lunedì 2 febbraio 2009

CHI HA PAURA DEI COSTI DEL FEDERALISMO FISCALE, L'Occidentale 2 febbraio

L’approvazione da parte della Camera della normativa-quadro sul federalismo fiscale, ed il suo imminente esame da parte del Senato, ha immediatamente sollevato polemiche sui costi del nuovo assetto dello Stato. Sono polemiche giustificate? Probabilmente sarebbe stato utile che la relazione tecnica con cui è stato presentato il provvedimento fosse più esplicita in materia. Tuttavia, anche un centro studi molto vicino all’opposizione, il gruppo Astrid presieduto da Franco Bassanini, ha documentato, nel suo commento al testo quale uscito dalla Camera (www.astrid-online.it/il-sistema1/indez-htlm) come l’articolo 119 contenga un’importante clausola di salvaguardia: Regioni ed enti locali devono avere risorse sufficienti al finanziamento delle loro funzioni, ma sotto forma di tributi propri e di compartecipazione al gettito erariale (integrate dal fondo perequativo del fondo per i territori con minore capacità tributaria). Inoltre, i livelli ed i costi standard verranno congegnati in modo di premiare i soggetti la cui gestione è più efficiente. A questi antidoti al rischio, per così dire, di “sbracamento” delle politiche di bilancio se ne devono aggiungere altri non citati nel lavoro di Astrid.
In primo luogo, i vincoli europei (ed il patto di stabilità interno) sono una prima linea di difesa nei confronti di comportamenti “peccaminosi” (sotto il profilo della disciplina di bilancio). Ove tali vincoli formali non fossero adeguati ce ne sono di sostanziali messi in luce per la prima volta da Robert Putman dell’Università di Harvad proprio come conclusione di uno studio sul funzionamento delle Regioni italiane , pubblicato una ventina di anni fa (“Making Democracy Work- Civic traditions in Italy” Princetton University Press) ma fondato su un’analisi di campo, nel nostro Paese, durata circa un quarto dL secolo: il controllo sociale innesca, da un lato, un circolo virtuoso nei singoli enti locali e, dall’altro, li pone in gara l’uno con l’altro (a chi fa meglio). Aspetto interessante (e poco noto in Italia) è come accentuando il federalismo due Paesi dell’Ue (Belgio ed Austria) sono riusciti a ridurre stock di debito e disavanzo dei conti pubblici che li affliggevano tanto quanto affliggono l’Italia. Il Belgio ha sostanzialmente utilizzato un “patto di stabilità interno” analogo al nostro. Più astuto (almeno mediaticamente) il programma dell’Austria : il Governo federale e quelli dei singoli Länder hanno riformato il bilancio in modo da dividerlo in tre categorie : spese l’amministrazione dell’esistente (da diminuire gradualmente), spese per il futuro quali istruzione ed innovazione (da espandere di pari passo che si riducevano le prime) e spese la manutenzione dello stock di capitale sociale (da valutare in termini quantitativi con l’ausilio dell’analisi costi benefici).
Nella stessa linea, Sean Michael Dougherty (sean.dougherty@oecd.org) del servizio studi economico dell’Ocse (quindi, non un ricercatore a titolo personale) e Robert H. McGukin hanno pubblicato, nel periodico “Management and Organization Review, Vol 4, N. 1, pp. 39-61) uno straordinario (nel senso etimologico di fuori dall’ordinario) studio empirico sugli effetti del federalismo sulla produttività delle imprese nella Repubblica Popolare Cinese . L’analisi riguarda 23.000 aziende e copre il periodo 1995-2005 (quello in cui si è passati da decentramento a federalismo fiscale ed economico). Lo studio anailizza micro-dati di contabilità aziendale sulla base d’un apparato statistico imponente: con il federalismo è migliorata la performance delle azione collettive, di quelle gestite direttamente dallo Stato (nelle sue varie articolazioni centrali e provinciali) e di quelle a proprietà mista (pubblica e privata). Gli autori concludono che l’analisi conferma il lavoro teorico sui Paesi in transizione (dal piano al mercato) anche europei. Rappresenta, in ogni caso, un’arma potente per coloro che sostengono la necessità (e la priorità) del federalismo fiscale. C’è , comunque, un “se” ed un “ma”. L’analisi di Dougherty e McGukin premette che il federalismo della Cina comunista è stato congegnato bene, nel senso che guarda alle imprese ed alla loro produttività.
Andiamo ad aree più vicine a noi, ma pur sempre distinte e distanti dalle nostre beghe. Un lavoro di Lorenz Blume (blume@wirstschaft.uni-kassel.de) dell’Università di Kassel e di Stefan Voight (voigt@wiwi-margurb.de) dell’Università del Margburg fa le bucce al federalismo tedesco: analizza criticamente gli indicatori utilizzati più frequentemente per “valutare” questa o quella tipologia di federalismo – vere e proprie batterie d’indici resi spesso promossi dalla Commissione Europea ed applicati, in Italia, dai seguaci di Robert Putman (e dei suoi lavori sulle differenze in capacità amministrative delle Regioni). Ancora una volta, è un lavoro rigorosamente statistico. La conclusione: occhio ai dettagli istituzionali ed alle “variabili latenti” che si celano dietro osservazioni spesso approssimative. Indicazioni importanti per l’esame del federalismo fiscale da parte del Senato.

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