venerdì 20 febbraio 2009

SBAGLIA CHI ATTENTE L’AIUTO MASSICCIO DEI FONDI SOVRANI DEI PAESI EMERGENTI, Il Velino 20 febbraio


E’ trascorsa poco più di una settimana dall’annuncio che i fondi libici hanno acquistato un’ulteriore quota di partecipazione all’interno del gruppo bancario italiano Unicredit- in particolare, la Central Bank of Lybia ha aumento la propria partecipazione in Unicredit, in occasione della ricapitalizzazione del gruppo bancario di 3 miliardi, sottoscrivendo cashes per 250 milioni di euro, circa la metà dell'importo rimasto scoperto dopo la rinuncia della Fondazione Cariverona. La banca libica ha così aumentato la sua partecipazione del 4,9% al 7%, divenendo il più grande azionista individuale del Gruppo italiano. La notizia dell’aumento di capitale della Libia in Unicredit, ha fatto subito il giro dei media europei, alcuni dei quali hanno rilanciato le rispettive ripercussioni all’interno dei mercati finanziari locali, dove il gruppo italiano detiene una porzione rilevante del mercato interno. Libero Mercato ne ha trattato ampiamente. “Il Corriere della Sera” ha addirittura parlato di nuova “mappa del potere”.

Torniamo sul tema per due ragioni. Da un lato, l’operazione non è un caso isolato (il fondo di Abu Dhabi ha da tempo il 2.04% del capitale azionario di Mediaset, ma non si sogna certo di scalare l’azienda); anzi, potrebbero verificarsi, in un futuro non troppo lontano, ingressi analoghi di fondi sovrani stranieri in imprese italiane oggi in serie difficoltà (a causa della crisi finanziaria ed economia internazionale) ma non prive di “fondamentali” robusti. Da un altro, quello dei fondi sovrani (specialmente di Paesi emergenti, quanto meno nel mercato finanziario globale) è argomento che alimenta punti di vista, ed emozioni, molto forti (animando polemiche) e, quindi, merita di essere affrontato con un certo distacco e con dati solidi.

I fondi sovrani sono, da un canto, il risultato di situazioni particolari (quelle, ad esempio, dei sovrappiù di riserve valutarie e dei conti con l’estero di Paesi produttori ed esportatori di petrolio) e, dall’altro, uno dei rovesci della medaglia dello squilibrio finanziario ed economico mondiale causato dal disavanzo della bilancia dei pagamenti Usa e dal relativo crescente stock di debito estero degli Stati Uniti. Non sono unicamente i Paesi petroliferi ed alcuni Paesi dell’estremo oriente ad avere creato fondi sovrani per operare anche all’estero. E’ del 16 febbraio scorso l’annuncio il fondo sovrano norvegese (che ha la reputazione di essere ben gestito) sta per investire circa 18 miliardi di dollari Usa in edilizia residenziale negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna – due mercati dove oggi si comprano case a condizioni che sembrano particolarmente convenienti. L’istituto previdenziale svedese (l’equivalente di nostri Inps e Inpdap messi insieme) gestisce, da un quarto di secolo, un fondo sovrano le cui attività sono pari ad un quarto circa del pil del Regno scandivano.

C’è molta più informazione sui fondi sovrani e le loro operazioni di quanto non pensi chi scorre la stampa (e chi la redige): basta visitare il sito del Sovereign Wealth Fund Institute (www.swfinstitute.org) per avere un quadro abbastanza dettagliato ed iscriversi alla newsletter dell’istituto per essere informati, quasi ogni giorno, in tempo reale sulle vicende relative ad una cinquantina dei maggiori fondi sovrani. E’ dalla newsletter del 13 febbraio, ad esempio, che si ricava come il fondo sovrano della Libia ha l’intenzione di fare un bel po’ di “shopping” nei prossimi mesi nel continente vecchio poiché ha, sino ad ora, investito solamente il 23% dei 65 miliardi di dollari d’attività con un alto grado di liquidità di cui dispone (in gran misura, parcheggiate nel mercato monetario). Come saranno allocati? Seguendo unicamente criteri di efficienza economica od anche con un occhio alla politica estera del Paese, con tutti i suoi colpi e contraccolpi di breve periodo? La preoccupazione principale di molti osservatori (ad esempio di numerosi blog sorti per monitorare il fenomeno – tra cui uno di giovani economisti italiani sparsi in varie università Usa) è che la partecipazione di un fondo sovrano, specialmente se di un Paese emergente (ed ancor più se di un Paese con una visione del mondo piuttosto radicale) comporti il rischio di avere a che fare con azionisti (a volte in posizione di rilievo) che guardino non unicamente agli interessi dell’azienda ma anche a quelli del Governo del Paese d’origine (caratterizzati da alti e bassi a breve termine). Naturalmente, istituti come il Sovereign Wealth Fund Institute (alimentati dai fondi medesimi) non darebbero un quadro necessariamente oggettivo e sottovaluterebbero scientemente questi rischi.

La vasta letteratura in materia apparsa negli ultimi mesi è spesso priva di una base quantitativa; riflette, quindi, le opinioni dei propri autori. Di recente, il Centro per lo Sviluppo dell’Ocse ha diramato la prima analisi abbastanza esauriente della materia; se ne può ottenere copia, scrivendo all’autore (javier.santiso@oecd.org). Lo studio, intitolato "Sovereign Development Funds: Key Financial Actors in the Shifting Wealth of Nations" ( “I fondi sovrani :attori finanziari-chiave nei cambiamenti strutturali della ricchezza delle Nazioni”) , traccia la storia dei principali fondi e contiene un’interessante analisi quantitativa: ove i fondi sovrani destinassero il 10% del loro portafoglio in operazioni in Paesi in via di sviluppo , ciò genererebbe un flusso di 1.400 miliardi di dollari l’anno nei prossimi dieci anni verso i Paesi a basso reddito , una cifra ben superiore ai flussi di aiuto allo sviluppo o di finanziamenti privati verso le aree in ritardo da parte di tutti i Paesi Ocse messi insieme. Tuttavia, anche se sul piano interno (dei rispettivi Paesi da dove provengono) i fondi sovrani tendono a comportarsi come banche di sviluppo (e perseguono anche obiettivi di riequilibrio territoriale oppure di supporto a industrie nascenti nella speranza che diventino “campioni nazionali” ), nelle loro attività internazionali sono, di norma, guidati dalla ricerca di rendimenti solidi e duraturi. L’analisi giunge a sostenere che sarebbe appropriato chiamarli Fondi Sovrani di Sviluppo.

A conclusioni analoghe giunge un lavoro del Centre for European Policy Research (CEPR Discussion Paper N.DP6949): anche se si sa ancora poco sulle strategie precise d’impiego delle loro attività finanziarie, i dati disponibili sui loro investimenti in capitale di rischio suggeriscono che, pure se tendono a diversificarsi dai settori prevalenti nei rispettivi Paesi, preferiscono orientarsi verso Paesi che hanno culture e normative sugli investimenti simili alle loro. La azioni delle aziende in cui investono (anche solamente quando si tratta di acquisto di “opzioni call”, ossia di facoltà, non di obbligo, di acquistare entro una certa data , oppure ad una certa data – a secondo della procedura tecnica seguita) aumentano di valore (spesso perché gli impieghi sono sovente diretti verso imprese alla ricerca di capitali freschi). C’è grande attenzione a indicatori di redditività contabile , come il Roe ed il Roi. Nel medio e lungo termine, tuttavia, l’andamento finanziario di molti fondi sovrani tende a non essere brillante, spesso a ragione di composizioni dei propri portafogli lontani dall’essere ottimale e da una governance non di alta qualità. E’ a questi aspetti (più che al rischio di “politique d’abord” di corto respiro) che occorre guardare.

Quindi, non demonizziamoli. Ma non consideriamoli una panacea.

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