buon esito. Anche se all’interno della maggioranza ci sono pareri discordi, sarebbe positivo estendere il confronto alla previdenza (sia alla definizione dei nuovi coefficienti di trasformazione – il termine tecnico per indicare la formula in base alla quale i contributi accumulati vengono “trasformati” in rendite annue - sia al ripensamento dei tempi della transizione da metodo retributivo a metodo contributivo – in Svezia realizzato in tre anni mentre in Italia se ne sono previsti da 18 a circa 30, includendo nel computo le pensioni di reversibilità. In questo quadro, si dovrebbe anche risolvere il nodo della disparità (tra uomini e donne) dell’età per fruire di pensioni di vecchiaia – una disparità esistenti in pochissimi Paesi e se giustificata alcuni decenni fa oggi minaccia di penalizzare i lavoratori di genere femminile.
Un’Italia con il welfare ben equilibrato potrebbe proporre un piano internazionale per l’occupazione, analogo al World Employment Program lanciato dall’Oil negli Anni 70 (quando le crisi petrolifere facevano temere una crisi mondiale dell’occupazione) , supportato da una più rigorosa, e meglio monitorata, applicazione delle convenzioni internazionali sul lavoro al fine di contenere il “dumping sociale”.
L’Italia , soprattutto, potrebbe dare il “la” in un approccio moderno alla “concertazione” , almeno nell’ambito dei Paesi sviluppati ad economia di mercato ed ad alto reddito medio pro-capite. Il termine “concertazione” viene dal francese, che, a sua volta, lo ha mutuato dal tedesco. Si riferisce ad accordi tra parti sociali (i rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavori) e tra questi ultimi e la mano pubblica per il raggiungimento di determinati obiettivi di politica o aziendale o settoriale o generale. L’Italia ha avuto una sua profonda esperienza di “concertazione”, sui generis, nel periodo tra le due guerre mondiali – con l’economia “corporativa”, studiata con grande attenzione, all’epoca, da economisti e sociologi di varie parti del mondo (specialmente in quello anglossassone , come rivelano scritti poco noti di Schumpeter e di Keynes). Negli Anni 60 e 70, non si parlava di “concertazione”, ma ci fu la lunga fase degli “accordi interconfederali”, spesso troppo prontamente tradotti in legge da un Parlamento che aveva in parte abdicato al proprio ruolo: un frutto ne fu la normativa sulla previdenza del 1968-69 che, nel giro di pochi anni, ci regalò uno dei sistemi previdenziali più squilibrati (ed uno dei debiti previdenziali in rapporto al pil più alti) al mondo. Gli Anni 80 sono stai l’epoca della “concertazione” propriamente detta: il metodo è stato utilizzato per accompagnare il percorso di rientro dall’inflazione e di riassetto della finanza pubblica - il suo momento più alto è stato “l’accordo di San Tommaso” (dal nome del santo patronimico del giorno il cui è stato concluso), il “patto sociale” del 23 luglio 1993. A quasi 15 anni da allora, si può dire che il “patto sociale” ha avuto un ruolo chiave nella riduzione degli aumenti dei prezzi grazie, principalmente, all’introduzione del concetto di “inflazione programmata” come guida per la politica economica e per le relazioni industriali, mentre si è rivelato caduco in molti altri aspetti (la contrattazione collettiva a più livelli, la consultazione nella definizione dei documenti di politica economica).
In una proposta al resto del mondo, occorre guardare più indietro per andare più avanti. Alla metà degli Anni 90 un rapporto dell’Oil (un’istituzione non certo di parte e comunque distinta e distante dalle nostre beghe) differenziava nettamente tra “concertazione difensiva” e “concertazione aggressiva o positiva”. La prima cerca di tutelare l’esistente, ove non di guardare al passato; la seconda era, invece, rivolta all’avvenire. Nel documento si sottolineava come le relazioni industriali avrebbero dovuto affrontare le sfide poste dalla trasformazione economica, l’innovazione e l’integrazione economica, pena il pericolo di diventare irrilevanti. Il primo e più significativo patto di “concertazione aggressiva o offensiva” in Europa è stato l’”accordo di Wasenaar” (dal nome della località dove è stata stipulata) conclusa in Olanda nel lontano 1984. I Paesi Bassi erano afflitti da quello che gli economisti chiamavano “il mal olandese” – bassa crescita dovuta al flusso di valuta , ed sovrapprezzamento del cambio, derivante dal gas naturale del Mare del Nord. L’accordo comportò un nuovo disegno del mercato del lavoro e dello Stato sociale (in senso liberale) di fronte alla constatazione che, ad esempio, operando unicamente sull’età legale per la pensione (senza toccare contributi e livello degli assegni rispetto alle ultime remunerazioni) la si sarebbe dovuta portare a 80 anni.
Possiamo andare verso la “concertazione aggressiva” e proporla al resto del mondo? Un libro di circa un lustro fa, ma ancora attuale nei suoi contenuti – “La società attiva” di Maurizio Sacconi, Paolo Reboani e Michele Tiraboschi (Marsilio Editore, 2004) – rispondeva positivamente. E Sacconi presider’ il vertice di fine marzo.

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