mercoledì 7 gennaio 2009

L’EURO FARA’ ACCELERARE LA DISINTEGRAZIONE POLITICA, Libero 7 gennaio

La terza guerra mondiale è già iniziata; lo suggeriscono i 22 conflitti armati in corso in Africa, la situazione in Medio Oriente e nel Caucaso, attentati come quello di Mumbai e le notizie di crescenti tensioni e movimenti centripeti nell’immenso (e ben sigillato alla stampa estera) Impero cinese. Alle sue origini hanno contribuito non solamente il declino della potenza dominante (gli Usa nell’ultimo mezzo secolo), come analizzato da Oscar Giannino su Libero Mercato del 2 gennaio, ma anche il processo d’integrazione economica e internazionale (la globalizzazione su scala mondiale) e regionale (ad esempio, l’unione monetaria europea che in questi giorni ha portato a 16 i propri Stati membri).
Lo afferma, da lustri, un filone di letteratura economica poco noto, o poco considerato, in Italia e che merita una maggiore attenzione in questa fase in cui il rullo di tamburi accompagna il termine della prima decade del XXI e, nel nostro Paese, le distanze tra il Sud e le Isole, da un lato, ed il resto d’Italia, dall’altro, si accentuano.
In primo luogo, è utile analizzare la storia economica del processo di globalizzazione dal 1870 al 1910 (le date sono ovviamente convenzionali ed approssimative). A differenze di periodi storici precedenti in cui le determinanti politico-militari erano alle origini dell’integrazione economica, allora (come dal 1970 alla crisi finanziaria ed economica attuale) è l’innovazione tecnologica applicabile, trasversalmente, a quasi tutti i settori (in gergo, GPT, “General Purpose Technology”) a fare da motore all’integrazione. La nascita e la crescita dell’industria manifatturiera, la rivoluzione tecnologico nei trasporti, l’elettricità cambiarono profondamente la struttura di produzione mondiale: India e Cina, che nel 1820 (o giù di lì) producevano il 43% del pil mondiale, erano, alla fine del XIX secolo, ai margini dell’economia internazionale e sotto il controllo (in gran misura) di potenze europee. Inoltre, grazie al progresso della statistica, si hanno strumenti quantitative per analisi basate su dati verificabili con strumenti econometrici. Della vasta letteratura in materia, il saggio di più facile lettura è “Globalization and History” di Kevin O’ Rourke e Jeffrey G. Williamson (MIT Press, 1999): utilizzando strumentazione quantitativa, O’ Rourke e Williamson dimostrano come l’integrazione economica internazionale di quel periodo (attuata in gran misura tramite movimenti di capitale e migrazioni e solo in minor misura tramite aumento degli scambi di merci) fu all’origine della “belle époque” (alti redditi e alti consumi) negli Usa ed in Europa ma innescò tensioni sempre più forti (soprattutto tra i Paesi, in Europa, che più beneficiavano del processo) che fecero sviluppare e diffondere i germi che portarono alla Prima Guerra Mondiale ed alla successiva disintegrazione e frammentazione dell’economia internazionale.
Si dovette attendere sino all’inizio degli Anni Sessanta perché gli investimenti diretti all’estero tornassero ad avere il ruolo rilevato all’inizio del XX secolo. Nonostante la nuova fase di globalizzazione in atto dal 1970 (o giù di lì), non abbiamo ancora un sistema monetario mondiale ed una libertà di scambi di merci e di servizi analoga a quella della “belle époque” a cavallo tre le ultime decadi del XIX secolo e la prima del XX. La deglobalizzazione , iniziata attorno al 1910, ha comportato due guerre mondiali. Così come l’industrializzazione recava maggiore produttività per unità di input, e tanto la rivoluzione dei trasporti e l’elettricità riducevano le distanze di spazio e di tempo, la determinante tecnologica alle origini della globalizzazione in corso del 1970 (o giù di lì) è una GPT ( l’elettronica e l’informatica) che ha effetti dirompenti sulla produttività ed in molti casi riduce le distanze di spazio e di tempo sino ad annullarle. La sua introduzione ha comportato un rallentamento (per adeguarsi alle nuove tecnologie) in Paesi usi alle tecnologie precedenti ( quello verificatosi in Europa e negli Usa negli Anni Ottanta e Novanta). E’ di facile apprendimento (nei suoi elementi essenziali); quindi, è stata la molla per una dinamica sostenuta nelle aree ricche di risorse umane giovani e facilmente addestrabili (l’India e la Cina che nel 1820 producevano, come si è visto, il 43% del pil mondiale). E’ in atto, dunque, un riassetto della struttura di produzione a livello internazionale analogo a quello del 1870-1910, ove non più veloce e più profondo di allora. Difficile pensare che ciò possa avvenire senza tensioni, lacerazioni e conflitti (e senza crisi finanziarie ed economiche).
E’ utile ricordare che molti economisti, tra cui due Premi Nobel (Gunnar Myrdal, Nobel per l’Economia del 1974 – sua moglie Alva Myrdal avrebbe ottenuto il Nobel per la Pace nel 1984- e Paul Krugman, Nobel per l’Economia del 2008), lo hanno previsto, con una puntualità che con il senno del poi appare impressionante. Sono stati poco ascoltati perché la disciplina e la professione s’interessavano sempre più a fenomeni di breve periodo.
Ne sono esenti le integrazioni regionali? Non proprio. Nel 1997, Alberto Alesina ha sostenuto, in un saggio a sei mani con E:Spolaore e R. Wacziarg (“Economic Integration and Political Disintegration”, Nber Working Paper n. 6163) che l’euro non sarebbe stato il motore di crescita (come promettevano allora vari Governi europei) ma avrebbe portato alla “disintegrazione politica” – tramite l’ampliarsi delle disuguaglianze ed il rallentamento dell’andamento economico e l’affermarsi di tendenze centripete). Oggi a Harvard si additano le vicende in corso da mesi in Belgio a dimostrazione dell’esattezza dell’analisi; in Italia, la “disintegrazione politica”, si afferma sulle sponte del fiume Charles, è stata temperata dall’alleanza dei movimenti autonomisti con il PdL. Più preoccupante l’analisi di Martin Feldstein (Presidente del Comitato dei Consiglieri Economici di due Presidenti Usa e per oltre un quindicennio rieletto, periodicamente, alla guida della principale rete di ricerca economica, il National Bureau of Economic Research ). In “The Politican Economy of the European Economic and Monetary Integration : Political Sources of an Economic Liability” (Nber, 1997 Working Paper n. 6150, ripubblicato in “Foreign Affaire”), Feldstein ha sostenuto (dati alla mano) che l’integrazione monetaria europea avrebbe comportato divergenze crescenti tra aree ad alto reddito (ed a bassi costi di transazione) ed aree a basso reddito (ed a alti costi di transazione) che avrebbero messo a dura prova la stabilità politico-istituzionale del Vecchio Continente ed i suoi rapporti con gli Usa. Per essere giunto a conclusioni simili, seguendo un percorso differente, in “L’Unione Monetaria Europea e lo Sviluppo del Mezzogiorno” pubblicato in “Rivista di Politica Economica” gennaio 1999, ho subito quasi un decennio di ostracismo da tante anime belle che mi accusavano di essere anti-europeista. Oggi provo la strana amarezza di chi ha avuto ragione troppo presto.

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