lunedì 1 dicembre 2008

ALLA SCALA IL “DON CARLO” IN QUATTRO ATTI Il Velino 1 dicembre

Se il 7 dicembre ci sarà l’annunciata prima nella sala del Piermarini (uno dei molteplici sindacati minaccia uno sciopero), vedremo un “Don Carlo” in quattro atti secondo quella che viene comunemente chiamata “la versione Scala” in quanto venne approntata da Verdi per Milano nel 1884 ed ora in uso in gran parte dei Teatri Italiani. Prima di entrare negli aspetti musicali è utile fare una premessa storico-politica.

Gli storici dell’economia ricordano che, prima dell’attuale, ci furono altre due fasi di integrazione economica e culturale internazionale- quella tra il 1870 ed il 1910 sulla spinta del progresso tecnologico specialmente nel settore dei trasporti e quella della Spagna di Carlo V “sul cui impero non tramontava mai il sole” grazie alle conquiste transatlantiche, ai possedimenti nelle Fiandre ed alle alleanze strategiche, tramite un complicato intreccio di matrimoni, con la Francia e la Gran Bretagna. Quella di Carlo V fu una stagione breve: l’Inquisizione la minò internamente (con l’istituto della delazione che distrusse la base patrimoniale dell’Impero) e la nascita degli Stati nazionali (tra cui quello delle Libere Province Unite nei Paesi Bassi) la frantumò esternamente.
“Don Carlo”, l’opera forse più squisitamente politica di Giuseppe Verdi, tratteggia, nelle due versioni in cinque atti (raramente eseguite in Italia), l’inizio della fine di questa fase di globalizzazione ; traccia, quindi, l’avvio alla deglobalizzazione mettendo in scena il decadimento degli Asburgo nel passaggio da Carlo V (sempre presente in spirito ma mai sul palcoscenico – non si sa se è morto o se si è invece celato al mondo, nel Monastero di San Giusto) a Filippo II in contrasto con il Grande Inquisitore e con il proprio figlio – l’”infante” “Don Carlo” il cui destino resta misterioso nell’affascinante ambiguo finale dell’opera (si rifugia a San Giusto, ma non è chiaro se finirà nelle mani del Grande Inquisitore o, riuscirà, a porsi alla testa della rivolta nelle Fiandre).
“Don Carlo” è la grande ’”incompiuta” di Giuseppe Verdi. Lo è più d’altre sue opere più volte rielaborate nel corso degli anni quali “Simon Boccanegra”, “La forza del destino” e “Stiffelio”. E’ la sola che non ha avuto una versione definitiva se non si considera tale quella “di Modena” del 1886 che riprendeva in versione ritmica italiana, ma scorciandola, l’edizione originale parigina del 1867; l’”ur-Don Carlo” parigino richiede circa 7 ore di spettacolo, include mediocri ballabili; i tentativi di riesumarla, in lingua originale e con il lungo (25 minuti) ballo del terzo atto, trenta anni fa a Boston (grazie a quella diavoloccia di Sarah Caldllwell), un quarto di secolo fa a La Fenice ed una quindicina di anni fa a Torino (nonché in disco per la bacchetta di Claudio Abbado) sono stati deludenti. Per ragioni di durata, in Italia è invalso l’uso di rappresentare la versione “di Milano” o “della Scala” del 1884- in quattro, invece, che in cinque atti – da cui si perde, musicalmente e drammaticamente, l’“atto di Fontainebleau”, premessa essenziale della vicenda e , soprattutto, momento onirico di ricerca dell’utopia. Viene a mancare anche il nesso con la globalizzazione: nell’atto, il giovane Don Carlo s’ innamora, nella foresta imbiancata dalla neve, della giovanissima Elisabetta di Valois , ma non sa che essa è destinata in sposa a suo padre, Filippo II, proprio per rispondere ad un disegno geo-politico di integrazione economica, strategia e culturale (si badi ai richiami, nel secondo quadro del secondo atto, alle “canzoni saracene” ed all’eleganza e modernità nella lontana Parigi).
Sotto il profilo musicale, le tre versioni del “Don Carlo” sono tavolozze di un percorso tra il melodramma (quale codificato, proprio da Verdi, a metà 800) ed il dramma in musica compiuto quale è “Aida”, pur realizzata 14 anni prima del “Don Carlo” modenese e solo un lustro dopo quello parigino. Delle tre versioni, la parigina (che vidi nella prima messa in scena integrale, quella diretta e concertata dalla Caldwell nel 1973 ed ascoltai più volte nella registrazione di Abbado, peraltro di poco successo commerciale) è la più incompiuta: ha pagine bellissime (espunte nelle altre) quali il coro dei cacciatori ma anche lunghe sezioni in cui Verdi ha forse composto bendato (il ballabile “La Perégrine). La versione “di Milano” è la più compatta ma l’afflato geopolitico (la globalizzazione che si frantuma) assume un ruolo secondario rispetto al complicato intreccio di amori, di politica di palazzo e di religione di stato. La versione “di Modena” è la più matura; ripristina l’atto di Fontainebleau; taglia i ballabili; ritocca qua e là il resto dell’immensa partitura con il senno che Verdi aveva nel 1886. E’ la versione di prammatica al Metropolitan, all’Opéra e al Covent Garden.
Complessa, comunque, la messa in scena: non c’è bisogno solo di sei grandi voci, di 18 comprimari, di un doppio coro ma anche di interpreti ed orchestra versati sia nel melodramma sia nel dramma in musica. Ardui i problemi della regia: nei sette quadri, otto nella versione “di Modena”, sul fondale storico della crisi dinastica degli Asburgo e su quello contemporaneo (per Verdi) di guerre d’indipendenza, si accavallano i temi della fragilità del potere, dell’intolleranza religiosa, degli amori proibiti, dell’amicizia virile leale sino alla morte.
Il tema di fondo anticipa quanto scritto un secolo più tardi dal Premio Nobel V.S. Naipul: per l’uomo l’utopia è la cosa peggiore. Siamo sia alla dissoluzione degli Asburgo di Spagna (e, quindi, di un’era politica) ma anche e soprattutto all’eclisse dei valori. Carlo ed Elisabetta cercano l’utopia ma finiscono nell’adulterio, tradendo rispettivamente il padre ed il marito. Con Filippo II e la Principessa Eboli (amante del primo ma vogliosa di portare Carlo sotto le lenzuola) intrecciano un complicato ménâge-à-quatre. Il potere politico si sgretola di fronte al Grande Inquisitore, a sua volta cieco ed incapace del perdono. Resta un solo valore: l’amicizia virile tra Don Rodrigo e l’”infante”, ma viene stroncata dai moschettieri del Grande Inquisitore. Le folle assistono alla morte dell’equilibrio etico su cui si fondano sia la vita delle coscienze e degli affetti sia il significato della politica; tentano una velleitaria ribellione. A 40 anni circa dal suo primo allestimento (allora concertato a Roma da Carlo Maria Giulini), la lettura di “Don Carlo” in cinque atti fattane da Luchino Visconti appare ancora molto attuale. La regia di Stéphane Braunsschweig sarà probabilmente drasticamente differente da quella di Visconti anche in quanto la versione in quattro anni (ossia l’edizione Scala) non coglie gli aspetti politici fortemente presenti nella versione definitiva – quella approntata da Verdi per Modena-

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