giovedì 30 aprile 2009

“MARIA STUARDA” : DUE REGINE NEL LABIRINTO Milano Finanza primo maggio

Delle opere dedicate da Donizetti alle Regine Tudor (tre costituiscono una vera e propria trilogia altamente drammatica, mentre la quarta è un lavoro semi-serio a lieto fine poco eseguito), “Maria Stuarda” è la più rappresentata. Si dispone di un’edizione critica in due atti curata da Anders Wiklund che cerca, al meglio, di proporre quella che sarebbe dovuta essere la versione destinata al San Carlo nel 1834: accentua come il dramma sia a due voci femminili (un soprano in grado di passare dalle vette della coloratura al declamato nel ruolo della Regina di Scozia ed un mezzo “spinto” in quello della Regina d’Inghilterra). Si contendono un tenore di grazia (il cui ruolo è peraltro limitato); è per il possesso del bel Leicester che Maria Stuarda viene inviata al capestro da Elisabetta. “Maria Stuarda” è un’opera compatta: circa due ore di musica rispetto alle quasi tre di “Anna Bolena” e “Roberto Devereux”
L’allestimento in scena a La Fenice sino al 3 maggio è una co-produzione con le fondazioni liriche di Trieste, Catania e Palermo , nei cui teatri si vedrà la prossima stagione- una forma di collaborazione importante in una fase di ristrettezze per tutti. Si basa su una regia geniale che fa piazza pulita di stemmi cinquecenteschi, di palazzi di cartapesta, di foreste su fondali dipinti e di catene e prigioni (nonché ovviamente dei cavalli nella scena della caccia): il dramma tra le due donne si consuma in un ambiente unico (un labirinto di granito che cambia di colore per riflettere stati d’animo ed atmosfera) – un approccio moderno anche se concettualmente accurato, sotto il profilo storico, data la centralità dei labirinti nel poetica di Shakespeare (l’epoca in cui si svolge il dramma) e di Schiller (dalla cui tragedia è tratto il libretto).
La concertazione puntuale di Fabrizio Maria Carminati esalta tre interpreti d’eccezione. Sonia Ganassi (Elisabetta) non scansa neanche un acuto del difficile ruolo, nonostante sia al quinto mese di gravidanza. Fiorenza Cedolins debutta in quello di Maria, ad alcune incertezze nella prima parte ha corrisposto, la sera della prima, un vero e proprio trionfo di pubblico nella seconda: il ruolo è terrificante e si temeva che, dopo tante interpretazioni pucciniane, il soprano avesse difficoltà. E’ ancora un soprano assoluto di classe. Josè Bros ha il timbro chiarissimo e delicato; riesce ad essere pure convincente come attore. Una felice sorpresa il giovane basso Mirco Palazzi nel ruolo di Talbot, il sacerdote cattolico che assiste Maria.

Donizetti’s “Maria Stuarda” at La Fenice — Two Women in a Labyrinth Opera Today 29 aprile

Mary Queen of Scots
29 Apr 2009
Donizetti’s “Maria Stuarda” at La Fenice — Two Women in a Labyrinth

From the word “go”, the audience feels that this “Maria Stuarda” is quite different from the standard fare offered by Italian theatres.

Gaetano Donizetti: Maria Stuarda

Elisabetta: Sonia Ganassi; Maria Stuarda: Fiorenza Cedolins; Roberto, Earl of Leicester: José Bros; Giorgio Talbot: Mirco Palazzi, Federico Sacchi (26, 29/4, 2/5); Lord Guglielmo: Cecil Marco Caria; Anna Kennedy: Pervin Chakar. Fabrizio Maria Carminati, conductor. Denis Krief, stage direction, sets and costumes. Orchestra and Chorus of Teatro La Fenice. Chorus Master Claudio Marino Moretti.

Above: Mary Queen of Scots


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There are no cardboard Elizabethan “magnificent” halls and throne rooms; neither Piranesi’s grand jails in a bleak London Tower in the “finale”; neither a thick forest for the Royal hunt in the last scene of the first part. On the stage there is only a maze — indeed a labyrinth in granite where a fight is being fought by two tormented women in love for the same man — and also starving for the crown of Britain. The costumes have nothing to do with the XVI century; they are quite elegant but in a style closer to the high fashion of the 1950s (or slightly earlier) than to those of the historical period when the contest of the two Queens for the British crown actually took place. The plot develops today — somewhere in some country — but could have taken place even a few years ago or tomorrow. It is a perennial struggle in a-temporal setting and costumes.

A few conservative critics raised their eyebrows, but on April 24th — the opening night of this new production- La Fenice audience, not necessarily the cream of most advanced experimentalism in stage direction, loved it: the performance received a standing ovation. The just unveiled new production by Denis Krief , an Italian-based French-Tunisian director, is especially important because it is a joint effort with other major Opera Houses — Teatro Verdi in Trieste, San Carlo in Naples, Massimo in Palermo — where it will be shown starting next Fall. Krief is French-Tunisian but raised , as a stage Director, in Italy. However, the set, costumes and direction reflect the best experience of modern German opera production: Krief himself is a frequent guest director in the Federal Republic where he recently produced a successful “Ring”.

“Maria Stuarda” is the most frequently performed opera of the Donizetti’s trilogy about the Tudor Queens. The other two are “Anna Bolena” and “Roberto Devereux”. To be meticulous, the reviewer should include also “Elisabetta al Castello di Keniworth”, seldom seen on a stage and a “semi-seria opera” with a happy ending, quite distant from the tragedy atmosphere of the other three. In Anders Wiklund’s critical edition of the score, “Maria Stuarda” is compact (about two hours of music as compared to nearly three of “Anna Bolena” and “Roberto Devereux) and emphasizes the confrontation between the two Queens over the man each of them is longing for rather than the historical power struggle. As a matter of fact, Schiller’s play (the basis for the libretto) takes little notice of historical facts: Mary was 45 when she died (after 8 years in prison) and Elisabeth 53 (and had never been a beauty). Neither the Earl of Leicester appears to have been such a good looking fellow to cause such a bloody fight by two Queens. Wiklund’s edition emphasizes the sentimental and erotic tension rather than the politics surrounding it — key ingredient of the manipulated versions seen both until the mid-XIX century (when “Maria Stuarda” disappeared from the stages of the world) and from 1958 (revival in Bergamo) to the 1990s (a period when it was a war horse of Beverly Sills, Leyla Gencer, Edita Gruberova, Monsterrat Caballé and Joan Sutherland). This is, in my view, a justification for the labyrinth: it was a key element both in many a Shakespeare’s plays (as well as of gardening in that period) and quite a few Schiller’s plays.

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As in many Donizetti’s opera, orchestration is rather simple; it is meant to support vocal acrobatics by the main singers. Fabrizio Maria Carminati is well aware of it and his conducting is diligent and effective. The attention is to the two protagonist. Elisabeth must be a “mezzo spinto” with an excellent flare for ascending to acute; Sonia Ganassi is veteran of the role (there are some excellent recording) and on April 24 gave an extraordinary performance — both vocally and dramatically- especially if account is taken that, at the age of 43, Ms. Ganassi is five month pregnant of her first child. Maria is a “soprano assoluto” with coloratura arias sliding into declamation and vice versa. For Fiorenza Cedolins April 24 was the night of the debut of in the role. There was some trepidation that she would not have been able to cope with the highly difficult score; as a matter of fact, in her career she had started with coloratura but had then gone to “verismo” (Tosca, Butterfly), not the most effective way to prepare oneself sing a “soprano assoluto” with coloratura , as required by “Maria Stuarda”: some imperfection in the first part but standing ovation in the jail-confession scene of the second part and in the finale. José Bros has sang Leicester may times. Normally this good tenor with a high texture is good vocally but on the stage is a sexy as an umbrella. Miraculously, Krief makes him very sensual. With both Queens.

Giuseppe Pennisi

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martedì 28 aprile 2009

Lo Stato sociale nell'era della post-globalizzazione in Ffwebmagazine del 28 aprile

Lo Stato sociale (ossia, previdenza e sanità pubbliche, politiche attive del lavoro, ammortizzatori nei confronti della disoccupazione involontaria, servizi e assistenza sociale) potranno sopravvivere alla post-globalizzazione? È un interrogativo, che legittimamente e giustificatamene, molti si pongono in queste settimane in cui, per parafare il presidente Usa Barack Obama, si intravedono “barlumi” di uscita (tra un anno circa) dalla crisi economica e finanziaria che travaglia l’economia internazionale. Una domanda analoga veniva posta alcuni anni fa, allora ci si chiedeva se lo stato sociale potesse sopravvivere alla globalizzazione.

Per lustri si sono confrontate due visioni: una “difensiva”, secondo cui (rispetto all’integrazione economica internazionale) si sarebbero dovuti difendere alcuni “diritti quesiti” di base dello Stato sociale; una “propositiva”, o, in alcune dizioni “aggressiva”, secondo cui chi ha a cuore le fasce deboli avrebbe dovuto trovare percorsi, strumenti e istituti atti a far sì che chi si trovava ai livelli più bassi di reddito e di consumo traesse i maggiori vantaggi dall’integrazione economica internazionale. All’inizio degli Anni Novanta, la stessa conferenza dell’Organizzazione internazionale del lavoro spezzò una lancia a favore di una “concertazione” “positiva” o “aggressiva” – quella da me preferita anche per il principio molto banale secondo cui in un mondo in cui tutti corrono, camminare vuol dire stare fermi e remare contro-vento è la premessa per andare a picco.

Le due visioni dei nessi tra post-globalizzazione e stato sociale sono stati di recente messi a fuoco in un dibattito internazionale che ha visto schierati, da un lato, Has-Werne Sinn (uno dei più autorevoli economisti tedeschi) e, dall’altro, Dennis Snower, Alessio Brown, e Christian Merkel, i quali, nonostante le loro differenti origini lavorano presso università ed istituti di ricerca della Repubblica federale. Un dibattito, quindi, tra esperti differenti ma tutti plasmati dalla cultura dell’economia sociale di mercato. In sintesi, Sinn vede l’integrazione economica internazionale (anche rallentata dalla crisi o frenata da contraccolpi) come un processo di specializzazione in cui aumentano le differenze di reddito sia verticalmente (tra livelli più altri e più bassi di professionalità) sia orizzontalmente (tra aree geografiche); lo Stato sociale rende (ai paesi che ne applicano uno estensivo) più costoso partecipare all’integrazione internazionale. Si verifica un vero e proprio”bazar” (è suo il termine) in cui imprese, e anche individui e famiglie, possono scegliere la tipologia di stato sociale che meglio confà a ciascuno: la delocalizzazione e la “fiera delle tasse” (per mutuare il titolo di un libro di Giulio Tremonti di una decina di anni fa) sono esempi di questo “bazar” in cui si può essere vincenti unicamente con una minore pressione tributaria, con sindacati più consapevoli delle implicazioni dell’internazionalizzazione e con orari di lavoro effettivi più lunghi. In breve, una strategia “difensiva”.

Contrapposta la visione di Snower, Brown e Merkel: la chiamano “una grande riorganizzazione”. Partono dalla considerazione secondo cui dalla metà degli Anni Novanta, gli imprenditori hanno preso progressivamente contezza del nesso tra nuove tecnologie, sistemi di logistica e opportunità commerciali. La produzione e la distribuzione si stanno riorganizzando profondamente puntando su tre caratteristiche: a) la scomposizione geografica della catena del valore; b) l’importanza crescente delle relazioni interpersonali e c) la sempre maggiore eterogeneità, versatilità e flessibilità del lavoro. Ciò rischia di creare una nuova categoria di “perdenti” se lo Stato sociale non viene ripensato, e riorganizzato, per tenere adeguatamente in conto le nuove caratteristiche di produzione e di distribuzione. Ciò comporta uno Stato forte e autorevole che dia a lavoratori e fasce deboli gli strumenti per diventare essi stessi i vincitori ogni qual volta aumentano le probabilità che diventino i perdenti. Ciò implica un drastico cambiamento di paradigma: nello Stato sociale tradizionale degli ultimi cinque decenni, le professionalità vengono definite e classificate e il ruolo dello Stato è quello di tutelarle (con stabilizzatori automatici) al verificarsi di shock, mentre in quello del futuro lo Stato ha il compito di rendere gli individui adattabili e versatili in modo che possano essere i protagonisti del processo di trasformazione.

Snower, Brown e Merkel delineano meccanismi specifici (“welfare accounts”, “vouchers di supporto sociale”, e “benefit transfers”, trasferimenti di benefici in grado di ridistribuire gli incentivi a favore dei meno avvantaggiati). Alcuni di questi meccanismi hanno trovato, in varie forme e guise, terreno d’applicazione, almeno parziale, in Italia: il sistema previdenziale contributivo, la social card, la vasta gamma di rapporti di lavoro previsti dalle legge Biagi, il riordino della formazione professionale con accento sul life-long learning.

Una concezione avveniristica dello “Stato sociale” del futuro? Probabilmente sì. Almeno sino a quando la macchina amministrativa non si pone in grado di fare fronte alla sfida. Tuttavia, ha due aspetti che meritano di essere sottolineati: a) massimizza l’apporto che le nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione possono dare allo stato sociale; b) esalta, al tempo stesso, il ruolo e dell’individuo (a cui lo Stato deve offrire una gamma di opportunità) e dello Stato (che deve cogliere nell’integrazione economica internazionale l’opportunità per nuovi compiti più innovativi e meno burocratici di quelli del passato). Merita, quindi, un dibattito approfondito.

lunedì 27 aprile 2009

“Maria Stuarda” a Venezia: due donne e un labirinto, iIl Velino del 27 apirile

Opera, “Maria Stuarda” a Venezia: due donne e un labirinto
Roma, 27 apr (Velino) - Le opere sulle tre “regine” Tudor rappresentano una trilogia nella fertile produzione di melodrammi (74 tra compiuti e incompiuti) di Gaetano Donizetti. Escludiamo dal computo di questa trilogia “Elisabetta al Castello di Kenilworth” del 1829 in quanto, pur classificato come “melodramma serio”, è un lavoro semi-serio con lieto fine, segue tutte le convenzioni del genere e, nonostante una buona registrazione di alcuni anni fa, non ha mai avuto una vera e propria “renaissance” in tempi moderni. “Anna Bolena”, “Maria Stuarda” e “Roberto Devereux” (composte tra il 1830 ed il 1837) hanno un filo conduttore comune: tragedie, più che drammi, tutte al femminile, imperniate non tanto sugli intrighi di potere tra i Tudor e i “cugini” Stuart per il controllo del più grande impero del mondo, ma sulla passione delle tre protagoniste per un uomo: tre amori impossibili in cui Eros (con Donizetti era ancora in scena) è contrastato da ragion di Stato.

Sparite dai palcoscenici nella seconda metà dell’Ottocento, quando trionfava il melodramma verdiano, le tre “regine” sono riapparse verso la metà del Novecento, soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale. Le “regine” donizettiane hanno trionfato prima sui palcoscenici anglosassoni che su quelli italiani. Se ne ricorda una bellissima edizione, alla fine degli anni ‘60, costruita su Beverly Sills alla New York City Opera e registrata in studio per la Emi. In Italia, “Maria Stuarda” in particolare venne riscoperta al Maggio Musicale del 1970 e si ricorda una buona rappresentazione di “Roberto Devereux”, allora ancora sconosciuto al grande pubblico italiano, in Corea, in un cinema-teatro di Seul, nel lontano 1973. Riascoltate in sequenza, l’una dopo l’altra, le tre “regine” hanno una grande presa, anche e soprattutto se la stessa cantante decidesse di calarsi in un vero e proprio tour de force (siamo ancora ancorati al “bel canto” belliniano intriso, però, dal gusto allora nuovo per lo sfoggio degli acuti). L’effetto diminuisce, invece, se le tre opere vengono rappresentate separatamente. In questo senso andrebbe rivolto un invito al Festival Donizetti di Bergamo: predisporre nel tempo un mini-festival nel quale le tre “regine” possano essere gustate una dopo l’altra nell’arco di 1-2 settimane.

La partitura e il libretto di “Maria Stuarda” sono quelli che hanno subito maggiori rimaneggiamenti a causa sia della censura (Napoli ne vietò la messa in scena e Milano impose cambiamenti al testo), sia del mutamento di convenzioni nella struttura del melodramma (tra cui il passaggio dalla suddivisione da due a tre atti). “Maria Stuarda”, tra le “regine”, è anche la più breve e più compatta: poco più di due ore di musica rispetto alle tre richieste da “Anna Bolena” e “Roberto Devereux” . Nell’edizione in scena alla Fenice di Venezia sino al 3 maggio viene seguita l’edizione critica in due atti curata da Anders Wiklund che cerca, al meglio, di proporre quella che avrebbe dovuto essere la versione destinata a essere rappresentata al San Carlo nel 1834 (e che venne ascoltata unicamente alla prova generale). L’edizione critica accentua ancora di più il dramma a due voci femminili: un soprano in grado di passare dalle vette della coloratura al declamato nel ruolo della regina di Scozia e un mezzo “spinto” in quello della regina d’Inghilterra. Le due sovrane si contendono un tenore di grazia (il cui ruolo è peraltro limitato): è per il possesso del bel Leicester che Maria Stuarda viene inviata al capestro da Elisabetta. Questa è l’edizione ormai corrente: unicamente facendo riferimento ai teatri italiani, si è vista nel 2006 a Roma, nel 2007 a Macerata e alla Scala e poche settimane fa al Massimo Bellini di Catania.

L’allestimento in scena alla Fenice ha alcuni punti forti. In primo luogo, è una co-produzione con le fondazioni liriche di Trieste, Catania e Palermo, nei cui teatri si vedrà la prossima stagione: una forma di collaborazione importante in una fase di ristrettezze per tutti. In secondo luogo, la geniale regia di Denis Krief fa piazza pulita di stemmi cinquecenteschi, di palazzi di cartapesta, di foreste dipinte e di prigioni lugubri. Vi è una scena unica: un labirinto di granito che cambia di colore nei vari quadri per riflettere stati d’animo e atmosfera. Il labirinto è centrale alla poetica di Shakespeare e di Schiller e ben esprime il tormento sia di Elisabetta sia di Maria, per non citare anche il Leicester che ambedue desiderano. Inoltre, alla concertazione non ingombrante di Fabrizio Maria Carminati fanno riscontro tre interpreti d’eccezione.

Sonia Ganassi (che il prossimo 3 novembre verrà insignita, a Catania, del prestigioso “Bellini d’oro”) non scansa neanche un acuto del difficile ruolo di Elisabetta, nonostante sia al quinto mese di gravidanza. Fiorenza Cedolins, che debutta nei panni di Maria, dopo qualche incertezza nella prima parte ha raccolto un vero e proprio trionfo con tanto di “standing ovation”. Il suo ruolo è terrificante e si temeva che, dopo tante “Tosca” e “Butterfly”, potesse incontrare difficoltà. Ha invece mostrato di essere ancora un soprano assoluto di classe. Infine, nel ruolo di Leicester, Josè Bros dal timbro chiarissimo e delicato. Di norma, il suo punto debole è la recitazione (si ricorda una “Favorite” in cui fu sensuale quanto un manico d’ombrello). A Venezia, invece, Krief riesce a renderlo un credibile “oggetto” di contesa tra le due primedonne.

LAVORO, IL MONDO TENTA LA RIPRESA Charta Minuta aprile

Nella veste di Presidente di turno del G8, l’Italia ha ospitato a Roma il 29 marzo il G8 sui temi dell’occupazione e del lavoro. La riunione, presieduta dal Ministro per il Lavoro, la Previdenza, gli Affari Sociali e la Salute (in breve, Welfare, utilizzando un vocabolo inglese entrato nell’uso corrente italiano) è stata estesa ad un totale di 14 Paesi - si tratterà, dunque, di un G14 che ha coinciso quasi con il G20 dei Capi di Stato e di Governo tenuto il 2 aprile. E’ stato un evento importante.
I problemi dell’occupazione e del lavoro sono tanto gravi almeno quanto quelli della crisi finanziaria. Nei giorni in cui questo articolo viene redatto (metà febbraio 2009), la sede centrale dell’Ufficio Internazionale del Lavoro ha diramato stime impressionanti: nel periodo tra il dicembre 2007 ed il dicembre 2009, al mondo 50 milioni di lavoratori (indipendenti ed autonomi) perderanno la loro occupazione e, quindi, la loro principale fonte di reddito. La contrazione dell’occupazione, afferma Nicolas Véron dell’istituto di ricerca europeo Bruegel (la sede centrale è a Bruxelles ma è una delle fonti principali di analisi dell’Economist Intelligence Unit), si sta verificando ad una velocità ben superiore a quanto avevano stimato anche coloro che avevano previsto gli effetti della crisi finanziaria sull’economia reale.
Sotto il profilo politico, oltre che economico e sociale, il nodo si presenta particolarmente grave proprio in Europa, dove negli ultimi cinque anni , nonostante la crescita rasoterra del pil e del valore aggiunto, si pensava che le riforme attuate (specialmente in materia di normativa sul lavoro) aveva fugato per sempre lo spettro della disoccupazione di massa. Un anno e mezzo fa, ad esempio, quando si respirava già l’atmosfera di crisi finanziaria incipiente, pure un quotidiano francese tradizionale a sinistra del centro ha dedicato un numero speciale a “La fine della disoccupazione di massa”. Le cifre parlavano chiaro. Almeno così si pensava. In primo luogo, a fine aprile 2007, in Europa (tanto nella zona dell’euro quanto nell’insieme dell’Ue a 27), il numero di coloro alla ricerca di lavoro (nel lessico giornalistico il tasso di disoccupazione) era sceso al 7,1% delle forze di lavoro (due punti percentuali in meno rispetto a quanto segnato due anni prima). L’Italia era entrata a buon diritto tra i Paesi con un tasso di disoccupazione moderato (il 6,2% a livello nazionale ma concentrato nel Mezzogiorno e nei bacini a riconversione industriale nel Centro-Nord). In Francia, il tasso di disoccupazione era ancora l’8,6% della forza lavoro, ma, per la prima in 25 anni, era sceso, in termini assoluti, al di sotto di due milioni di uomini e donne. La Polonia e l’Estonia contavano, nell’Ue, tassi di disoccupazione più alti di quello della Francia. Ancora maggiore il successo segnato in Germania: si era passati dai 5 milioni di disoccupati nell’aprile 2005 ai 3,7 milioni due anni dopo : la disoccupazione diminuiva, senza cessa, ogni mese da 15 mesi. Quindi, né le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione né il processo d’integrazione economica internazionale avevano creato, in Europa, quella disoccupazione di massa, senza alternative concrete di politica economica ed industriale, temuta una diecina di anni fa: si pensi, ad esempio, alla visione apocalittica della raccolta di saggi “Disoccupazione di fine secolo”, curata da Pierluigi Ciocca, e nata in gran misura nell’ambito del servizio studi della Banca d’Italia alla metà degli Anni 90.
In secondo luogo, non era tutto oro ciò che luccicava. L’Employment Outlook dell’Ocse pubblicato a fine giugno 2008 sottolineava che a partire dal 1995 erano aumentate in misura considerevole le differenze salariali (specialmente se computate sulla base del netto in busta paga). Per questo motivo, c’era un crescente interesse (anche in Italia) nella “flexsecurity” : lavoratori e sindacati dovrebbero essere pronti a rinunciare alla sicurezza nel posto di lavoro specifico per una maggiore sicurezza nel mercato del lavoro in generale accompagnata da ammortizzatori e passerelle per transitare da un impiego all’altro. Tuttavia, ere sempre l’Employment Outlook dell’Ocse a ricordare come “un’altra strada possibile consiste nel rendere più flessibili le normative sul lavoro”.
In terzo luogo, non era soltanto l’Ocse ma anche l’esclusivo (il numero dei soci non può superare 30 e devono essere tutti accademici di rango) Cercle des Economistes francese (un circolo – occorre rammentarlo – in generale a sinistra del centro) a riconoscere come l’allontanamento dello spettro della disoccupazione di massa doveva attribuirsi alle riforme in senso liberale del mercato del lavoro. Quelle già fatte in Italia ed in Germania. Quelle di cui la Francia ha mutuato alcuni istituti (quali il contratto di primo impiego) tre anni fa e che Oltralpe il nuovo Esecutivo si appresta ad estendere ed approfondire con una normativa di urgenza. Un sindacato vasto ed intelligence, e vigorosamente anti-comunista, come Force Ouvrière aveva concluso il 29 giugno 2007, a Lilla, il proprio 21simo congresso chiedendo, in pratica, l’abolizione di quel resta delle pensioni di anzianità e di misure per favorire l’occupazione e dei più giovani e dei più anziani.
Mi sono soffermato sulla situazione e le prospettive quali percepite in Europa quando la crisi finanziaria e la recessione (il Fondo Monetario prevede una contrazione del 2% del pil dei Paesi Ocse nel 2009, la più grave dalla Grande Depressione degli Anni Trenta) cominciavano a battere i primi colpi proprio per sottolineare come il drastico cambiamento di scenario, in gran misura giunto inaspettato, rappresenti un problema politico ancora più grave di quello (pur serissimo economico e sociale) ,

C’è un continente dove la svolta occupazione è ancora più grave che in Europa: crolla l’Asia, che con un tasso medio di crescita del 7,5% l’anno (due volte e mezzo più sostenuto di quello del resto del mondo) ha trainato l’intera economia internazionale. Nell’ultimo trimestre del 2008 (i consuntivi sono stati appena resi disponibili dall’ufficio statistico della Commissione Economica delle Nazioni Unite per l’Asia); Hong Kong, Singapore, la Corea del Sud e Formosa hanno accusato un tasso annuale di contrazione del pil bem del 15% e le loro esportazioni hanno segnato una riduzione (sempre annualizzata) del 50%. E la Cina? Occorre fare attenzione alle cifre: i dati ufficiali (riportati dalla Commissione Economica Onu) parlano di crescita ad un tasso annuo del 6,8% (un rallentamento pur sempre marcato rispetto all’oltre 9,5% dei tre trimestri precedenti) ma, destagionalizzate, espongo un tasso d’aumento dell’output impercettibile (attorno all’1% su base annua) per gli ultimi tre mesi del 2008. E’ atto una migrazione di circa 20 milioni di cinesi che tornano da aree industriali (dove le fabbriche sono state chiuse) verso campagne dove la rivoluzione tecnologica ha hanno sì che ci vogliono molto meno braccia per giungere a rese soddisfacenti; inoltre, la domanda dei mercati urbani si è prosciugata a ragione proprio della fuga verso il settore rurale di lavatori di manifatture che non esistono più. Poche le notizie che escono dalla Cina: sembra che siano in corso, da mesi, veri e propri moti di senza lavoro.
Circa sei anni fa, organizzata dalla Scuola superiore della pubblica amministrazione e dalla Banca mondiale, si tenne alla Reggia di Caserta un seminario a porte chiuse a cui parteciparono quasi tutti i consiglieri economici dei Primi Ministri o dei Ministri Economici dell’Asem (Asia Europe Meeting), un’associazione creata dopo la crisi dell’indebitamento estero del continente nel 1996-98. Ne scaturì un messaggio chiaro: l’Asia in generale e la Cina in particolare non avrebbero potuto sostenere a lungo saggi rapidi di crescita senza una rete di tutela sociale per i più poveri e senza un aumento del tasso di consumo. Da un canto, la rete di tutela si stava appena allestendo e, dall’altro, i consumi non crescono non tanto perché – come afferma la pubblicistica recente – gli asiatici sono iper-risparmiatori ma poiché i redditi da lavoro sono rimasti molto bassi ed in molti casi si sono contratti: in Cina (il Paese più importante se non altro per le sue dimensioni) nel 1998 i salari contribuivano al 53% del pil, nel 2007 al 40% e stime preliminari per il 2008 li portano a meno del 38%. Ciò non è solamente il risultato di un destino cinico e baro che nella Repubblica Popolare milita contro i lavoratori oppure il frutto di datori di lavoro (in primo luogo lo Stato nelle sue varie guise e forme) rapaci. I bassi tassi d’interesse, un tasso di cambio non rappresentativo del valore della valuta estera e sussidi ad industrie di vario tipo, unitamente ad una politica d’infrastturazione di base, sono all’origine di un nodo abbastanza simile a quello che Italia, Germania, Giappone ed Ungheria dovettero in vario modo affrontare al termine del miracolo economico, alla fine degli Anni 60. Fu difficile risolverlo nei nostri Paesi; è molto più arduo farlo in Estremo Oriente.
Ove il quadro non sia abbastanza fosco, occorre pensare che i problemi dell’occupazione e del lavoro minacciano di durare molto più a lungo di quelli della crisi finanziaria e della stessa recessione. Nel numero di dicembre di “Strategic Analysis”, un saggio di Wynne Godley, Dimitri Papadimitriou e Gennaro Zezza documenta che, nonostante la manovra espansionista in atto (e che sarà verosimilmente accentuata da Obama) il saggio di disoccupazione Usa (oggi al 7,2% della forza lavoro) arriverà al 10% entro il 2010. Il fenomeno dell’isteresi (ossia del trascinamento o del lasso temporale tra ripresa dell’economia e quello dell’occupazione) oggi appare più grave di quello che avvenne dopo la recessione del 1979-82 per due ragioni concomitanti: a) lo spessore della contrazione del pil e del commercio internazipnale; e b) l’integrazione economica internazionale. Lo afferma, con ricchezza di dati e d’analisi, Rajarshi Majumber in un saggio di spessore nell’ultimo fascicolo del 2008 dell’”Indian Journal of Labour Economics”. In questo quadro, peggiorano, in tutto il mondo, le condizioni di lavoro: salari, precariato, ammortizzatori. Nel prossimo decennio, il tema centrale delle politiche economiche nazionali ed internazionali sarà la ripartizione del pil tra i redditi da capitale e da lavoro – una situazione analoga a quella in cui Usa ed Europa furono alla fine degli Anni 60.
Le risposte che in giugno potrà dare la conferenza annuale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil) saranno deboli se non arriveranno segnali forti dal G8-G14 lavoristico-occupazionale di fine marzo a Roma. L’Italia sarà tanto più in grado di fornire indirizzo quanto meglio mostrerà di avere la propria casa in ordine. Per questo motivo, è molto utile che il confronto in atto su contrattazione e ammortizzatori sta avendo buon esito. Anche se all’interno della maggioranza ci sono pareri discordi, sarebbe positivo estendere il confronto alla previdenza (sia alla definizione dei nuovi coefficienti di trasformazione – il termine tecnico per indicare la formula in base alla quale i contributi accumulati vengono “trasformati” in rendite annue - sia al ripensamento dei tempi della transizione da metodo retributivo a metodo contributivo – in Svezia realizzato in tre anni mentre in Italia se ne sono previsti da 18 a circa 30, includendo nel computo le pensioni di reversibilità. In questo quadro, si dovrebbe anche risolvere il nodo della disparità (tra uomini e donne) dell’età per fruire di pensioni di vecchiaia – una disparità esistenti in pochissimi Paesi e se giustificata alcuni decenni fa oggi minaccia di penalizzare i lavoratori di genere femminile.
Un’Italia con il welfare ben equilibrato potrebbe proporre un piano internazionale per l’occupazione, analogo al World Employment Program lanciato dall’Oil negli Anni 70 (quando le crisi petrolifere facevano temere una crisi mondiale dell’occupazione) , supportato da una più rigorosa, e meglio monitorata, applicazione delle convenzioni internazionali sul lavoro al fine di contenere il “dumping sociale”.
L’Italia , soprattutto, potrebbe dare il “la” in un approccio moderno alla “concertazione” , almeno nell’ambito dei Paesi sviluppati ad economia di mercato ed ad alto reddito medio pro-capite. Il termine “concertazione” viene dal francese, che, a sua volta, lo ha mutuato dal tedesco. Si riferisce ad accordi tra parti sociali (i rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavori) e tra questi ultimi e la mano pubblica per il raggiungimento di determinati obiettivi di politica o aziendale o settoriale o generale. L’Italia ha avuto una sua profonda esperienza di “concertazione”, sui generis, nel periodo tra le due guerre mondiali – con l’economia “corporativa”, studiata con grande attenzione, all’epoca, da economisti e sociologi di varie parti del mondo (specialmente in quello anglossassone , come rivelano scritti poco noti di Schumpeter e di Keynes). Negli Anni 60 e 70, non si parlava di “concertazione”, ma ci fu la lunga fase degli “accordi interconfederali”, spesso troppo prontamente tradotti in legge da un Parlamento che aveva in parte abdicato al proprio ruolo: un frutto ne fu la normativa sulla previdenza del 1968-69 che, nel giro di pochi anni, ci regalò uno dei sistemi previdenziali più squilibrati (ed uno dei debiti previdenziali in rapporto al pil più alti) al mondo. Gli Anni 80 sono stai l’epoca della “concertazione” propriamente detta: il metodo è stato utilizzato per accompagnare il percorso di rientro dall’inflazione e di riassetto della finanza pubblica - il suo momento più alto è stato “l’accordo di San Tommaso” (dal nome del santo patronimico del giorno il cui è stato concluso), il “patto sociale” del 23 luglio 1993. A quasi 15 anni da allora, si può dire che il “patto sociale” ha avuto un ruolo chiave nella riduzione degli aumenti dei prezzi grazie, principalmente, all’introduzione del concetto di “inflazione programmata” come guida per la politica economica e per le relazioni industriali, mentre si è rivelato caduco in molti altri aspetti (la contrattazione collettiva a più livelli, la consultazione nella definizione dei documenti di politica economica).
In una proposta al resto del mondo, occorre guardare più indietro per andare più avanti. Alla metà degli Anni 90 un rapporto dell’Oil (un’istituzione non certo di parte e comunque distinta e distante dalle nostre beghe) differenziava nettamente tra “concertazione difensiva” e “concertazione aggressiva o positiva”. La prima cerca di tutelare l’esistente, ove non di guardare al passato; la seconda era, invece, rivolta all’avvenire. Nel documento si sottolineava come le relazioni industriali avrebbero dovuto affrontare le sfide poste dalla trasformazione economica, l’innovazione e l’integrazione economica, pena il pericolo di diventare irrilevanti. Il primo e più significativo patto di “concertazione aggressiva o offensiva” in Europa è stato l’”accordo di Wasenaar” (dal nome della località dove è stata stipulata) conclusa in Olanda nel lontano 1984. I Paesi Bassi erano afflitti da quello che gli economisti chiamavano “il mal olandese” – bassa crescita dovuta al flusso di valuta , ed sovrapprezzamento del cambio, derivante dal gas naturale del Mare del Nord. L’accordo comportò un nuovo disegno del mercato del lavoro e dello Stato sociale (in senso liberale) di fronte alla constatazione che, ad esempio, operando unicamente sull’età legale per la pensione (senza toccare contributi e livello degli assegni rispetto alle ultime remunerazioni) la si sarebbe dovuta portare a 80 anni.
Possiamo andare verso la “concertazione aggressiva” e proporla al resto del mondo? Un libro di circa un lustro fa, ma ancora attuale nei suoi contenuti – “La società attiva” di Maurizio Sacconi, Paolo Reboani e Michele Tiraboschi (Marsilio Editore, 2004) – rispondeva positivamente. E Sacconi presider’ il vertice di fine marzo.

sabato 25 aprile 2009

DONIZETTI E LE TRE REGINE "BRITISH" Il Domenicale 25 aprile

Le opere sulle tre Regine Tudor rappresentano una trilogia vera e propria nella fertile produzione di melodrammi (74 tra compiuti ed incompiuti) di Gaetano Donizetti. Sarebbero anche esse parte di una tetralogia Tudor, includendo nel computo “Elisabetta al Castello di Kenilworth” del 1829; pur classificato come “melodramma serio”, è un lavoro semi-serio con lieto fine (e segue tutte le convenzioni del genere). “Anna Bolena”, “Maria Stuarda” e “Roberto Devereux” (composte tra il 1830 ed il 1837) hanno, invece, un filo conduttore comune: tragedie tutte al femminile, imperniate tanto sugli intrighi di potere (tra i Tudor) per il controllo del più grande impero del mondo quanto sulla passione delle tre protagoniste per un uomo ­ tre amori impossibili in cui eros (con Donizetti era ancora in scena ­ lo avrebbe soffocato qualche lustro più tardi il melodramma verdiano) è contrastato da ragion di Stato. Mostrano l’importanza dell’interazione tra donne e potere nell’Italia frammentata della prima parte dell’Ottocento. Sparite dai palcoscenici nella seconda metà dell’Ottocento (quando trionfava Verdi), le tre “Regine” sono riapparse dopo la seconda guerra mondiale. Le “Regine” hanno trionfato prima sui palcoscenici anglosassoni che su quelli italiani. Se ne ricorda una bellissima edizione, alla fine degli Anni 60, costruita da Julius Rudel (maestro concertatore) e Tito Capobianco (regista) su Beverly Sills alla New York City Opera e registrata in studio per la Emi.
In Italia, in questi ultimi anni, tuttavia, si sono viste di frequente “Anna Bolena” (Verona, Palermo), “Maria Stuarda (Roma, Macerata, Milano, Catania) e più raramente “Roberto Devereuex” (Roma, Bergamo). “Maria Stuarda” (la più eseguita) delle tre in particolare venne riscoperta al Maggio Musicale del 1970. Il vostro “chroniqueur” rammenta di avere assistito ad una rappresentazione di “Roberto Devereux” (allora ancora sconosciuto al grande pubblico italiano) in un grande cinema teatro di Seul (in Corea) nel lontano 1973 (ottime le voci, ma approssimativa la versione). Riascoltate in sequenza, l’una dopo l’altra, le tre “Regine” hanno una grande presa, soprattutto se la stessa cantante si assume, in un vero e proprio tour de force (siamo ancora ancorati al “bel canto” belliniano intriso, però, dal gusto allora nuovo per lo sfoggio degli acuti) il ruolo di protagonista. L’effetto diminuisce se le tre opere vengono rappresentate separatamente: quindi, un invito (in particolare al Festival Donizetti a Bergamo) di predisporre un festival in cui un giorno le tre “Regine” possano essere gustate una dopo l’altra nell’arco di una-due settimane.
“Maria Stuarda” è, tra le tre, quella la cui partitura e libretto hanno subito maggiori rimaneggiamenti a ragione sia della censura (che a Napoli ne vietò la messa in scena ed Milano impose cambiamenti al testo) sia del mutamento di convenzioni nella struttura del melodramma. E’ in scena alla Fenice di Venezia dal 24 aprile al 3 maggio in un nuovo allestimento (regia, scene e costumi di Denis Krief) che se gli attuali programmi non subiscono cambiamenti, andrà a Trieste, Napoli e Palermo. Verrà seguita l’edizione critica in due atti curata da Anders Wiklund che cerca di proporre quella che sarebbe dovuta essere la versione destinata al San Carlo nel 1834 (e che venne ascoltata unicamente alla prova generale). L’edizione critica accentua ancora di più come il dramma sia a due voci femminili (un soprano in grado di passare dalle vette della coloratura al declamato nel ruolo della Regina di Scozia ed un mezzo “spinto” in quello della Regina d’Inghilterra). Si contendono un tenore di grazia (il cui ruolo è peraltro limitato).
In una conversazione, Krief sottolinea come siamo alle prese “con un’opera romantica della prima metà dell’Ottocento italiano basata più che sui libri di storia su un testo di Friederich Schiller di fine Settecento”. “Ci troviamo a Venezia nel 2009; quindi ancora altri tempi ed altri luoghi”. E’ comunque un melodramma storico basato su un dramma storico, non un dramma borghese. :”due donne di potere, una prigioniera dell’altra, anche se, in realtà, non si capisce in maniera chiara, netta e precisa chi sia la vera prigioniera”- “una prigione reale da una parte ed una gabbia psicologica dall’altra”.

NELLA ROMA DEI CONFLITTI, Il Tempo 25 aprile

Pare leggere una cronaca dell'Italia di questi decenni: una Roma dove s'intrecciano intrighi ed a Santa Maria in Vallicella (meglio conosciuta come la Chiesa Nuova)- là in quel di Corso Vittorio - si tessono mediazioni. Non siamo alle prese con un racconto relativo alla politica italiana del periodo tra il 1950 ed il 1990, ma con l'edizione critica di una partitura rara pubblicata qualche settimana fa da un piccolo, e coraggioso editore, «Betulia Liberata» di Pietro Metastasio e Pasquale Anfossi, a cura di Giovanni Pelliccia, prefazione di Friederich Lippman, introduzione di Mario Valente (MOS Edizioni 2008 pp 232 € 50). Nel testo non mancano le note critiche, un dettagliato apparato critico, schede comparative, una biografia di Pietro Metastasio, una biografia di Pasquale Anfossi, l'elenco delle intonazioni di «Betulia liberata». Il lavoro è stato commissionato dall'Oratorio dei Filippini a Roma dove fu eseguito (con ben circa 16 repliche l'anno) dal 1781 al 1794. Nel 1780, o giù di lì, a Roma la politica era caratterizzata da divisioni tra correnti, mediazioni, tensioni e crisi in una società in cui religione e politica erano due facce della stessa medaglia, l'illuminismo entrava nella cultura alta, la borghesia sfidava l'aristocrazia, la Controriforma perdeva terreno, avanzavano nuovi modi d'interpretare il dovere dell'evangelizzazione e la supremazia della Chiesa - i gesuiti - e si appannavano le vecchie maniere. Un saggio di Mario Valente pubblicato con l'edizione critica della partitura, rivela che il testo metastasiano venne, riveduto per inserirlo in una Roma in cui i conflitti per la successione alla corona d'Austria avevano accentuato le tensioni tra i "giansenisti" da un lato e gli ortodossi dall'altro; tra il primato teologico-politico del magistero della Chiesa romana, da una parte, e il clero della periferia, l'aristocrazia e la borghesia emergente. La Chiesa si pose come mediatrice tra interessi contrapposti sia nel proprio Regno temporale del Papa sia tra le case regnanti d'Europa. Per riaffermarne il primato anche politico, l'oratorio ritoccato finisce con un'aria a Maria "donna forte" e invincibile", assente nel testo metastasiano ed in versioni musicali precedenti a quella di Anfossi. L'edizione critica della partitura apre una finestra su un periodo politico-culturale poco studiato della vita di Roma ed ha anche riscontri immediati con la nostra attualità.

IL LIRICO DI CAGLIARI TRASLOCA IN RUSSIA Milano Finanza 25 aprile

Da almeno dieci anni, il Teatro Lirico di Cagliari inizia la stagione lirica per la “Festa di Sant’Efisio” (Santo per cui c’è molta devozione nell’isola) con un’opera o mai messa in scena in Italia o raramente rappresentata. “Semën Kotko” di Serghej Prokovief è stata vista un paio di serate alla Scala all’inizio degli Anni 70 nell’ambito di una tournée del Bolshoi. E’ “un lavoro maledetto”. Rientrato in Russia dopo 17 anni all’estero, Prokofiev la concepì alla fine degli Anni Trenta; venne e messa in scena a Mosca nel giugno 1940 (pochi mesi prima il “committente”, Vsevolod Meyerhold, era stato fatto passare per le armi, dopo un processo-farsa) all’unico fine di ingraziarsi il potere. Scelse uno dei romanzi più apprezzati da Stalin (Io, figlio del popolo lavoratore) di Valentin Kataiev. Negli ultimi mesi della prima guerra mondiale, il proletario soldato Kotko torna nel suo villaggio ucraino, dove i possidenti tramano contro “i rossi” (collaborando, più o meno apertamente, con i tedeschi). Kotkto è innamorato della bella Sophia lo ricambia. Il villaggio viene invaso da tedeschi (pur in ritirata) che fanno stragi di contadini; il padre della fidanzata del buon Kokto diventa un collaborazionista. Il ragazzo scappa in montagna per tornare, con i partigiani, proprio mentre Sophia sta per essere data in moglie (contro-voglia) ad un proprietario terriero. Sconfiggono tedeschi e collaborazionistie si lanciano in inni patriottici.
La partitura presenta elementi d’interesse: le tecniche vocali spaziano dal parlato con notazioni ritmiche a melodie tradizionale con tutta una vasta gamma di soluzioni intermedie. C’è un realismo alla Mussorgskiy nel modo in cui voci (ed orchestra) si sovrappongono. Tra protagonisti e caratteristi l’allestimento richiede circa 25 solisti. L’opera non venne apprezzata dai poteri costituiti; sparì dalla Russia sino agli Anni 70.
La produzione in scena a Cagliari sino al 4 maggio e successivamente a San Pietroburgo al Mariinskij (che la co-produce) utilizza un impianto unico (un’Ucraina devastata sino ad assomigliare ad una discarica) dove si svolgono le trentina di rapidi quadri. La regia di Yuri Alexandrov pone molto l’accento su recitazione ed effetti speciali (incendi, combattimenti). Buona la concertazione di Alexander Vedernikov. Impossibile elencare la lunga schiera di cantanti – tutti ottimi attori. Occorre , tuttavia, ricordare come la Russia sfoggi una gamma di voci di tenore e di basso da fare invidia. E’ il lato migliore di un “Semën Kotko” che sarebbe potuto restare nella soffitta dei lavori d’occasione. (non del tutto riusciti)

“Semyon Kotko” ovvero il piccolo bolscevico sardo Il Velino 25 aprile

Musica, “Semyon Kotko” ovvero il piccolo bolscevico sardo
Roma, 23 apr (Velino) - Quando l’intellighenzia italiana era marxista nelle sue varie forme e guise, nessuno osò eseguire e, ancor meno, mettere in scena alcuni dei lavori composti da Sergej Prokofiev quando rientrato in patria dopo 17 anni in occidente, dovette “disperatamente” produrre qualcosa che fosse effettivamente riconosciuto come “sovietico”. Aveva già dato un assaggio quando iniziò il suo lento e graduale ritorno in Russia, con la musica per il film “Il Luogotenente Kijé”, tratto da una novella di Yuri Nicolai Tinianov e diretto da Alexandr Fienzimmer. Il lavoro è una sferzante satira della burocrazia prussiana da cui Prokofiev trasse una brillante “suite” , raramente eseguita in Italia, ma che quest’anno si è ascoltata in gennaio a Roma al Parco della Musica (con i complessi dell’Accademia di Santa Cecilia diretti da Yuri Temirkanov) e a marzo al Bologna Festival (con l’Orchestra Mozart guidata da Claudio Abbado) – due esecuzioni, quindi, di grandissimo livello.

La vera opera “sovietica” di Prokofiev, concepita alla fine degli anni Trenta e messa in scena a Mosca nel giugno 1940 (pochi mesi prima il “committente”, Vsevolod Meyerhold, direttore nel 1939 del Teatro dell’Opera di Stato Stanivlasky della capitale sovietica era stato fatto passare per le armi, dopo un processo-farsa, da Stalin) è “Semyon Kotko” in scena al Teatro Lirico di Cagliari fino al 4 maggio. Il lavoro è tratto da un romanzo ( “Io, figlio del popolo lavoratore”) di Valentin Katayev. Negli ultimi mesi della Prima guerra mondiale, il proletario soldato Kokto torna nel suo villaggio ucraino, dove i ricchi (per così dire) kulaki tramano contro “i rossi” collaborando, più o meno apertamente, con i tedeschi. Kotko è innamorato della bella Sophia (figlia di un kulako) che lo ricambia. Il villaggio viene invaso da tedeschi che fanno stragi di contadini; il padre della fidanzata del buon Kotko diventa immediatamente un collaborazionista. Il ragazzo scappa in montagna per tornare, con i partigiani, proprio mentre Sophia sta per essere data in moglie, controvoglia, a un proprietario terriero. Alla fine tedeschi e collaborazionisti vengono sconfitti. De Amicis, in “Cuore”, include il racconto del “Piccolo tamburino sardo”. Visto e ascoltato a Cagliari, questo Seymon è un eroico piccolo bolscevico sardo. In un’isola che poche settimane fa ha allontanato il centro-sinistra dalla guida della Regione.

Nonostante l’intreccio, l’opera ebbe difficoltà a essere rappresentata. Meyerhold finì nelle grinfie del terrore stalinista e quando erano in corso le prove di scena, giunse notizia del patto Molotov-Ribbentrop: sarebbe stato quindi sconveniente mostrare i tedeschi non solo “cattivi” ma anche “trucidi” e “sadici”. Si penso, così, a una riscrittura del libretto sostituendo i tedeschi con i russi bianchi. Ma l’alleanza russo-tedesca fu di breve durata e il lavoro poté arrivare sul palcoscenico come pensato e composto. Piacque al pubblico ma la burocrazia staliniana lo bollò come “formalista”. Sparì sino al 1958 quando venne rappresentato a Brno, capoluogo di provincia di quella che era la Repubblica Cecoslovacca. Sulle scene russe arrivò solamente nel 1970 e in quegli anni arrivò anche per un paio di sere alla Scala, senza però lasciar traccia, nell’ambito di una tournée del Bolshoi.

Cosa dire dei suoi meriti artistici? Curiosamente, “Semyon Kotko” è oggi popolare nella Russia de-stalinizzata e de-sovietizzata, a ragione più della sua musica che del suo puerile libretto. Uno dei maggiori musicisti russi Sviatoslav Richter lo pone sul sentiero tracciato da Musorgskij: grande opera storico-popolare. Pure musicologhi ben saldati nella tradizione del Novecento storico occidentale, ad esempio Andrew Huth, affermano che la “potente scrittura orchestrale e vocale” di Prokofiev riscatta il libretto. Uno dei maggiori esperti italiani del compositore russo, Piero Rattalino, esprime perplessità. Prima di assistere all’esecuzione dell’opera a Cagliari, conoscevo “Seymon Kotko” tramite la registrazione Philips di un’esecuzione dei complessi del “Mariinskij” di San Pietroburgo guidati da Valery Gergiev e condividevo i dubbi di Rattalino.

Oggi, dopo la “prima” al Teatro Lirico cagliaritano, pur non avendo cambiato giudizio complessivo, ho la netta impressione che pur volendo comporre l’opera sovietica per eccellenza, Prokofiev fosse rimasto futurista e dadaista con lo sguardo verso l’avvenire. La partitura presenta, infatti, elementi d’interesse: le tecniche vocali spaziano dal parlato con notazioni ritmiche a melodie tradizionali con tutta una vasta gamma di soluzioni intermedie. Lo stesso realismo alla Musorgskij, nel modo in cui voci e orchestra si sovrappongono, ha toni e slanci innovativi. I censori staliniani se ne accorsero allora; la cultura musicale italiana può apprezzarlo oggi. La produzione in scena a Cagliari e successivamente a San Pietroburgo al “Mariinskij” che la co-produce, utilizza un impianto unico (in un’Ucraina devastata sino ad assomigliare a una discarica) dove si svolgono una trentina di rapidi quadri. La regia di Yuri Alexandrov pone molto l’accento su un recitazione con effetti speciali (incendi e combattimenti). Buona la concertazione di Alexander Vedernikov. Impossibile elencare la lunga schiera di cantanti, ben 25 solisti tra protagonisti a caratteristi, tutti ottimi attori. Occorre, tuttavia, ricordare come la Russia sfoggi una gamma di voci di tenore e di basso da fare invidia. È il lato migliore di un “Semyon Kotko” che sarebbe potuto restare nell’oblio se non ci interrogasse, con inquietudine, sulle ragioni per cui certe voci (specialmente i tenori), introvabili o quasi in Occidente, sono invece merce non tanto rara all’Est.

(Hans Sachs) 23 apr 2009 15:15

Prokofiev’s Semën Kotko Lands in Sardinia Opera Today 25 aprile

Prokofiev’s Semën Kotko Lands in Sardinia

The Teatro Lirico di Cagliari is a sparkling comparatively new building in what used to be a blighted area near to the city center.

Sergey Prokofiev: Semën Kotko [Semyon Kotko]

Semyon Kotko: Viktor Lutsiuk; Semyon’s mother: Ludmilla Filatova; Frosya: Olga Savov; Remeniuk: Viktor Chernomortsev; Chivrja: Ekaterina Solovieva; Sofya: Lyudmlla Kasianenko; Lyubka: Tatiana Pavlovskaya; Mikola: Vladimir Zhivopistsev. Teatro Lirico Orchestra and Chorus. Alexander Vedernikov, conductor. Yuri Alexandrov, director. Semyon Pastukh, set designs.

Above: Scene from Semyon Kotko

All photos courtesy of Mariinsky Theatre


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It is the only proper opera house of Sardinia. Inaugurated slightly more than ten years ago, it has met the challenge of giving new life to the Sardinian capital’s musical life. Near to the theatre are a glittering modern hotel, a Church, a well-tended park and middle-class and upper middle-class housing developments. Opera is a wide, wild world that easily coexists with the “miracles” of urban planning and zoning regulations.

It is difficult to attract interest to an albeit elegant theatre in remote Sardinia. For the last ten years, the Cagliari Teatro Lirico has had a simple recipe: standard repertory (viz. Rigoletto, Bohème, Lucia) for most of the season but breaking news for the inauguration: an opera never previously performed in Italy (better still if seldom seen in the rest of the world) for a major opening to be scheduled in the Spring — not in December or January like in other Italian Opera Houses. The season’s inauguration coincides with the “Sant’Efision celebrations”, a local event that is nearly a national holiday (April 25th “Liberation Day” after the collapse of Nazism in Northern Italy). Thus, opera lovers flying to Cagliari can enjoy a little vacation and the late April sun on the lovely white sand beaches surrounding the town.

This year Semën Kotko [Semyon Kotko] by Sergey Prokofiev was chosen for the 2009 April event in a joint production with St Petersburg’s Mariinsky Theatre. Until the mid-70s, Semën was little performed even in Russia. The opera was composed when Prokofiev, having returned to the Soviet Union after 17 years abroad, made an earnest attempt to develop a good relationship if not with Stalin himself, at least with his top bureaucracy. The plot is based on the then successful novel by Valentin Katayev — the star of popular Soviet writers. It deals with a brave young Bolshevik fighting in post-World War I Ukraine with horrid reactionary, stupid but sadistic Germans; the happy end is the arrival of the Red Army when all our “good folks” are about to be executed. Whilst the score was being composed, the brilliant stage director who had commissioned it, Vsevolod Meyerhold, fell out of Stalin’s favors and subsequently executed by firing squad. During rehearsal, the Russians and the Germans entered into the Molotov–Ribbentrop Pact (the Treaty of Non-aggression between Germany and the USSR), which led to the partition of Poland. Thus, the libretto had to be changed: the cruel Germans were replaced by the Czarist White Army. A few weeks later, Nazi troops invaded the USSR. Thus, a new change — to go back to the original libretto. In spite of all these efforts, and of successful première at the Moscow Stanislavsky Opera Theatre, the officialdom’s reaction was icy: the opera (and its author) were accused of “formalism”. Thus the patriotic music drama was withdrawn and was not staged until 1958 — not in the USSR or in any major western opera house, but in little Brno, Czechoslovakia. It appeared at the Bolshoi only in 1970
Semyon_Kotko04.gifScene from Semyon Kotko

The plot is puerile, but the score is intriguing. The vocal techniques range from pure speech (with rhythmic notation) to traditionally shaped melody, with every possible degree in between. There a Mussorgskian realism in the way voices overlap and different types of expressions are heard simultaneously. We are far away from Prokofiev’s nearly futuristic style, such as in The Love of Three Oranges or in The Gambler. The orchestration is rich. There is a strong, and apparently earnest, effort to follow “realistic socialism” aesthetics, which were incompatible with Prokofiev’s tendency toward innovation.
Semyon_Kotko02.gifScene from Act I

Does it work now? The Cagliari-Mariinsky production is, no doubt, an excellent effort: the stage direction is highly dramatic, acting is very good, a set of first-class tenors and basses (with a large gamut of varieties in their vocal specification), good conducting (Alexander Vedernikov), an intriguing stage set (Seymon Pastukh), and a stage direction (Yuri Alexandrov) that consists of 28 or so short scenes (post-World War I Ukraine looks like an immense garbage dump). In spite of these efforts, Semën Kotko fails because it is hampered by its inability to meet the demands of Bolshevist propaganda “despite [Prokofiev’s] best efforts . . . [to] bring it down to the level the Stalinist cultural establishment . . . required” [Richard Taruskin, Semyon Kotko, Grove Music Online ]. In light of the many attempts to please the powers-to-be and to experiment with a new mix of styles, it would have been well enough to have left this in the attic. Perhaps its principal significance is being a precursor to War and Peace, composed by Prokofiev a few years later.
Semyon_Kotko03.gifScene from Act II

Nonetheless, a trip to Cagliari is worth for the marvelous voices, especially of the tenors, rarely heard in the West.

Giuseppe Pennisi

martedì 21 aprile 2009

MUSICA DI STATO, Il Foglio 22 aprile

Il paradosso è doppio. Sergei Prokofiev, tornato in Patria intriso di cultura futurista e dadaista, ce la mise tutta per ingraziarsi Stalin: il grimaldello per acquisirne le simpatie sarebbe stato un dramma in musica sovietico sino al midollo (“Seymon Kokto”) per il grande pubblico “rivoluzionario”. Pur se basato su un romanzo di uno scrittore iper-allineato con il regime (Vladimir Katayev, pure co-autore del libretto, Premio Stalin del 1949), il lavoro piacque poco al Piccolo Padre. Vsevolod Meyerhold , direttore del teatro che lo aveva commissionato (l’Opera Stanislasky di Mosca), venne, prima, torturato e ,poi, fucilato (oggi è considerato uno dei maggiori innovatori del teatro del Novecento e nella capitale russa hanno creato un museo in suo onore). Il lavoro – nell’Ucraina degli ultimi giorni della prima guerra mondiale, i contadini ed i partigiani “buoni” mettono in fuga gli occupanti tedeschi ed i possidenti terrieri loro collaborazionisti- è stato quasi mai rappresentato nell’Urss sino agli Anni 70. Arriva soltanto oggi in Italia ed in uno dei rari teatri lirici (quello di Cagliari) il cui Sovrintendente, Maurizio Pietrantonio, è considerato contiguo al centro destra. Come mai, per tanti decenni (la prima mondiale risale al 23 giugno 1940) Sovrintendenti culturalmente vicini al centro-sinistra, sempre pronti a mettere in scena lavori di origine sovietica (se non altro nell’ambito di tournee di compagnie dell’Europa orientale) non si sono mai accorti di questa fatica di Prokofiev?
Cerchiamo di spiegare il doppio paradosso. Prokofiev era un figlio capriccioso della “Grande Madre Russia”. Aveva giovanissimo, allacciato relazioni con i futuristi italiani, incontrati a Milano nel corso di un viaggio. Ai primi rulli di tamburo della rivoluzione, ancorché già famoso (benché solo 26nne), espatriò e visse tra gli Usa e l’Europa 17 anni scrivendo e componendo capolavori dadaisti (se ne era appassionato in Francia) come “L’amore delle tre melarance” ed “Il giocatore” e sposando una bellissima spagnola. Rientrò in Russia spinto sia dalla nostalgia sia dalla lusinghe di una intellighenzia ancora non decimata dalle purghe staliniane. Gli venivano indubbiamente concessi privilegi, ma il suo comportamento quotidiano era poco “politically correct”; nella Mosca della metà degli Anni Trenta, scorrazzava a tutta velocità (in strade in cui non c’era quasi nessuna auto privata) in un Ford ultimo modello, indossava un cappotto di puro cammello, scarpe gialle e cravatte arancione, aveva una moglie il cui abbigliamento (ed i cui profumi) venivano da Parigi ed aveva iscritto i figli alla scuola privata anglo-americana (sarebbe stata chiusa nel 1937). Tentava d’integrarsi componendo lavori quali la “Cantata per il XX anniversario della rivoluzione d’ottobre”, le “Quattro marce”, i “Canti dei nostri giorni” e musiche per film “patriottici”- il più noto è “Alexandr Nevsky” di Sergej Eisenstein. Ma gli esiti erano dubbi: la “Cantata” fu bocciata dal Comitato delle Arti del Pcus e, lui vivente, non venne mai eseguita.
Si rivolse, dopo altri tentativi a “Seymon Kokto”, certo che il binomio Kataiev-Meyerhold (non ancora in disgrazia) gli avrebbero fatto fare centro (al cuore di Stalìn). Mentre l’opera stava per debuttare colpo di scena: il patto Molotov-Ribbentrop non consente di mostrare tedeschi “cattivi”. Riscrittura, quindi, del libretto sostituendoli con reazionari “russi bianchi”. Di nuovo, si sta per debuttare quando giunge la notizia dell’invasione dell’Urss da parte delle armate di Hitler. Si torna al libretto originale. Il nostro si aspettava un successo strepitoso (anche a ragione della contingenza politica). La stampa fu gelida:troppo recitativo, mancanza di melodie di facile apprendimento, poco folklore. Dal Comitato delle Arti giunse l’accusa di “formalismo” che solo quattro anni prima aveva impedito le rappresentazioni della “Lady Macbeth” di Schostakovich. Quindi, “Seymon” finì in soffitta – per decenni. Gli stessi “compagni” nei Paesi occidentali mostrarono poca curiosità per il lavoro. Mentre Prokofiev, capita la lezione, iniziò a comporre una “Cantata per i 60 anni di Stalin” e la monumentale “Guerra e Pace”.
Cosa diede fastidio al Comitato delle Arti? Ascoltata oggi nell’unica edizione in commercio l’opera appare straordinariamente moderna: ad un libretto impregnato di realismo socialista corrisponde una scrittura musicale e vocale (ben 48 brevissime scene e) in cui si va dal parlato ritmato alla melodia con tutte le gradazioni intermedie. Ci sono echi di Mussorgski nel modo in cui le voci si sovrappongono e canti popolari si inseriscono nella partitura. Pur volendo comporre l’opera sovietica per eccellenza, Prokofiev era rimasto futurista e dadaista e guardava al futuro. I censori staliniani se ne accorsero allora. Ed oggi la cultura italiana di destra.

LA GRAN BRETAGNA VA A FONDO? L'Occidentale del 21 aprile

A Londra, e- quel che più conta – a Washington , corre insistentemente voce che la Gran Bretagna abbia già iniziato discussioni preliminari con il Fondo monetario internazionale per un prestito a breve termine diretto a sostenere la sterlina (ossia ad evitare un tracollo analogo a quello del settembre 1992) e permettere un “riaggiustamento” graduale della bilancia dei pagamenti (il disavanzo dei cui conti con l’estero si sta dilatando rapidamente) e, in parallelo, un riassetto dei conti interni. Alcune elaborazioni del Tesoro britannico, per il momento ufficiose (ma non riservate più di tanto poiché apparse in alcuni servizi finanziari telematici ad abbonamento) evidenziano che nel 2009 l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni raggiungerebbe l’11% del pil; inoltre lo stock di debito in proporzione al pil (oggi al 40%) arriverebbe, senza correzioni di rotta, all’80% entro il 2012. Londra – ricordiamolo – non fa parte del club dell’euro; quindi, ai suoi conti pubblici e con l’estero non si applicano né la vigilanza né gli strumenti creditizi disponibili per coloro che appartengono all’unione monetaria.
La possibile, e, secondo fonti interne al Fmi, probabile, richiesta britannica (che verrebbe accolta con piacere nella !9sima strada, N.W. di Washington) suscita due generi di considerazioni per chi ha lavorato per circa 20 anni per le istituzioni finanziarie internazionali con sede nella capitale Usa.
Da un lato, si risvegliano echi del passato- con la nostalgia, da un lato, di “In ricordo di una signora amica” di Giuseppe Patroni-Griffi e l’ironia di Friederich Dűnremat “Il ritorno della vecchia signora”. Da un altro, percezioni sul futuro dell’unione monetaria europeo e della stessa Ue nei vari “G” (da “G2” a “G77”) che compongono la galassia dei vertici e supervertici intergovernativi.
Andiamo brevemente al passato. Negli Anni 60 la Gran Bretagna è stata uno degli ammalati più visitati dal Fondo e dalle sue missione: lavorare al “desk” Gran Bretagna del Fmi era tra gli incarichi di maggior prestigio all’interno dell’organizzazione. Al Fondo era maturata la convinzione che Londra avrebbe dovuto svalutare (si era nel regime detto “di Bretton Woods”, di cambi gestiti collegialmente) ma di concordare i vari passaggi con il resto dell’area della sterlina. “Eventually, they did it” – commentò uno dei maggiori specialisti d’economia internazionale dell’epoca, Isaiah Frank, quando nel novembre 1967 decisero di farlo. Ma all’improvviso. E sancendo così la fine dell’area della sterlina, a ragione delle forti perdite valutarie subite dai Paesi del Commenwealt che depositavano da anni i loro saldi presso la “Old Lady”, la Bank of England.
Guardiamo prima al presente e poi al futuro. La decisione di Londra di non aderire all’euro e di tenersi le mani libere ha una sua coerenza per un Paese che ha attuato, dall’inizio degli Anni 80, una strategia di de-industrializzazione e di finanziarizzazione. Per oltre un quarto di secolo ne ha colto i benefici: lo Stock Exchange è la sola piazza che può trattare alla pari con Wall Street, la crescita reale è stata sostenuta, l’occupazione in aumento. Ora, però, ne paga il costo: un’economia priva di una base industriale è più esposta di altre allo tsumani finanziario. Da “senza briglie” (quelle imposte dalla moneta unica) è diventata “senza paracadute”. Mentre cinque anni fa aveva non solo parametri del “patto di stabilità” ma anche i “fondamentali” in ordine. Ove oggi il Governo di Sua Maestà chiedesse di entrare nell’unione monetaria, gli verrebbe detto che fanno difetto i requisiti di base. Quindi – si dice al servizio studi della Banca Centrale Europea (Bce) – è meglio che non bussi neanche alla porta.
Ci sono, però, pure conseguenze importanti sul piano interno. L’ipotesi è vista a Downing Street come l’Ombra di Banco. L’ultima volta che la Gran Bretagna si è rivolta, cappello in mano, è stato nel lontano 1976 con un Governo laburista ed un Regno Unito travagliato da malessere sociale e scioperi. Ottenne le agevolazioni creditizie. Il Governo resto in carica. Per poco più di 18 mesi prima di lasciare le redini ai Tory per oltre tre lustri. Per Gordon Brown gli scandali e scandaletti di queste settimane sono punzecchiature di spillo a fronte di una richiesta al Fondo analoghe a quelle fatte negli ultimi mesi da Ungheria e Polonia.
La Vecchia Europa continentale dell’euro, però, farebbe meglio a non sorridere – come avviene in questi giorni dove si fa diplomazia economica internazionale. Con un Regno Unito debole ed umiliato, l’Ue avrebbe meno voce in capitolo nei vari “G”. E si andrebbe verso il “G2” (Usa-Cina), rendendo l’Ue una specie di Consiglio Superiore dei Beni Culturali con aspirazioni maggioritarie (nell’economia internazionale).

lunedì 20 aprile 2009

CLT - Musica, cosa intriga nel “Romeo et Juliette” di Berlioz in Il Velino 20 aprile

Musica, cosa intriga nel “Romeo et Juliette” di Berlioz
Roma, 20 apr (Velino) - A un suo compleanno “tondo”, quello in cui varcava il mezzo secolo, Erich Wolfgang Korngold, con un bicchiere di champagne in mano, disse: “Cinquant’anni sono troppi per essere ancora un enfant prodige”. Smise così di sbalordire con le musiche da film, grazie alle quali aveva collezionato premi Oscar e riconoscimenti vari, e tornò alle partiture semisperimentali della sua giovinezza in Europa, ritirandosi praticamente a vita privata. Di tutt’altro tenore la scelta di Lorin Maazel, enfant prodige assoluto. A undici anni, su invito di Toscanini, diresse l’orchestra della Nbc, quindi, dodicenne, su invito di Stokowski, la Los Angeles Philarmonic. A 75 anni ha iniziato una nuova carriera, quella di compositore di “grand opéra” del XXI secolo, pur continuando a concertare come direttore ospite e a dirigere il modernissimo Teatro dell’Opera di Valencia, il Palau de la Reina Sofia.

Sabato scorso, alle soglie degli 80 anni, atletico e scattante, è stato uno spettacolo vederlo a Roma sul podio dell’Accademia di Santa Cecilia. Accanto a lui, nella lunga parte che costituisce il finale di “Roméo et Juliette” di Hector Berlioz (in scena ancora stasera e domani), un altro “grande vecchio” che fu un semi-“enfant prodige”: il basso belga José van Dam (perché i programmi di sala non ricordano le sue origini italiane e il suo vero nome Giuseppe Battezzata Van Damme?). A 21 anni Van Dam era già protagonista all’Opéra di Parigi e adesso che ne ha quasi 70 riempie con la sua voce tonda e calda un auditorio di 2.800 posti. Il contrasto è netto con le due altre voci: Sara Mingardo, un contralto che sfiora la mezza età e si è meritata successi nei maggiori teatri, e il giovane Philippe Castagner, un tenorino canadese ma di formazione americana quasi di “grazia”, perfetto nell’emissione ma alle prese con una sala molto più grande di quelle a cui è abituato.

Ad accentuare questo contrasto, un piccolo coro nella prima parte che interloquisce con Mingardo e Castagner e tutto il coro maschile dell’Accademia, dalla seconda galleria, che dialoga con Van Dam, mentre Maazel e l’orchestra cesellano la scrittura di Berlioz. L’esecuzione da sola vale il concerto. Diversi i pareri dei critici, specialmente nostrani, sulla Symphonie Dramatique in cui Berlioz, seguendo unicamente in parte il testo shakespeariano, cerca di catturare lo spirito della tragedia di amore e morte. Più che affascinare il lavoro intriga. Ci sono innumerevoli versioni per il teatro in musica della tragedia di Shakespeare. Alcune francamente mediocri (quella di Marchetti), altre capolavori assoluti (penso a Bellini e Bernstein). Quella di Berlioz venne concepita per la sala da concerto non per il teatro. E’, al pari de “La Damnation de Faust”, una semi-opera fortemente calata nel romanticismo alla francese della prima metà del XIX secolo.

Parlando durante l’intervallo con un giovane collega scettico, mi è venuto in mente sostenere che per afferrarne lo spirito e comprenderne la chiave di lettura, era utile vedere il capolavoro di Marcel Carné “Les enfants du Paradis” e sapere qualcosa sulla maniera con cui l’attore-impresario Frédéric Lemaitre portò e adattò in Francia, nel Boulevard du Crime, le tragedie di Shakespeare. Ovviamente il mio interlocutore non sapeva nulla né di Carné, né di “Les enfants du Paradis” né di Lemaitre, però ha rilevato che il “Roméo” di Berlioz pareva adatto a una miniserie televisiva da programmazione Mediaset berlusconiana. Aveva capito – o pensava di avere capito – tutto. Inutile ricordargli che, come peraltro rammentato nel programma di sala, una sera Wagner, a letto e sul punto di addormentarsi, disse alla moglie Cosima di sentirsi in parte tributario di questa semi-opera del francese conosciuto come suo rivale.

COME USCIRE DAL LABIRINTO DELLA DEGLOBALIZZAZIONE FFwebmagazine 20 aprile

Da alcuni mesi si avvertono i segni di una contrazione non solo del commercio mondiale (per l’anno in corso l’Organizzazione mondiale del commercio, Omc, prevede una riduzione in valore del 9% dell’export globale) ma anche degli altri indicatori d’integrazione economica internazionale. Si è prosciugato il “private equity“ internazionale, in caduta a picco gli investimenti diretti all’estero, frenano anche le migrazioni. Diciassette dei 20 Paesi del G20 hanno posto barriere protezionistiche agli scambi. Tornano i controlli valutari. E’ probabile che quando, con il dovuto distacco, gli storici economici si occuperanno di questi lustri porranno probabilmente il 2008 come l’anno dell’inizio “convenzionale” della deglobalizzazione . Se ve vedono i segni concreti e si stanno corrggendo, ove non capovolgendo, le affermazioni banali sulle implicazioni (sull’economia reale) del tormentone sulle piazze finanziare e comprendere come quanto avviene, ormai da anni, sui mercati finanziari è, piuttosto, conseguenza di disfunzioni dell’economia reale. Lo dicono proprio gli esperti della moneta a dirlo: ad esempio, Paul Tucker del Monetary Policy Committee (il direttorio) della Bank of England in un saggio recente sottolinea che: a) è la prima volta che una crisi di questa portata avviene in periodo di pace; b) una delle sue determinanti è il “Social Contract” (noi lo chiameremmo giornalisticamente l’inciucio) tra banche centrali ed autorità politiche per fare fronte a problemi economici sistemici. Tale “Social Contract” ha dato priorità all’innovazione finanziaria, senza, però, definire regole congrue. Sino a quando è giunta l’implosione – una rarità in tempo di pace e dopo che, in seguito alla depressione degli Anni 30, le autorità di politica economica hanno appreso a gestire domanda aggregata con strumentazione tale, in certi casi, di consentire pure il “fine tuning” (virtuosismo).. Considerazioni simili si leggono in una raccolta di saggi, a cura di Gian Giacomo Nardozzi, in uscita per i tipi della Luiss University Press: “Asset Prices and Monetary Policy Rules: Shall we Forsake Financial Markets Stabilization?” (Prezzi delle attività economiche e regole di politica monetaria: dobbiamo rinunciare alla stabilizzazione dei mercati finanziari”?). Il titolo della raccolta è eloquente: ci induce a guardare con maggiore attenzione all’economia reale.
Anche si, per utilizzare il lessico del Presidente Usa Barack Obama, si intravedono “barlumi” di ripresa, la più recente tornata di previsioni econometriche (18 aprile 2009) non è ottimistica:i 20 maggiori centri privati di analisi macro-econometrica (non ce ne è neanche uno italiano) stimano, per l’anno in corso, contrazione del 2,7% per gli Usa, del 3,4% per l’area dell’euro, del 3,5% per la Gran Bretagna e del 6,5% per il Giappone. Lenta e graduale la ripresa ora preconizzata per 2010 (secondo stime che gli istituti stessi chiamano preliminari): 1,4% per gli Usa, 0,2% per l’area dell’euro, ,0, 3% per la Gran Bretagna e 0,4% per il Giappone. Non si tratta unicamente di dati “congiunturali”, ossia di breve periodo, una nottata intensa ma non lunga da cui, messa una pezza alla crisi finanziaria, ci si sveglierebbe e ci si rimetterebbe a correre. Un’analisi di documenti tecnici (apparentemente solo per gli “addetti ai lavori”) sul commercio internazionale evidenzia che è cambiata l’elasticità degli scambi mondiali di manufatti alle variazioni del pil: dopo essere stata, nel corso degli Anni 90, attorno a 2,5 (ossia gli scambi mondiali aumentavano di 2,5 punti percentuali quando il pil cresceva di un punto percentuale), risulta in questo primo scorcio di XXI secolo inferiore a 2 e pare tenda ad approssimarsi a 1. In parole povere, e senza tanti tecnicismi, ciò vuole dire che il meccanismo tradizionale di propagazione della crescita si sta indebolendo. E lo sta facendo molto rapidamente.
Altro indicatore di rilievo è il vero e proprio crollo degli investimenti diretti all’estero: pur tenendo conto delle scorrerie dei “fondi sovrani” dei “nouveaux riches” dell’economia mondiale, dall’inizio del secolo il flusso di investimenti diretti (non in portafoglio) all’estero è quasi dimezzato rispetto all’ultimo decennio del secolo scorso.
Dopo il fallimento della trattativa multilaterale sono in corso due tendenze piene di insidie (per l’integrazione economica internazionale) : il rafforzarsi di mercati comuni o zone di libero scambio regionali ed il moltiplicarsi di accordi commerciali bilaterali. Il pullulare di accordi bilaterali – sostiene, in un saggio fresco di stampa, Jeffrey Schott dell’Institute of International Economics – minaccia di frammentare il commercio o almeno di ingabbiarlo in una ragnatela simile ad un labirinto.
Le esperienze del passato insegnano che le de globalizzazioni, se lasciate a sé stesse, non portano nulla di buono: sono spesso state i prolegomeni di guerre di vasta entità: la prima grande deglobalizzazione 1870-1910 si chiuse con due colpi di pistola a Sarajevo. Forse, il conflitto armato risultante dalla deglobalizzazione è già iniziato; il terrorismo ed i suoi college, ormai sparsi in tutto il mondo (anche in Italia) sono le sue avanguardie. Lo avverte uno dei maggiori economisti americani, Martin Feldstein, alla guida del Comitato dei Consiglieri Economici della Casa Bianca per due Amministrazioni e Presidente (una carica elettiva quadriennale), per quattro lustri, del National Bureau of Economic Research (Nber), l’equivalente Usa di un Cnr per la disciplina economica.
Chi sono gli alleati della deglobalizzazione? Non sono certo i rumorosi “no global”. Hanno la , capaci di organizzare manifestazioni ma non di invertire tendenze. I veri alleati della deglobalizzazione sono quelli che, ai tempi del Kennedy Round (ossia nella seconda metà degli Anni Sessanta, ossia alla metà degli Anni Sessanta, Mario Casari (Università di Padova, uno dei più acuti studiosi italiani di economia internazionale dell’epoca) chiamava i ”barracuda-esperti”, sovente alti funzionari molto vicini a settori produttivi intrinsecamente protezionisti, nonché a sindacati anch’essi sempre più ostili, in sostanza, alla globalizzazione anche quando, a parole, se ne professano favorevoli. Una schiera vasta e composita che si nutre delle imperfezioni e delle disfunzioni del mercato- e delle rendite che esse comportano.
La settimana scorsa, su questo “magazine”, abbiamo ricordato come per un mercato forte, plurale e leale, è necessario uno Stato forte con regole chiare e semplici, ma rigorose. Tale Stato forte è mancato – lo sottolineano gli storici economici – quando la deglobalizzazione del primo decennio del secolo scorso ha portato alla prima guerra mondiale, le cui ferite hanno generano le seconde. Non è stato adeguatamente comprese come il progressivo indebolimento dello Stato sia stata una delle determinanti che hanno innescata la crisi in corso. Lo avverte Alberto Alesina, Preside della Facoltà di Economia dell’Università di Harvard (ed uno dei pochi italiani in odore di Nobel): sino alla metà degli Anni 80 il processo d’integrazione economica internazionale è stato pilotato da Stati forti e consapevoli dei necessari riequilibri ed ammortizzatori interni (ad esempio, l’accordo del Plaza del 1985 sui tassi di cambio e le politiche di crescita); dal dopoguerra alla metà degli Anni 80, il mondo è stato catterizzato, al tempo stesso, da una rapida crescita e da una riduzioni delle disparità tra ricchi e poveri; negli ultimi venti anni, invece, alla globalizzazione ed alla finanziarizzazione apparentemente senza regole ha corrisposto un aumento delle diseguaglianze.
Se gli Stati non intervengono a governare i processi , la deglobalizzazione minaccia una frammentazione di danni per tutti. La Storia non si ripete meccanicamente, ma chi non ne apprende le lezioni può pagare lo scotto, sempre alto, dell’ignoranza.

domenica 19 aprile 2009

Die tote Stadt: The Dead City Livens Up Palermo Opera Today April 19

19 Apr 2009
Die tote Stadt: The Dead City Livens Up Palermo
Erich Wolfgang Korngold’s music drama Die tote Stadt has had a rather erratic life in major opera houses.
Erich Wolfgang Korngold: Die tote Stadt
Paul: John Treleaven; Marietta / Marie: Nicola Beller Carbone; Frank: Christopher Robertson; Brigitte: Tiziana Tramonti; Juliette: Mina Yamazaki; Lucienne: Julia Oesch; Fritz: Franco Pomponi; Counte Albert: Federico Lepre. Orchestra, Coro e Coro di voci bianche del Teatro Massimo. Will Humburg, Pierluigi Pizzi, director.
Above: A scene from Die tote Stadt, Palermo [Photo by Michele Crosera]

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The author was an “enfant prodige” when at the age of 23 , and with already two successful operas on his back, Die tote Stadt ( “The Dead City”) had the privilege of simultaneous premières in Hamburg and Cologne. It had been turned down by Vienna mainly because of a rift between Gustav Mahler (then, at the helm of the Staatsoper) and Korngold’s father, Julius, a well known (and very strong minded) music reviewer as well as co-author (with his son) of the terse libretto. The success was enormous. Also in Vienna, where it was staged a few months later.
Even before the first staging, Giacomo Puccini was so shocked by a piano performance by “young Erich Wolfgang” that, according to hearsay in many of his biographies, stopped composing the final part of Turandot. In the 1920s, Die tote Stadt was applauded in all main European opera houses. At the advent of Nazism, Korngold emigrated to the U.S. where he spent most of his life between New York and Los Angeles. He became a well known author of film music, winning no less than two Oscar Prizes.
After a long period of silence, Die tote Stadt found a new lease on life in the mid-1970s, with successful and almost parallel, albeit very different productions, in New York (at the City Opera) and in Munich. I loved the City Opera production when I was living in Washington; the music drama was being toured in the USA. It appeared quite frequently until the mid-1980s. Then a new phase of relative oblivion; it re-emerged in the late 1990 at the Spoleto Festival and in 2004 at the Salzburg Festival. The Salzburg production, staged by Willy Decker, had standing ovation; since then, it is in the repertory of the Vienna Staatsoper and has been seen in Barcelona, Madrid and several other major theaters; last February was in London at the RHO. In Italy, Die tote Stadt had his premère in Catania in 1996, was in Spoleto in 1998 and is now in Venice and Palermo in a new sparkling production — quite different from Decker’s.
The plot is base on a decadent late 19th century novel by the symbolistic writer and poet Georges Rodendach — also the basis, as a play, for a major box-office hit It revolves around the obsessions of young widower, Paul; madly in love for his past wife Marie. He thinks that she revives in a sexy dancer, Mariette, visiting Bruges (“the dead city”) to perform in the local opera house. To come to grip with his obsessive day-dreams, Paul has to kill Mariette and leave Bruges forever. The score includes a broad cross-section of all what was in vogue in Central Europe in the years around the First World War. It has reminisces from Wagner and Strauss but especially the opulence of Schreker. The listener can feel that Zemlisky was Korngold’s teacher, not only Schönberg. The complex vocal and orchestral score leaves also room to two set pieces — Mariette’s Lute Song and Pierrot’s Dance Song — easy to listen and frequently requested in German radio programs.
A scene from Die tote Stadt [Photo by Michele Crosera]
The Palermo and Venice joint productions — two of the rare financially sound Italian opera houses — features a fascinating staging by Pier Luigi Pizzi. With a skillful use of mirrors and lighting, we are enthralled in a deadly atmosphere: Paul’s house opens on a decaying city in a dark swamp of stagnant water. The details are carefully described in James Sohre’s review of the Venice production published in Opera Today on 8 March. In Palermo, though, there is a different cast. The conductor Will Humburg digs into the score to show its modern approach as well the “virtuoso” efforts requested to some orchestra soloist. Very taxing the role of the protagonist, Paul, always on stage with a heldentenor pitch; John Trelaven is up to the required standard; in my opinion, a better fit than Stefan Vinke in Venice . Nicole Beller Carbone is an erotic Mariette, both vocally and dramatically. Good all the others.
The Palermo audience is gradually getting adjusted to more innovative opera seasons than those of the past and applauded warmly the April 16th opening night of Die tote Stadt in their beloved Teatro Massimo.
Giuseppe Pennisi

19 Apr 2009
Die tote Stadt: The Dead City Livens Up Palermo
Erich Wolfgang Korngold’s music drama Die tote Stadt has had a rather erratic life in major opera houses.
Erich Wolfgang Korngold: Die tote Stadt
Paul: John Treleaven; Marietta / Marie: Nicola Beller Carbone; Frank: Christopher Robertson; Brigitte: Tiziana Tramonti; Juliette: Mina Yamazaki; Lucienne: Julia Oesch; Fritz: Franco Pomponi; Counte Albert: Federico Lepre. Orchestra, Coro e Coro di voci bianche del Teatro Massimo. Will Humburg, Pierluigi Pizzi, director.
Above: A scene from Die tote Stadt, Palermo [Photo by Michele Crosera]

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The author was an “enfant prodige” when at the age of 23 , and with already two successful operas on his back, Die tote Stadt ( “The Dead City”) had the privilege of simultaneous premières in Hamburg and Cologne. It had been turned down by Vienna mainly because of a rift between Gustav Mahler (then, at the helm of the Staatsoper) and Korngold’s father, Julius, a well known (and very strong minded) music reviewer as well as co-author (with his son) of the terse libretto. The success was enormous. Also in Vienna, where it was staged a few months later.
Even before the first staging, Giacomo Puccini was so shocked by a piano performance by “young Erich Wolfgang” that, according to hearsay in many of his biographies, stopped composing the final part of Turandot. In the 1920s, Die tote Stadt was applauded in all main European opera houses. At the advent of Nazism, Korngold emigrated to the U.S. where he spent most of his life between New York and Los Angeles. He became a well known author of film music, winning no less than two Oscar Prizes.
After a long period of silence, Die tote Stadt found a new lease on life in the mid-1970s, with successful and almost parallel, albeit very different productions, in New York (at the City Opera) and in Munich. I loved the City Opera production when I was living in Washington; the music drama was being toured in the USA. It appeared quite frequently until the mid-1980s. Then a new phase of relative oblivion; it re-emerged in the late 1990 at the Spoleto Festival and in 2004 at the Salzburg Festival. The Salzburg production, staged by Willy Decker, had standing ovation; since then, it is in the repertory of the Vienna Staatsoper and has been seen in Barcelona, Madrid and several other major theaters; last February was in London at the RHO. In Italy, Die tote Stadt had his premère in Catania in 1996, was in Spoleto in 1998 and is now in Venice and Palermo in a new sparkling production — quite different from Decker’s.
The plot is base on a decadent late 19th century novel by the symbolistic writer and poet Georges Rodendach — also the basis, as a play, for a major box-office hit It revolves around the obsessions of young widower, Paul; madly in love for his past wife Marie. He thinks that she revives in a sexy dancer, Mariette, visiting Bruges (“the dead city”) to perform in the local opera house. To come to grip with his obsessive day-dreams, Paul has to kill Mariette and leave Bruges forever. The score includes a broad cross-section of all what was in vogue in Central Europe in the years around the First World War. It has reminisces from Wagner and Strauss but especially the opulence of Schreker. The listener can feel that Zemlisky was Korngold’s teacher, not only Schönberg. The complex vocal and orchestral score leaves also room to two set pieces — Mariette’s Lute Song and Pierrot’s Dance Song — easy to listen and frequently requested in German radio programs.
A scene from Die tote Stadt [Photo by Michele Crosera]
The Palermo and Venice joint productions — two of the rare financially sound Italian opera houses — features a fascinating staging by Pier Luigi Pizzi. With a skillful use of mirrors and lighting, we are enthralled in a deadly atmosphere: Paul’s house opens on a decaying city in a dark swamp of stagnant water. The details are carefully described in James Sohre’s review of the Venice production published in Opera Today on 8 March. In Palermo, though, there is a different cast. The conductor Will Humburg digs into the score to show its modern approach as well the “virtuoso” efforts requested to some orchestra soloist. Very taxing the role of the protagonist, Paul, always on stage with a heldentenor pitch; John Trelaven is up to the required standard; in my opinion, a better fit than Stefan Vinke in Venice . Nicole Beller Carbone is an erotic Mariette, both vocally and dramatically. Good all the others.
The Palermo audience is gradually getting adjusted to more innovative opera seasons than those of the past and applauded warmly the April 16th opening night of Die tote Stadt in their beloved Teatro Massimo.
Giuseppe Pennisi
(Based on the April 16 performance)

DALL’”ULTIMO G8” UNA NUOVA ROTTA PER IL FUTURO , Il Tempo 20 aprile

Nell’ultimo lavoro per la scena dell’allora 78ne Richard Strauss, uno dei protagonisti (un anziano capocomico) dice che per un attore di razza ciò che conta non è “come si entra (in palcoscenico) o quel che si fa (durante lo spettacolo) ma come si esce”. Occorre tenerlo presente in queste settimane in cui politici, sherpas, e barracuda-esperti stanno mettendo a punto la strategia per il “G8” della Maddalena. E’ un vertice differente da tutti gli altri non solamente perché avviene nel mezzo di una crisi finanziaria ed economia sistemicale ma anche poiché sarà l”ultimo G8” (della seria iniziata circa 35 anni nel Castello di Rambouillet). Probabilmente i Capi di Stato e di Governo presenti saranno poco più di una dozzina, ma quelli che non appartengono al “G8” ufficiale ( o storico, che dir si voglia) non si accontenteranno, in futuro, di essere invitati per il caffè (e non per il pranzo di gala). In quanto “ultimo G8” resterà negli annali della storia economica e, soprattutto, dovrà indicare agli altri “G” la rotta per il futuro, non solo per come uscire dalla crisi ma per quello che dovrà essere il mondo del dopo-crisi. Un po’ come avvenne con le conferenze di Bretton Woods (per la finanza) e di La Havana (per il commercio) mentre volgeva al termine la seconda guerra mondiale. Ciò rende tremendamente importanti il ruolo e le responsabilità dell’Italia, “ultimo Presidente” dell’”ultimo G8”.
L’attenzione si è concentrata sulle “nuove regole” per la finanza mondiale. E’ tema centrale sia al riassetto sia al dopo-crisi. Data la delicatezza della materia, è necessario che prevalga il riserbo della diplomazia economica internazionale. E’, tuttavia di buon auspicio, la notizia che il 18 aprile all’Adlon Hotel di Berlino (proprio alla Porta di Brandeburgo) politici e tecnici dei maggiori Paesi industriali ad economia di mercato siano giunti ad un’intesa su quanto predisposto dall’Italia. E’ pure importante sapere che, per mutuare il titolo di un breve ma efficace studio predisposto, dal Ceps di Bruxelles e dall’Assonime italiana, le “nuove regole” saranno ispirate a semplicità e trasparenza.
L’”ultimo G8”, però, mancherebbe al compito di aprire il solco per il dopo-crisi se non affrontasse l’altro problema chiave: dal dopoguerra alla metà degli Anni 80. il mondo (ed in particolare i Paesi Ocse) hanno conosciuto una crescita senza precedenti (rispetto ai secoli passati) accompagnata da una riduzione delle disparità, mentre negli ultimi 20 anni (sino alla crisi in corso) la crescita è stata a macchia di leopardo, ma ovunque contrappuntata da un aumento delle differenze di reddito e di benessere. Il mercato è stato la locomotiva della crescita sino a quando i conducenti erano consapevoli di tenere la barra di una rotta che ne correggesse le imperfezioni e coniugasse crescita con equità. Tornerà ad esserlo se i conducenti del futuro riacquisteranno tale consapevolezza e terranno la barra dritta.

sabato 18 aprile 2009

LA CARTA VINCENTE DELL’ABRUZZO E’ IL SUO “CAPITALE SOCIALE”, Il Tempo 19 aprile

Che l’Abruzzo abbia la carta vincente per una ricostruzione efficiente ed efficace, lo dice a tutto tondo un lavoro analitico di Daniel Aldrich della Purdue University nel lontano Indiana (Stato degli Usa distante e distinto dalle nostre beghe). "Social, Not Physical, Infrastructure: The Critical Role of Civil Society in Disaster Recovery". Nei giorni delle feste di Pasqua, Aldrich ha inviato, per osservazioni, ai suoi amici e colleghi lo studio in cui passa in rassegna i programmi di ricostruzione dopo terremoti individuando in quello di Tokio nel 1923 il programma che ha avuto esiti migliori sia nel breve sia nel lungo periodo. Con un elaborato procedimento statistico, Aldrich individua nel “capitale sociale” (ossia nello spirito associativo e cooperativo che massimizza sinergie di ”capitale umano”) la determinante principale del successo e sottolinea “il ruolo di una società civile forte in aree di rilievo critico per le politiche pubbliche”.
Già un quarto di secolo fa, Robert Putman (Preside di Scienze Politiche a Harvard) aveva individuato (nel suo studio sul funzionamento delle istituzioni ,“Making Democracy Work”, Princeton University Press, 1993) l’Abruzzo come una delle due Regioni di quello che allora era il Mezzogiorno con il maggiore potenziale di “capitale sociale” (l’altra era la Puglia). Attenzione i dati di Putman raffrontano due periodi (il 1860-1920 ed il 1978-1985) per individuare quanto fosse radicato tale “capitale sociale”. Nell’ultimo quarto di secolo, la situazione è nettamente migliorata, come documentato nei Rapporti Annuali del Dipartimento per lo Sviluppo e la Coesione del Ministero dello Sviluppo Economico. Nel periodo 2000-2006 (per il quale esistono dati consuntivi e valutazioni condivise dall’Ue), la Regione Abruzzo ha costantemente meritato la “premialità” (ossia la dotazioni aggiuntiva di risorse comunitarie per “premiare” i comportamenti virtuosi ed i risultati nell’impiego di fondi europei. In tal modo è uscita dal gruppo delle Regioni chiamate, in gergo comunitario, “obiettivo 1” (ossia “in ritardo di sviluppo”).
Il “capitale sociale” non è,da solo, sufficiente ad assicurare il rilancio. Lo documenta analiticamente la più completa rassegna della letteratura economica in materia di disastri naturali: Economics of Natural Disasters: A Critical Review “ di Yasushide Okuyama . Nel lungo periodo il progresso tecnologico è il motore dello sviluppo; in un processo di ricostruzione, il progresso esogeno si intercala con quello endogeno (che ci sarebbe comunque stato) . Quindi, occorre porre l’accento sul supporto non solo all’infrastruttura ma anche all’innovazione adattiva (per “adattare” tecnologie più avanzate a quelle esistenti che si sarebbero comunque evolute). I tempi dipendono dai risparmi aggiuntivi che si riescono ad allocare ai programma di ricostruzione. L’Italia – è noto – ha un tasso di risparmio privato relativamente elevato; ciò è un buon auspicio.

“LA CITTA’ MORTA” RISVEGLIA PALERMO in Milano Finanza 18 aprile

“Die tode Stadt” (“La città morta”) di Erich Korngold è in scena al Teatro Massimo di Palermo. Scritta e composta quando l’autore aveva appena 23 anni è uno dei capolavori assoluti del teatro in musica del Novecento. Nell’ottobre del 1920 Giacomo Puccini ne ascoltò una versione per piano , rispondendo con invidia più che ammirazione; pare che, dopo l’ascolto, interruppe la composizione di “Turandot. Dopo questo lavoro, ed un altro grande successo. Korngold emigrò negli Usa dove diventò un celebre autore di musica da film, meritandosi ben due premi Oscar.
A Bruges (“La città morta”), il giovane vedovo, Paul, vive nella contemplazione della moglie deceduta, del suo ritratto, delle sue trecce. Al suo migliore amico (Franz), racconta di avere incontrato una donna identica alla morta; ne consegue una lunga visione tra sogno e realtà, fortemente erotica (da feticismo, a onanismo, a sesso di gruppo) sino allo snodo finale: Paul strangola, nel sogno, la ragazza con le trecce della moglie defunta, ed al risveglio lascia la città. Korngold avrebbe voluto intitolare il dramma in musica “Il trionfo della vita” ma venne mantenuto il riferimento a Bruges (città morta) poiché il lavoro era tratto da un romanzo di successo, già stata la fonte di un dramma pure esso ben apprezzato da pubblico e critica. Si respira – è chiaro- la psichiatria freudiana e l’atmosfera erotico-decadente (oltre che morbosa) di un mondo in disfacimento (sino al “liberatorio” finale).
L’allestimento in scena a Palermo è co-prodotto con “La Fenice” e altri teatri lo portino sulle loro scene. Di grande impatto, regia , scene e costumi di Pier Luigi Pizzi: con pochi elementi (un gioco di specchi) ci porta in una Bruges lacustre e spettrale. Il maestro concertatore, Will Humburg scava nella partitura mostrandone la modernità, la ricchezza ed il virtuosismo di una scrittura che dalle dissonanze più ardite si scivola naturalmente in canzoni facilmente orecchiabili. Arduo il ruolo del tenore: John Treleaven (Paul) non ha aggirato nessuno dei trabocchetti meritandosi applausi a scena aperta. Nicole Beller Carbone (Mariette) è un soprano di temperamento con la tinta del mezzosoprano. Buono Christopher Roberston (Franz) e Franco Pomponi (Fritz). Mentre Nicole Beller Carbone ha una sensualità felina, nè Treleaven né Roberston hanno la prestanza che ci si aspetterebbe da due giovani uomini. Non manca le “physique du rôle” a Pomponi, specialmente nell’amplesso con Mariette e sesso di gruppo nel secondo quadro.
Nuovo per Palermo, il lavoro è stato applauditissimo alla prima il 16 aprile.

LE PRIVATIZZAZIONI NEL 2008: LA CRISI E GLI SPIRAGLI in Settimo Rapporto sul processo di liberalizzazione della società italiana

Premessa Il 2008 è stato caratterizzato dal proseguire della crisi finanziaria ed economica esplosa nell’estate 2007. La crisi ha frenato, in tutto il mondo, i processi di privatizzazione in corso ed in numerosi Paesi (Usa e Gran Bretagna, in primo luogo) ha riportato la partecipazione dell’intervento pubblico al capitale d’intermediari finanziari, nonché l’estensione di aiuti di Stato a grandi imprese private di settori in difficoltà. Lo confermano, tra gli altri, il sito www.privatization.org, il rapporto annuale sulle privatizzazioni della Reason Foundation (Reason Foundation, 2008), e il periodico “Privatization Watch”. Non sono venuti a mancare solamente i flussi finanziari (specialmente il “private equity”) necessari a sostenere una strategia di privatizzazioni, ma è anche sorto il dubbio che, nonostante i benefici sotto il profilo e della crescita e dell’equità distributiva (analizzati nel “Rapporto” dell’anno scorso, Società Libera, 2008), tra le determinanti di fondo della crisi non ci fossero solamente o principalmente sistemi laschi di regolazione e di vigilanza dei mercati finanziari (e nazionali ed internazionale) ma anche nodi fondamentali nel funzionamento dell’economia capitalistica .
Nell’ultimo numero del 2008 della rivista della Columbia University “Capitalism and Society”, Edmund Phelps si chiede se alle radici del fenomeno dello scollamento tra finanza (alla ricerca d’utili sostenuti tramite un’ingegneria finanziaria sempre più complicata e sempre meno trasparente) ed economia reale non ci sia la scarsa integrazione tra micro e macro economia e la capacità stessa della professione di comprendere il funzionamento delle imprese (Phelps, 2008). Marx, Schumpeter e Keynes (Marx, 1976; Schumpeter; 2001, Keynes, 2006) avevano ragione, oppure torto,quando preconizzavano una riduzione del tasso di profitto e un sempre più pregnante intervento pubblico per sostenere l’economia? Per Marx e Schumpeter il passaggio al socialismo non sarebbe stato motivato da esigenze di giustizia sociale ma dall’incapacità del capitalismo di fornire un saggio di profitto adeguato a sostenere risparmi e, quindi, investimenti. Per Keynes, gli “animal spirits” – l’espressione è sua non d’Adam Smith- avevano la necessità di un certo grado di “socializzazione dell’investimento” (per mantenere un saggio di profitto privato tale da consentire il processo d’accumulazione. Con il termine “socializzazione dell’investimento”, Keynes non intendeva che il pubblico dovesse sostituirsi al privato ma una chiara ripartizione di compiti in modo che il primo potesse supportare il secondo.
All’inizio degli Anni 80, su incarico del Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica, Maurizio Tenenbaum dell’Università La Sapienza di Roma ha condotto un’analisi della produttività marginale dell’investimento, pubblicata in un libro curato da Fabio Nuti (Muti, 1987). Il saggio esaminava l’investimento pubblico nel periodo 1950-80 con un metodo aggregato volto a quantizzare, ex post, le caratteristiche della funzione di produzione in Italia. Secondo lo studio, la spesa in conto capitale aveva una produttività-marginale dell’8-12% - parametro utilizzato per circa tre lustri come riferimento nella valutazione di piani e progetti a concorrere su finanziamenti pubblici. Il periodo analizzato da Tenenbaum copre in larga misura gli anni del “miracolo economico” (1945-1968) quando, secondo le analisi di Charles Kindleberger e Ferenc Janossy (Kindleberger,1993; Janossy 1973) l’investimento aveva rendimenti particolarmente elevati poiché attivava l’utilizzazione di capitale umano potenzialmente molto ben addestrato e molto produttivo, ma costretto ad una relativa improduttività dal 1936 alla fine della seconda guerra mondiale.
Al termine degli Anni 80, seguendo un metodo differente da quello di Tenenbaum , arrivai, con l’economista finlandese Ernst Kula, a stimare un tasso di riferimento del 2,5-4,% (Kula, 1988; Pennisi, 1989) . Di recente, il servizio studi della Banca centrale europea (Alfonso, St Aubin, 2008) ha completato un’analisi che riguarda il periodo 1960-2005 – sui suoi esiti il “miracolo economico” conta relativamente poco. In secondo luogo, è un’analisi comparata che include 14 Paesi dell’Ue, il Canada, Giappone e Stati Uniti. In terzo luogo, utilizzando una metodologia VAR ; ha un contenuto informativo aggiornato e più utile di quelli condotti in passato. Infine, anche nei tassi di rendimenti medi (tanto “parziali”, del solo investimento pubblico, quanto “totali”, computando anche l’investimento privato attivato dalla mano pubblica). In Italia, Finlandia, Giappone e Svezia, i tassi di rendimento “parziali” dell’investimento pubblico risultano negativi. In materia di tassi di rendimento “totali”; il tasso dei rendimenti privati diventa più basso se associato al pubblico generalmente in tutti i Paesi (la sola eccezione è la Francia) e diventa addirittura negativo in Austria, Finlandia, Grecia, Portogallo e Svezia. Questa seconda conclusione solleva, ancora una volta, l’interrogativo di dove sta andando il tasso di profitto e se la sua contrazione non è un fenomeno di lungo periodo da contrastare con misure differenti da principalmente quelle macro-economiche e monetaria attuate, nei maggiori Paesi Ocse, nel 2008.
Ciò non implica necessariamente la desiderabilità od opportunità di un rallentamento nel processo di privatizzazioni ma, in linea con l’interpretazione dell’ipotesi keynesiana sulla necessità di un grado di “socializzazione dell’investimento”, una più chiara ripartizione tra investimento pubblico ed investimento privato (Godley, Papadimitriou, Zezza, 2008).
Un’analisi recente dell’Istituto Bruno Leoni (Istituto Bruno Leoni, IBL 2008) indica che, prendendo come parametro lo Standard&Poor MIB – un paniere pesato delle 40 SpA più rappresentative della nostra economia - il 39% circa dell’indice è costituito da SpA a forte azionariato o dello Stato o di Enti locali: Non solamente questa è una presenza della mano pubblica molto alta in comparti di mercato (poiché realizzati e gestiti da SpA quotate) ma comporta, secondo l’IBL, “gravosi impegni” afferenti ad una “fitta rete di partecipazioni” in una vasta gamma di settori economici, in gran misura direttamente di mercato. Una strategia di privatizzazioni, dunque, deve mirare ad una migliore ripartizione di compiti tra pubblico e privato.Nel nostro Paese, la crisi finanziaria ha morso meno che altrove (in buona misura, a ragione della relativa arretratezza del sistema bancario e finanziario e della più cogente regolazione vigilanza sugli intermediari che altrove), ma il rallentamento economico si annuncia lungo e pesante ed i margini di manovra di finanza pubblica sono molto limitati .
In questo quadro, questo capitolo esamina i pochi spiragli per la politica di privatizzazioni che si sono colti in Italia nel 2008. Gli spiragli sono stati pochi. In analogia con il Rapporto dello scorso anno (Società Libera, 2008), il capitolo analizza tre aspetti: il completamento della privatizzazione di Alitalia, i tentativi di privatizzazione dei servizi pubblici locali e alcune privatizzazioni relativamente modeste per dimensioni ma interessanti come spiragli di una strategia (quelle di Cinecittà Studios e di Tirrenia). L’economia del capitolo pone enfasi sul completamento della privatizzazione di Alitalia; ciò è giustificato sia per l’importanza strategica e le dimensioni dell’operazione sia per le lezioni che se ne possono trarre per altre operazioni.

La sofferta privatizzazione di Alitalia Le due precedenti edizioni del “Rapporto” hanno riassunto la complessa vicenda della privatizzazione di Alitalia nel 2006 e nel 2007 (Società Libera, 2007; 2008). Il “Rapporto 2008” terminava sull’allora prevedibile ipotesi di un accordo tra Alitalia ed AirFranceKml e metteva in risalto come, a conclusione di un processo per nulla lineare (Bang, 2007), tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008, ci fossero due aspetti di rilievo: a) se, una volta concluso il negoziato aziendale, fosse necessario il nulla osta di un Governo nel pieno dei suoi poteri ; b) il futuro dello scalo di Malpensa , un aeroporto nato con grandi aspettative ma che ha sempre lasciato a desiderare (Boeri, Boitani, 2007). Nell’ambito di questo “Rapporto” non si vogliono ricostruire le cronache del processo di privatizzazione nel 2008. Tali cronache sono commentate altrove .
Nelle prime settimane d’aprile 2008, il CdA e l’azionista di maggioranza dell’Alitalia iniziano una trattativa in esclusiva con AirFrance-Klm. Ricorsi giudiziari danno esito negativo. La proposta “definitiva e vincolante” di AirFrance-Klm è stata ben inferiore a quanto atteso sulla base dell’offerta preliminare di tre mesi prima: l’offerta finale valutava il 100% delle azioni di Alitalia- Linee Aeree SpA a circa 140 milioni di euro, accettava di comprare i bond convertibili per circa 610 milioni di euro e prevedeva una ricapitalizzazione per un miliardo di euro. Sarebbero risultati in “esubero” oltre un quarto dei dipendenti della capogruppo e delle SpA “in-house” ad essa facenti capo. Mentre CdA e azionista di maggioranza sostenevano, libri alla mano, che o si sarebbero celebrate le nozze tra Alitalia e AirFranceKlm oppure Alitalia avrebbe dovuto fare ricorso ad una procedura fallimentare, i sindacati (senza il cui assenso AirFrance-Klm non avrebbe azzardato un accordo), prima protestano, poi presentano un contro-piano e, al rigetto sdegnato della controparte, si dividono in vari gruppi in rissa tra loro. Il leader dell’opposizione invoca altri possibili interessati a farsi avanti. Una società di consulenza di Milano si mette al lavoro per individuare un’alternativa a AirFrance-Klm. Presumibilmente, si pensava, ci vuole un partner industriale straniero (ma il più probabile, Lufthansa, aveva fatto sapere che non intendeva avere a che fare con uno dei potenziali partner italiani). In ogni caso, a metà aprile, tre elementi apparivano assodati: a) la necessità di tempi tecnici per studiare la documentazione e preparare una propria proposta (e dubbi giuridici sulla possibilità di aprire una nuova trattativa ove, preliminarmente, quella con AirFrance-Klm non fosse formalmente chiusa); b) una situazione posizionale ed informativa di AirFrance-Klm molto più solida di quella dei settori del sindacato che si opponevano all’accordo e di altri potenziali partner stranieri; b) la crescenti difficoltà di liquidità d’Alitalia, aggravate dal forte calo delle prenotazioni a ragione dell’incertezza sul futuro dell’azienda. Il Governo Prodi approvava, in uno degli ultimi CdM prima delle elezioni, un “prestito-ponte” a condizioni di mercato ed il Governo Berlusconi, appena insediato, poneva “la questione Alitalia” (ossia della privatizzazione della compagnia) tra le priorità.
Il “prestito ponte” era approvato speditamente e dal Parlamento e dalle autorità europee. Il 28 giugno all’assemblea della SpA veniva presentata una relazione sconfortante : il bilancio consuntivo al 31 dicembre 2007 mostrava una crescita di 15 punti percentuali dell’indebitamento con un’esposizione sempre più acuta nei confronti dei fornitori e delle banche (Alitalia, 2008). Contemporaneamente, giungevano sulla stampa internazionale (ed italiana) analisi scoraggianti in materia degli effetti della crisi finanziaria ed economica mondiale sul trasporto aereo mondiale: una flessione del 12% prevista per il 2008 rispetto ai livelli del 2007 e, quindi, un accentuarsi del consolidamento – in Europa in gran misura già completato dal raggruppamento del trasporto aereo in tre poli (AirFrance-Klm, Lufthansa, British Airways), ciascuno in fase di complemento d’alleanze o d’acquisizioni, contornato di una rosa di compagnie “low cost” (Pavaux, 2008). In questo quadro, Il CdA di Alitalia e l’amministratore delegato rassegnavano le dimissioni. Ai primi di luglio, la svolta: l’annuncio di una “New Co” in formazione (avrebbe preso il nome di Cai – Compagnia aerea italiana) dove concentrare le attività dell’ex- compagnia di bandiera con potenziale di risanamento e di sviluppo e della liquidazione delle altre attività dell’ Alitalia- Linee Aeree SpA.
A fine agosto viene presentata la soluzione proposta dal Governo per sciogliere nodi ormai decennali (Consiglio dei Ministri, 2008). Le caratteristiche essenziali dell’operazione sono la privatizzazione delle parti potenzialmente redditizie di quella che fu la compagnia di bandiera tramite la cessione della partecipazione maggioritaria dello Stato ad una ventina d’imprese italiane, la soluzione dei problemi finanziari ed industriali di AirOne (la cui flotta, i cui slots ed il cui personale vengono ceduti alla nuova compagnia), una serie di garanzie per gli investitori (sia le imprese coinvolte nella nuova intrapresa, sia i detentori dei bonds convertibili, sia i piccoli azionisti), ammortizzatori sociali per i lavoratori in esubero (allora stimati in 7000), la creazione di una “bad company” da commissariare per liquidare le attività in perdita strutturale). L’operazione richiede modifiche sia della normativa sul commissariamento delle aziende in crisi sia deroghe alle leggi anti-trust.
Il nuovo Esecutivo si trovava ad un bivio: o una soluzione (per quanto complessa) come l’attuale (e le sue possibili varianti) o il fallimento di Alitalia. La seconda avrebbe rappresentato la perdita di almeno 20.000 posti di lavoro ed avrebbe comportato un percorso ancora più difficile per individuare investitori (italiani e stranieri) e forse trascinato con sé anche AirOne e Meridiana.
Tra i tanti metodi per analizzare la soluzione scelta, il più semplice è quello dell’analisi costi-benefici. Non avendo a disposizione dati sui flussi di cassa delle varie alternative progettuali non si può fare che un’analisi qualitativa. Non esiste un’unica tipologia d’analisi costi benefici ma almeno tre (cambiano obiettivi dell’analisi, voci contabili, valori) (Pennisi, Scandizzo, 2003). In primo luogo, l’analisi costi-benefici “politica” esamina il problema dal punto dei politici ed utilizza come unità di misura i voti. E’ indubbio che la soluzione prescelta comporti benefici cospicui alla maggioranza che può affermare di avere trovato un modo per superare il vicolo cieco, di avere promosso tanto la privatizzazione (pure se in condizione di monopolio tecnico) quanto l’italianità della compagnia, di avere già individuato un partner industriale internazione e di avere minimizzato gli esuberi complessivi. Unica critica seria quella di Andrea Boitani e Carlo Scarpa (Boitani-Scarpa, 2008); in essa si enfatizzano, correttamente, i rischi che si socializzino i costi e si privatizzino i benefici, nonché quelli della posizione dominante sulla tratta Roma-Milano sino al pieno funzionamento dell’alta velocità ferroviaria.
In secondo luogo, ai rilievi di Boitani e Scarpa (analoghi a quelli formulati il da Francesco Gavazzi- Giavazzi 2008) può dare una risposta l’analisi costi-benefici finanziaria. In tale analisi, le voci contabili sono quelle della normativa in vigore per la finanza aziendale ed i valori sono i prezzi di mercato. I soggetti sono , in forma stilizzata: a) le imprese che investono nella nuova compagnia; b) i creditori delle ex-Alitalia ed AirOne; c) i lavoratori che resteranno nella nuova compagnia e quelli che verranno dichiarati in esubero ; d) i contribuenti ed, infine, e) l’Ue. A prima vista, e nelle dichiarazioni ufficiali, ci guadagnerebbero tutti. Ciascuno, però, ha obiettivi e libri contabili differenti. I ricavi di ciascuno possono rappresentare perdite per qualcuno degli altri. Il costo reputazionale è in ballo soprattutto per l’Ue e le sue regole in materia d’aiuti di stato e d’antitrust. I costi finanziari in palio sono in capo (come sempre) ai contribuenti. Le imprese investitrici sanno che non vedranno un utile per tre-cinque anni. Salvaguardie sono previste per i piccoli azionisti e detentori d’obbligazioni. Per i lavoratori è prevista cassa integrazione straordinaria e mobilità lunga per accompagnare molti di loro fino alla pensione. Parte saranno finanziate con fondi già in essere nel bilancio dello Stato (ma destinati ad altri scopi). Una proporzione non indifferente finirà a carico dei contribuenti. A questo nodo si riferiscono Boitani, Giavazzi e Scarpa quando parlano della “socializzazione delle perdite”. E’ un “rischio calcolato” nella consapevolezza che l’alternativa (il fallimento) sarebbe stata più onerosa per tutti. Un’analisi costi benefici estesa alle “opzioni reali” (ossia ai “titoli” dei vari soggetti, alle loro “facoltà”, non “obbligo”, di decidere in un modo o nell’altro) e l’utilizzazione di strumenti come le “simulazioni di Montecarlo” per la valutazione del rischio potrebbero permettere una comprensione migliore di questo aspetto (Pennisi, Scandizzo, 2003). Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha la strumentazione per effettuare tale analisi (Bezzi, 2005) ma inviti in questo senso, non hanno avuto esito (Pennisi, 2008).
Ed il vulnus reputazionale per l’Ue? La valutazione compete agli organi dell’Unione- in primo luogo alla Commissione Europea. Non sono mancati casi, anche recenti, in cui l’Ue ha consentito deroghe più o implicite (in megafusioni francesi e nello stesso accordo che ha dato vita a AirFrance-Klm). La Commissione Europea ha valutato con ponderazione questi rischi ed approvato l’operazione.
Più complessa, l’analisi dei costi e dei benefici economici e sociali. Entrano in ballo gli obiettivi (di crescita e di distribuzione del reddito) dell’Italia in quanto collettività di uomini, donne, famiglie, imprese, Stato. Si deve dare un valore a voci come la capacità tecnologica, alla maggiore ed alla minore autonomia nei cieli, all’internazionalizzazione, all’occupazione produttiva, alla coesione sociale. Non è impossibile effettuare tale analisi; ci sono le professionalità, ma richiede tempo e risorse finanziarie. A prima vista sembra che le somme (quanto tirate) possono essere positive.
• Da settembre, è iniziata una lunga e complessa trattativa con i sindacati, con interventi del Governo per mediare. A fine 2008, si è giunti ad un accordo. La Cai, che nel frattempo riprendeva il nome ed il logo di Alitalia, era pronta al decollo, in programma il 13 gennaio. Sono stati contrappuntati dalle resistenze corporative di categorie che hanno sempre visto come la funzione di Alitalia non fosse il trasporto aereo ma la tutela di diritti (e privilegi) dei propri dipendenti. Ciò ha fatto perdere punti alla compagnia in una fase in cui la crisi ha reso la concorrenza più agguerrita. Nei primi 11 mesi del 2008, il traffico aereo europeo ha subito una flessione complessiva dell’1% (ma ben del 9% se si raffronta il novembre dell’anno che sta per terminare con il novembre 2007). Molte compagnie hanno perso quote del mercato mondiale: quella dell’Alitalia ha subito un tracollo del 47,5% : dal 6,4% nel novembre 2007 al 3,4% nel novembre 2008- mentre Lufthansa, AirFrance-Klm, e British Airways ne hanno guadagnate rispettivamente del 4,5%, dell’1,2% e dell’1,5%. La nuova compagnia parte indebolita .

Le informazioni sulle rotte in vigore dal 13 gennaio, mostrano un triangolo: Roma, Milano, Catania. Le sei “basi regionali” hanno una valenza amministrativa e tecnica, ma, sotto il profilo della strategia a lungo termine, i punti-chiave sono tre: Roma, Milano e Catania. Tutti gli altri scali perdono qualcosa mentre Roma, Milano e Catania qualcosa guadagnano. Fiumicino diventa il vero hub per rotte internazionali ed intercontinentali. Catania mantiene tutte le 138 frequenze settimanali del vecchio piano operativo (a spese di Palermo, Bari, Palermo e Lamezia) e diventa il ponte verso il Medio Oriente, l’Africa ed anche l’Estremo Oriente (per percorsi differenti da quello polare). Milano perde sull’intercontinentale a Malpensa ma Linate mantiene una posizione strategica ed, anzi, l’accresce. Da quando è stato progettato l’aeroporto nei pressi di Busto Arsizio, gli amministratori della Lombardia (e la stessa società civile) non hanno accettato la conseguenza logica: ridimensionare Linate destinando lo scalo ai voli su e da Roma ed al “low cost”. Hanno, invece, tentato di alzarlo di categoria: farlo diventare un “Milan City Airport”, analogo al National Airport sulle rive del Potomac ad un quarto d’ora di taxi dalla Casa Bianca e dal Campidoglio di Washington. Il vero scontro, si badi bene, non è mai stato tanto tra Malpensa e Fiumicino quanto tra il partito favorevole allo scalo nel varesino e quello della promozione di Linate ad un rango più elevato nella famiglia degli aeroporti. Le tensioni tra i sostenitori di Malpensa (allora allo stadio di progetto) e quelli del “Milan City Airport”, hanno messo in fuga gli olandesi di Klm – pronti a pagare una penale ad Alitalia ed a gettarsi nelle braccia di AirFrance . Dopo la creazione della Lufthansa Italia (nell’autunno 2008) con collegamenti tra Malpensa a numerose città europee e, quindi, all’intercontinentale, è chiaro che il partito del “Milan City Airport” ha avuto (per ora) il sopravvento e che la nuova Alitalia guarda altrove. Pur se non si possono escludere cambiamenti , anche drastici, di strategia.
La geografia delle rotte e l’accordo concluso con AirFrance-Klm il 9 gennaio 2009 mostrano che Fiumicino diventerebbe una punta più importante delle altre due punte italiane: le altre due sono Charles de Gaulle a Roissy (nei pressi di Parigi) e Schiphol (alle porte d’Amsterdam). AirFranceKlm ha il 25% delle azioni della nuova azienda, diventando in pratica l’azionista di riferimento, con tre componenti del CdA (e due nel comitato esecutivo). Non si sa che alcuni soci italiani stanno negoziando un patto parasociale con AirFranceKlm per dare un “nocciolo duro” all’impresa o se invece si stanno coalizzando tra di loro (sempre tramite un patto parasociale) per mantenere una maggioranza italiana o comunque un contrappeso ai franco-olandesi.
Ciò vuol dire che si torna alla situazione dei primi mesi del 2008 quando AirFrance-Klm stava per acquisire Alitalia? Oppure che AirFrance-Klm acquisisce il controllo della compagnia nel gennaio 2009 ad un costo inferiore a quello che era disposta a pagare nell’aprile 2008? E’ difficile valutarlo.

Una chiosa finale. Quella di Alitalia è senza alcun dubbio una “delayed privatization”, “una privatizzazione ritardata”, che si sarebbe dovuta portare a termine almeno tre lustri prima della sua conclusione. Un’analisi del servizio studi della Banca d’Italia passa in rassegna le denazionalizzazioni in 21 Paesi ad alto reddito medio di grandi dimensioni nel periodo 1977-2002: la frammentazione politica ostacola le decisioni relative alle privatizzazioni, specialmente quando si hanno Governi di coalizioni , composti da numerosi partiti, e sistemi elettorali proporzionali. La vicenda Alitalia conferma questo risultato; per renderla possibile, la SpA doveva essere boccheggiante ed il sistema politico semplificato. Ciò è molto più pertinente, al fine delle altre privatizzazioni da realizzare in Italia, che vagheggiare scenari controfattuali su cosa sarebbe potuto avvenire se ….. Un campo in cui gli economisti non solo particolarmente ferrati.

La saga dei servizi pubblici locali Nei due “Rapporti” precedenti di Società Libera (Società Libera, 2008 e 2007) è stato esaminato lo sviluppo di un vero e proprio “capitalismo municipale” (Bianco e Sestito, 2007) ed i tentativi effettuati dal Governo in carica nel 2006-2007 per giungerne ad una privatizzazione, almeno parziale. Tali tentativi, non sono andati in porto, principalmente a ragione della forte opposizione sia a livello locale – ossia dai titolari del “capitalismo municipale” – sia di settori della stessa coalizione di maggioranza. Anzi, sono sorte nuove “utility” plurifunzionali e di grandi dimensioni, come A2A, di cui vari Comuni hanno la maggioranza azionaria.

La privatizzazione dei servizi pubblici locali era presente nei programmi elettorali con i quali l’attuale maggioranza si è presentata al corpo elettorale. Rientrava nelle “sette missioni” del Governo ma non con la priorità anche temporale d’altri aspetti del programma. Occorre rilevare che ciò corrispondeva, in linea di massima, agli umori della società civile quali rilevati dal barometro di uno dei più noti centri d’analisi sociologica (Censis, 2008) Era, in ogni caso, una riforma da essere realizzata successivamente al varo del federalismo, se non altro perché di competenza di enti (principalmente i Comuni) già dotati di un vasto grado di autonomia, destinato a crescere ulteriormente nell’ambito del progettato nuovo assetto federale dell’Italia.

Ciò nonostante, quasi di soppiatto (tramite un emendamento al disegno di legge di conversione del decreto sulle misure urgenti per l’economia varato poche settimane dopo l’insediamento del nuovo Esecutivo) è stata realizzata quella che alcuni organi di stampa hanno chiamato “una privatizzazione silenziosa” . In effetti, anche se la norma definitivamente approvata (art. 23 bis della Legge 133/2008) non contiene nessuna privatizzazione specifica, essa fornisce un grimaldello (ed un percorso) per privatizzare i servizi pubblici locali. Contiene l’indicazione di una scelta in favore della modalità di selezione del gestore del servizio a seguito dell’espletamento di “procedure competitive ad evidenza pubblica”. In deroga a tale modalità ordinaria di affidamento di servizi pubblici, in relazione a fattispecie che, “a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato”, “l'affidamento può avvenire nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria”. Le espressioni sono piuttosto generiche. Ciò non rende agevole ricondurre la fattispecie della SpA mista pubblico-privata nell'ambito della modalità ordinaria o eccezionale di affidamento. Tuttavia, anche alla luce di prime indicazioni (ad esempio, la comunicazione del 16 ottobre 2008 dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato), si lascia preferire l'interpretazione che tende a ricondurre SpA mista nell'ambito di “procedure competitive ad evidenza pubblica”, sempre che la scelta del socio privato sia fatta in ragione del servizio oggetto d’affidamento, secondo il modello della cosiddetta gara "a doppio oggetto" Tra le modalità eccezionali rientra, invece, l'affidamento a società "in house". E’ senza dubbio auspicabile un chiarimento - ad esempio una legge interpretativa -, per rendere univoca l'interpretazione.

Per entrare nella sostanza del problema occorre chiedersi se ci sono le condizioni economiche e sociali per utilizzare il grimaldello. Gli ostacoli alla privatizzazione dei servizi pubblici locali riposano in gran misura sull’argomento che la privatizzazione rischia di rendere tali servizi (specialmente quelli scarsi come l’acqua) poco accessibili alle fasce più basse di reddito e di consumi. Un’analisi di varie università Usa, basata principalmente sulle privatizzazioni di servizi pubblici locali in America Latina, afferma che questa “credenza” è “propaganda lontana dalla realtà (Di Tella, Galiani, Schargrodsky, 2008). Due analisi puntuali relative specificatamente all’Italia (Miniaci, Scarpa, Valbonesi, a) e b), 2008) esaminano la spesa delle famiglie nel 1998-2002 sulla base dell’Indagine Istat sui Consumi delle Famiglie; concludono che le riforme già introdotte nel settore dei servizi di pubblica utilità (specialmente in materia di acqua e di energia), e delle tariffe ad essi attinenti, non hanno gravato sui ceti deboli.

Non solamente il percorso sarà verosimilmente lungo ma resta il dilemma se è prioritario privatizzare o liberalizzare. Una privatizzazione senza liberalizzazione consente ai nuovi titolari dell’impresa di servizio pubblico di catturare rendite di posizione. In molti casi, la liberalizzazione non solo deve precedere ma è un’efficace alternativa alla privatizzazione (Shaij, 2008). Questa scuola di pensiero ha una propria base analitica esperienza, e nell’esperienza Ocse (di recente rivisitata in uno studio della Banca d’Italia- Barone, Cingano, 2008) ed in quella dell’Ue nonché in valutazioni effettuate da singoli Paesi ed in una rassegna recente commissionata dalla Verlag Bertelsmann Stiftung (Frick, Ernst 2008; National Normenkontrollat, 2008). Per la politica economica, dunque, la liberalizzazione deve avere la priorità (almeno in termini di scansione temporale).


Altre privatizzazioni Tra le altre privatizzazioni del 2008, senza avere la pretesa di fare una rassegna esaustiva, significative quelle di Cinecittà Studios SpA e della Tirrenia. Cinecittà Studios ha un capitale sociale è 35 milione di euro. La procedura è stata iniziata dalla capogruppo, Cinecittà Holding, una SpA a intero capitale pubblico che controlla, oltre agli studi, anche altri aspetti della cinematografia, con una richiesta di manifestazione d’interesse per pacchetti d’azioni dell’impresa. La denazionalizzazione è parte di un progetto più ampio con la creazione di un Centro Nazionale per la Cinematografia dove concentrare le attività a carattere non commerciale (cineteca nazionale, centro sperimentale) del settore (Mele, 2008). Lo Stato si disimpegnerebbe da quelle chiaramente industriali e commerciali, pure da quella Cinecittà il cui nome è un’icona per la storia dell’arte cinematografica non solo in Italia ma nel mondo. Ora Cinecittà, o più precisamente i suoi studi cinematografici, dovranno competere sul mercato internazionale. Potranno fruire come unico incentivo di sgravi tributari approvati con la legge finanziaria 2008 ed assolutamente in linea con la normativa europea. Molti imprenditori del campo sono pronti a rispondere positivamente all’invito ed a manifestare il proprio interesse; si parla, tra i potenziali concorrenti, dei Gruppi Abete e Della Valle, Aurelio De Laurentis e Haggiag.
Non è questa la sede per entrare negli aspetti tecnici. Sono importanti le dimensioni di politica economica, tenendo presente il vecchio detto in cui si comprende meglio un bosco studiandone un albero che ammirandone una foto digitale presa da un elicottero. La privatizzazione di Cinecittà Studios in una fase di grave crisi internazionale vuol dire che la politica economica italiana riesce a tenere la barra ritta: evitare di trasgredire le regole europee ma portare avanti il programma di liberalizzazionii. E’ anche prova di vitalità dell’industria della creatività (di cui il cinema è un comparto importante), spesso data per morta e seppellita oppure con le mani tese alla ricerca dell’obolo dei contribuenti.
Altra privatizzazione di cui parlano unicamente gli “addetti ai lavori” e la loro stampa specializzata è quella della Tirrenia (de Fourcade, 2008). E’ un altro caso di “delayed privatization” (Bortolotti, Pinotti 2008) al pari di quello dell’Alitalia. E’ strategicamente importante che, proprio mentre infuria la crisi dei mercati, il Governo abbia ripreso in mano un “dossier” (che sembrava destinato a raccogliere centimetri di polvere), e che la Fintecna, la holding a cui Tirrenia fa capo, abbia avviato la gara per la scelta dell’advisor.

Conclusioni A livello internazionale, il gran rientro in scena delle società a partecipazione statale, anticipato nei precedenti “Rapporti” (Società Libera, 2007 e 2008), si è rafforzato nel periodo preso in esame. Non è possibile affermare se si tratta di un fenomeno temporaneo, connesso ad una crisi finanziaria ed ad una recessione tali di esaurirsi nell’arco di pochi anni, oppure di una tendenza a più lungo termine determinata dal declino del tasso di profitto e dall’esigenza di un intervento pubblico pregnante (e di una più chiara ripartizione tra questi ed il privato). L’Italia sta subendo, come il resto del mondo, degli effetti della crisi, ma è riuscita a trovare alcuni spiragli che hanno portato alla sofferta privatizzazione di Alitalia, alla normazione di una procedura per la privatizzazione (almeno parziale) dei servizi pubblici locali e per l’avvio di alcune privatizzazioni strategiche.
Resta ancora da fare. E’ difficile, però, pensare che nell’attuale situazione dei mercati internazionali, si possa progettare la privatizzazione di Eni, Enel, Poste, Finmeccanica, Ferrovie , sempre che non si consideri tale l’eventuale cessione di quote azionarie dallo Stato italiani a Stati dell’Estremo e del Medio Oriente tramite “fondi sovrani” (Chahaochharia V., Laeven L, 2008).
Un campo sul quale l’attenzione, a livello nazionale, è relativamente poca è quello delle dismissioni del patrimonio immobiliare dei Comuni; nonostante la semplificazione dell’iter, a fine 2008 le alienazioni erano in netto calo rispetto a 12 mesi prima. Ci sono ragioni giuridiche: un complicato contenzioso tra Comuni e alcune Regioni (e l’attesa che sia risolto dalla Corte Costituzionale). C’è anche la ricerca di nuove modalità di gestione da parte dell’azionista pubblica). C’è il calo di potere d’acquisto delle famiglie, sia effettivo sia temuto per il protrarsi ed aggravarsi della crisi finanziaria ed economica e la possibilità perdite di occupazione e, quindi, di reddito. L’evoluzione nel 2009 verrà seguita con attenzione nel prossimo “Rapporto”.


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* Professore emerito alla Scuola superiore della pubblica amministrazione, professore all’Università Europea di Roma ed all’Università di Malta

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