mercoledì 8 ottobre 2008

QUATTRO MELODRAMMI MOLTO LAICI SVELANO I RAPPORTI NON FACILI TRA VERDI ED IL SUO DIO, Il Foglio 8 ottobre

Il festival verdiano si dipana per 28 giorni (tante quante le opere del maestro, “Messa da Requiem” compresa); ha il suo centro a Parma; coinvolge anche Busseto e Reggio Emilia. Nell’edizione 2008m il festival sembra avere, forse inconsapevolmente, un tema insolito: i rapporti (non facili) di Verdi con il suo Dio. I quattro nuovi allestimenti – in varia forma sono presentati tutti i titoli verdiani (uno al giorno) – sono “Giovanna d’Arco”, “Il Corsaro”, “Nabucco” e “Rigoletto”, melodrammi i cui testi trattano in qualche modo con la trascendenza. Le insistenze di Verdi con i librettisti e soprattutto la sua musica, li resero profondamente laici, pur facendo trapelare qualche dubbio su cosa c’è nell’aldilà.
“Giovanna d’Arco” (lavoro giovanile tratto da una tragedia di Schiller) non finisce sul rogo, ma muore combattendo. Nel lavoro del poeta tedesco, la Pulzella è combattuta tra la missione sovrannaturale e la propria natura umana, nell’opera del nostro emilianissimo Peppino (Verdi) la vicenda “è ridotta ad un fatto di passione amorosa” (per il Re di Francia) - ha scritto 30 anni fa il musicologo Claudio Casini. Ne “Il Corsaro”, tratto da un poema di Byrono e raramente messo in scena, ci sono tutti gli ingredienti per creare un nuovo “Maometto II”; opera in cui Rossini mostrò i suoi complicati rapporti con Allah e l’Islam (“Il Foglio” del 22 agosto): invece,è “una mera successione di scene il cui nesso è gratuito” (ha scritto Jacques Bourgois nel suo libro su Verdi). Laicissimo “Nabucco”, pensato (lo sottolinea Paul Hume, per decenni titolare della critica musicale del “Washington Post”) come un “colossal” per fare cassetta, anticipando i film biblici di Cinecittà e Hollywood. E “Rigoletto”? L’assenza di Dio è assordante: Gilda va a “tutte le feste al Tempio”, ma in un mondo dominato da una vendetta che infierisce nei confronti dei deboli e degli innocenti.
La prova principale del Verdi ateo (ma inquieto), accanto ad una Peppina Strepponi, sua compagna di vita (atea coltissima , in materia, e felice di esserlo) è la “Messa da Requiem” (al festival di Parma in programma il 26 ottobre). E’ un grande melodramma di riflessione sulla morte (e sulla vita): il ventottesimo se lo si aggiunge ai 27 appositamente concepiti per la scena lirica oppure il ventiseiesimo se si li conta in ordine cronologico di composizione e rappresentazione. Massimo Mila ha acutamente scritto “protagonista ne è l’uomo vivo, non il defunto, è l’azione è in questa terra, non nell’aldilà”. Per Hans von Bülow, il direttore d’orchestra favorito da Wagner (che gli rubò, però, la moglie), il “Requiem” è “un’opera lirica in veste ecclesiastica” – “che solo un genio può avere scritto”, aggiunge Johannes Brahms.
Come molte figure del Risorgimento (Manzoni, Rosmini e pochi altri sono eccezioni), Verdi era diventato “mangiapreti”; anche per vicende personali – cresciuto alla musica come organista de Le Roncole (piccola frazione di Busseto), protetto dal cattolicissimo, e bigotto, Barezzi, di cui sposò la figlia Margherita, fu portato dalla morte prematura della prima moglie e dei loro figli a pensare che Dio o non c’è (ove ci fosse non potrebbe permettere tanto male) o, se esiste, è il “Dio crudel” di Jago che in “Rigoletto” si accanisce contro chi non ha colpa. Mauro Mariani, docente al conservatorio di Santa Cecilia, ricorda le parole di Peppino: “Penso che la vita è la cosa più stupida, peggio inutile”. Il suo testamento musicale è la “fuga” con cui termina Falstaff “Tutto il mondo è una burla!”. Un addio, però, tutt’altro che sereno: inquieto ed inquietante. Atea , ma gioiosamente tale, era la sua Peppina. Nel suo epistolario scrive: “Vi sono delle nature virtuosissime che hanno bisogno di credere in Dio; altre, ugualmente perfette, che sono felici non credendo a niente ed osservando severamente ogni precetto di severità morale”. Dell’ateismo di Verdi sono prova non solo i carteggi ma soprattutto le sue opere degli anni più prossimi alla “Messa da Requiem”; in “Don Carlos” ed in “Aida” la religione è rappresentata come opprimente e spietata nei confronti di tutti (anche della politica) – puro esercizio di potenza da parte del Grande Inquisitore nella prima e della casta dei sacerdoti nella seconda; ne “La forza del destino” (che pur si svolge tra chiostri e conventi), la presenza di Dio è confinata nell’ultima scena dell’edizione approntata per l’Italia – Dio è assente in quella ancora in scena a San Pietroburgo. “La Provvidenza” – ossia il ruolo della Provvidenza nel testo – impedì a Verdi di mettere in musica il romanzo più amato: “I Promessi Sposi” d’Alessandro Manzoni

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