venerdì 3 ottobre 2008

SE I CONTI PEGGIORANO NON E’ SOLO COLPA DELLA SPESA PUBBLICA L'Occidentale 3 ottobre

Negli ultimi giorni, alle brutte notizie sul fronte internazionale, si aggiungono quelle che vengono, dall’interno, sulla nostra finanza pubblica. Ieri mattina, due ottobre, la stampa economica citava la crescita del fabbisogno statale secondo i dati del Ministero dell’Economia e delle Finanze (un aumento del 7% rispetto allo stesso periodo del 2007) – un marcato deterioramento, dunque, rispetto al buon andamento del disavanzo di cassa segnato sino all’estate. Ancora più inquietanti le notizie dal servizio studi del Senato: l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni n (l’indicatore chiave per il patto di stabilità) torna a marcare differenze significative dal fabbisogno di cassa : le due grandezze, identiche nel 2007 (all’1,9% del pil), divergono di 0,4 punti percentuali nel 2008 (preconsuntivo), dello 0,9% punti percentuali nel 2009 (stima). La mattina del 2 ottobre, l'Istat, ha confermato che, nei primi sei mesi del 2008, l'indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche e' stato pari al 2,6% rispetto al Pil, contro l'1,5% segnato nello stesso periodo del 2007 (in parte, però, per una caratteristica puramente tecnico-contabile: la riclassificazione Equitalia). Più preoccupante ancora, è l’analisi delle determinanti: dai dati Istat si ricava che l’aumento dell’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni è da attribuirsi in gran misura all’andamento delle spese , che hanno corso più del previsto, mentre, tutto sommato, le entrate hanno tenuto abbastanza bene al rallentamento dell’economia italiana (dall’1,5% nel 2007 allo 0,2% stimato per il 2008).
La stampa di questa mattina è ricca di dati e soprattutto d’interpretazioni su come si è determinato il peggioramento. I dati sono utili. Le interpretazioni un po’ meno, soprattutto quelle che pongono l’accento sulla finanza facile pre-elettorale del Governo Prodi; l’interpretazione “autentica”, per dirla in linguaggio giuridico, la hanno già data gli elettori con un sonoro sfratto a tutta la compagnia. L’interrogativo cruciale è cosa fare adesso.
Per rispondere non ci si può esimere dal dare rilievo al quadro internazionale. La crisi finanziaria in atto ormai da un anno e mezzo non può non avere effetti sugli andamenti reali e sulla finanza pubblica, anche se l’unicità di quanto sta avvenendo sui mercati è tale che non esistono strumenti econometrici in grado di quantizzarne il nesso con un buon grado di accuratezza.
Senza dubbio, occorre mantenere il controllo sulla spesa pubblica –ormai, però, in gran parte ridotta a stipendi, trasferimenti alle famiglie (pensioni, sanità) e pagamento di strumenti essenziali (quali le bollette per le utenze di pubblica utilità) per il funzionamento della pubblica amministrazione; nelle tabelle dell’ultima finanziaria, spese per i maggiori investimenti pubblici sono state posticipate al 2010 (in attesa di essere probabilmente ritardate ulteriormente al 2011).
E’ tuttavia la strategia vincente in una fase di consumi calanti ed in cui, dopo anni, anche gli indicatori relativi all’occupazione tornano ad essere grigi? Parte della risposta a questo interrogativo verrà nella riunione dei quattro Capi di Stato e di Governo dell’Ue domani a Parigi e delle riunioni della settimana prossima a Washington in margine all’assemblea annuale del Fondo monetario e del Gruppo della Banca mondiale. Qualsiasi piano straordinario europeo per fare fronte alla crisi finanziaria comporta un aumento della spesa pubblica, e la sospensione del patto di stabilità per il tempo necessario a rimettere i mercati in ordine ed in grado di funzionare. E’ in questo quadro che si devono analizzare (e risolvere) i nodi della finanza pubblica italiana.

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