martedì 24 febbraio 2009

SPORTELLI DI STATO, SI MA A TRE CONDIZIONI, Libero del 24 febbraio

SPORTELLI DI STATO, SI MA A TRE CONDIZIONI


I “vertici” non finiscono mai; si susseguono al ritmo di uno la settimana, dando l’impressione che i “grandi” siano un rissoso condominio alle prese con i lavori di manutenzione straordinaria dell’immobile. La metafora ha un fondo di verità: i vari “Gqualcosa” sanno che l’economia e la finanza mondiale sono in gravi difficoltà e che – eloquenti le stime del 20 febbraio da parte dei 20 maggiori istituti econometrici privati internazionali (neanche uno è italiano) – ci resteranno a lungo. Ma l’eccesso di vertici e supervertici, ormai relegati nelle pagine interne dei quotidiani ed in coda ai notiziari televisivi, danno al pubblico “at large” l’impressione che si sia alle prese con un gruppo di malcapitati che non sanno dove andare a parare.
Tanto più che di tanto in tanto escono, dalle loro concitate riunioni, informazioni curiose: come quella della possibile nazionalizzazione “en masse” delle banche. Chiunque abbia seguito anche un corso per principianti di teoria economica dell’informazione e dell’informazione sa che in questo modo si terrorizzano individui, famiglie ed imprese. Martin Weitzman e William Nordhaus – ossia due che se ne intendono – hanno formulato, a riguardo, il “dismal theorem” (ossia il “teorema della tristezza”) – chi ne vuole una sintesi legga il Cowles Foundation Discussion Paper N. 1686, disponibile gratis on line - in base al quali si diventa eccessivamente prudenti di fronte ad eventi che hanno poche probabilità di realizzarsi ma che, se si verificano, hanno conseguenze vastissime (per i portafogli di molti).
Gli sherpa dei “grandi” – a cui Paolo Savona ha dedicato un bel manualetto (“Il governo dell’economia mondiale- Dalle politiche nazionali alla geopolitica: un manuale per il G8” Marsilio, Formiche 2009)- dovrebbero, ogni mattina, con le loro preci, rileggere i lavori di Weitzman e Nordhaus per contenere il proliferare di “news” che, anche se ispirate alle migliori intenzioni, creano danni. Dato che nel ricco e variopinto convoglio di accompagnatori dei “grandi” tra maggiordomi, cuochi e barracuda-esperti ci sono anche economisti, questi ultimi dovrebbero portare all’attenzione dei loro “superiori” un lavoro appena prodotto dal Fondo monetario (e di cui nessuno pare essersi accorto): il Working Paper N. 08/224 (lo danno gratis a chi lo richiede) “Sistemic Banking Crises: a New Database”. E’ uno studio che copre il periodo 1970-2007 e fornisce dati dettagliati relativi a 42 episodi di crisi bancarie di vaste proporzioni (e dei loro nessi con crisi valutarie e crisi del debito estero).E’ l’analisi più completa al giorno d’oggi; non tratta il 2008, ma per gli ultimi 12 mesi siamo alla cronaca non all’analisi statistica ed economica. Il vostro “choniqueur” ne ricava la netta impressione che le nazionalizzazioni delle banche (quando non chieste per ragioni puramente politiche – ad esempio dalla sinistra nel primo Governo Mitterand, all’inizio degli Anni 80)- hanno funzionato solamente quando si sono verificate queste tre condizioni: a) operazioni rigorosamente “a termine”; b) in Paesi ad alto tasso di risparmio; c) in Paesi con una pubblica amministrazione all’avanguardia, molto efficiente e ben formata in economia e finanza. Sono le condizioni delle “nazionalizzazioni temporanee” realizzate in Svezia e Giappone per smaltire “insolvenze” accumulatesi a cavallo tra la fine degli Anni 80 e l’inizio degli Anni 90. Tali condizioni non esistono in gran parte dei Paesi Ocse, men che meno in Italia, dove , per mutuare il titolo da un libro della Banca mondiale, di alcuni anni fa, non solamente – come sottolinea l’Abi- non solo non esistono i presupposti minimi (in termini di conti economici e di stato patrimoniale degli istituti) per la nazionalizzazione ma c’è il fantasma dei “beaurocrats in business” (di rimettere i burocrati, spesso digiuni delle cognizioni di base di economia e finanza) nelle stanze dei bottoni degli istituti (con esiti che potrebbero essere disastrosi, come lo furono sino ad un quarto di secolo fa). Anche in Francia la situazione è migliore di quanto non sembri scorrendo velocemente i nostri giornali: si legga “L’exception bancarie” sul blog dell’economista e banchiere socialista Jean Peyrelevade “La refondation du capitalisme”.
Ciò non vuol dire che in alcuni Paesi – quelli dove le banche hanno più spesso utilizzato “veicoli speciali” per fare finanza derivata eludendo la vigilanza – l’intervento pubblico a sostegno di questo o quello istituto – un totale di 400 miliardi di dollari – sia stato tale da richiedere la presenza dello Stato nella loro gestione sino al risanamento: i casi principali si sono verificati in Gran Bretagna, Stati Uniti, Germania e Belgio (Paesi le cui banche avevano un tempo la fama di sapere coniugare innovazione con prudenza). Ciò ha una conseguenza importante per gli sherpa: un’eventuale “bad bank” multinazionale (se ne parla, se ne parla……) dovrebbe avere un perimetro limitato e chiaramente delimitabile. Tanto più che dall’ultimo numero di “Economic Affaire” con tono tra l’icastico e l’iconoclastico, Terry Arthur afferma (in “Banking on Socialism”) che sono già “socialisti” tutti i Paesi (tra cui l’Italia) la cui banca centrale è nazionalizzata. Aggiunge olio sul fuoco, sullo stesso numero di “Economic Affaire”, Philip Booth: non esistono, in finanza, imperfezioni e fallimenti del mercato, ne esistono (e tanti) degli uomini- sono questi da contenere, facendo funzionare bene il mercato.

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