sabato 25 ottobre 2008

SETTE GIORNI CON LODE PER JANÁCÉK AL MASSIMO DI PALERMO Il Domenicale 25 ottobre

“Da una casa di morti” di Leoš Janáček è approdata al Teatro Massimo di Palermo, in un allestimento esemplare co-prodotto la Welsh National Opera, Opera Nazionale del Galles (Regia: David Puuntey ; Scene e costumi: Maria Björson; Direzione musicale: Gabriele Ferro; un cast internazionale per i 23 ruoli). E’ stata in scena tutte le sere per una settimana (le ristrettezze finanziarie, e l’obiettivo del teatro palermitano di chiudere i bilanci in pareggio o leggero attivo, impongono queste scelte). Quindi, una recensione sarebbe fuor di luogo se avesse come scopo quello di invitare il potenziale pubblico ad assistere ad uno spettacolo raro (credo sia la terza volta che l’opera viene messa in scena in Italia – la prima nel 1963 alla Sagra Musicale Umbra e la seconda nel 1968 alla Scala) e prezioso (90 minuti di enorme tensione). Sarebbe anche fuori luogo accendere una polemica: il Massimo di Palermo – un tempo considerato ente dissestato ed ora tra i pochi esempi di risanamento – batte la grande Scala, che nel 2009 aveva intenzione di portare l’edizione presentata tre anni fa a Aix en Provence (Regia: Patrice Chéreau; Direzione Musicale: Pierre Boulez) ed ha ripiegato riproponendo nel 2009 Il Caso Makroupolos nell’allestimento di Luca Ronconi, visto, negli Anni 90, a Torino, Bologna e Napoli. La batte due volte in quanto quella palermitana è la “prima” esecuzione in Italia dell’opera come la scrisse e la volle Janáček; la terza stesura del lavoro era manoscritta quando morì e due suoi allievi la “imbellirono” (aggiungendo anche un finale quasi romantico); nel dopoguerra, ci sono state altre versioni più o meno manipolate. Soltanto nel 1974, grazie all’edizione critica, registrata da Sir Charles Mackerras con i Wiener Philarmoniker, si è giunti ad una partitura che, quasi identica alla terza stesura approntata da Janáček rifletteva il pensiero dell’autore: una musica del tutto innovativa, con echi della “Messa glagolitica”, costruita in 13 brevi episodi nettamente distinti e suddivisi in sezioni in cui vengono reiterati motivi semplici che non conoscono né combinazioni né sviluppi.
E’ più appropriata una riflessione sulla straordinaria edizione (i tre atti sono presentati come un blocco unico senza soluzione d’intervallo) di uno straordinario lavoro, l’ultimo composto dal 74enne Janáček, dopo tre opere fortemente sensuali in gran misura ispirate alla sua relazione con la giovane, e bellissima, Kamila Strösslová. “Da una casa di morti” è tratto dal romanzo di Dostoevskij in cui racconta i quattro passati (dai 24 ai 32 di età) ai lavori forzati in un campo di lavoro siberiano presso Omsk. La saggistica sulla trasposizione in opera lirica da parte di Janáček tende a mettere l’accento sull’inno alla libertà che traspare da un lavoro in cui, tuttavia, non c’è nessun coro analogo al “Fidelio” ed il senso della libertà è affidato essenzialmente al volo di un’aquila che, raccolta dai prigionieri ferita nella prima scena, nell’ultima, curata, riprende a volare nelle vie del cielo. Pone anche enfasi su come Janáček benché filo-slavo (e filo-russo) in terre che considerava occupate dagli austro-ungarici offre una rappresentazione premonitrice dei “gulag” e dei “lager”.
Meno noto, e probabilmente più rivelatore del pensiero di Janáček nell’ultima fase della propria esistenza umana è che prima di lui un musicista italiano- quel Giacomo Puccini di cui ricorre il 150nario dalla nascita – fosse stato tentato da mettere in musica il lavoro di Dostoevskij. Dal 1899, ossia da pochi anni dopo la pubblicazione della traduzione italiana del romanzo, Luigi Illica – rileva un saggio di Franco Pulcini- insistette con il compositore perché “Da una casa di morti” fosse quel teatro in musica del Novecento di marca italiana (che in effetti fu “Tosca”) . Puccini – afferma Pulcini - venne dissuaso dalle difficoltà di trasformare in azione scenica una narrazione – che, al pari di Un giorno nella vita di Ivan Denisovič di Solženicyn, non ha un vero e proprio sviluppo drammatico- ma rappresenta un campo di prigionia in gran parte tramite i racconti dei carcerati.. Ritengo che ci fosse qualcosa di più profondo: Puccini non era credente, le pagine di Dostoevskij (cristiano ortodosso molto sui generi) hanno un senso di pietà cristiana nei confronti di un’umanità di assassini, ladri, concussori e corruttori, carcerieri sadici, borghesi altezzosi e farisei (questo è il mondo che incontra, al bagno penale, un intellettuale di San Pietroburgo condannato alla Siberia per ragioni politiche ma restituito alla libertà dopo circa un anno). Tale senso è colto da Janáček (che usciva dall’amore senile con la Strösslová) forse più e meglio che da Dostoevskij. In un appunto trovato tra le sue carte, Janáček scrive:”penetro nell’animo dei prigionieri e vi trovo la scintilla di Dio”.
Il musicologo John Tyler ha scritto di “messaggio privo di compromessi”. E’ quello che ispira questa edizione ; chi la ha persa a Palermo può gustarla a Cardiff o nel resto della tournée in Europa continentale del Teatro d’Opera del Galles.

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