lunedì 6 ottobre 2008

C’E UN PERCHE SE’ IL FONDO MONETARIO NON SA FARE LO SCERIFFO, Libero 4 ottobre

Da Wall Street, dal Congresso, dall’Eliseo l’attenzione su come affrontare la crisi finanziaria internazionale si sposta nei palazzi di Washington dove dal 7 al 14 ottobre si tiene l’assemblea annuale del Fondo monetario e delle istituzioni che fanno parte del Gruppo della Banca Mondiale. Le sessioni più importanti sono quelle che precedono l’assemblea vera e propria: le presentazioni dei rapporti sulle prospettive della finanza internazionale e dell’economia reale , le riunioni dei vari “G”, di cui la più attesa è quella del “G7”. Non sono improbabili colpi di scena- come, d’altronde, si è verificato in altre occasioni quando le riunioni annuali delle due maggiori istituzioni finanziarie internazionali create nel 1944 a Bretton Woods sono avvenute, per caso o per disegno del destino più o meno cinico e baro, proprio quando erano in corso forte tensioni sui mercati mondiali (si pensi a quella a Rio nel 1967 ed a quella a Belgrado nel 1979).
La carne al fuoco è tanta. Per non perdere il filo, è bene non dimenticare che c’è sul tappeto una proposta centrale che pare piacere un po’ a tutti: affidare il Fondo un ruolo chiave (ove non il ruolo chiave) nella vigilanza internazionale, in una prima fase, per avviare a soluzione la crisi finanziaria in atto e, successivamente in via permanente, per tentare di evitare di cadere in trappole analoghe. Piace a tutti, come diceva il brutto titolo nostrano (si era nell’Italia bigotta degli Anni 50) del piccolo capolavoro di Roger Vadim “Et Dieu Crea la Femme” che lanciò Brigitte Bardot come star internazionale. Piace, in primo luogo, al Fondo monetario da anni in crisi sia perché senza soldi (deve ridurre del 20% l’organico) dato che i suoi proventi si sono essiccati da quando nessuno corre più ai suoi piedi per prestiti a breve termine alla bilancia dei pagamenti (gli interessi sui prestiti sono la fonte principale di entrate del Fondo). Piace a Nicolas Sarkozy in quanto il Fondo è guidato dal suo compatriota Domique Strass Kahn: uno è neo-gollista, l’altro socialista ma sono amici per la pelle, la pensano allo stesso modo, a Parigi frequentano gli stessi ristoranti (La Pérouse, Le Dôme, La Méditerranée) e gli stessi gruppi di amici, fanno pure sport negli stessi clubs, il primo ha fatto eleggere il secondo a pilota del Fondo. Sono, soprattutto, ambedue colbertiani interventisti. Piace agli americani (sia repubblicani sia democratici) perché è un modo, tra il pilatesco ed il gattopardesco, per lavarsi le mani facendo finta che cambi tutto senza che muti nulla. Piace agli altri europei un po’ perché pure loro vogliono qualcuno a cui passare la patata bollente un po’ perché non sanno cosa fa il Fondo e come lo fa. Piace ai Paesi emergenti (Asia, America Latina) perché al Board Fmi fanno sentire la loro voce mentre dei vari “G” o non vengono fatti entrare o sono considerati parenti poveri oppure cugini arricchiti ma pur sempre “gentlemen from overseas” .
Al vostro “chroniqueur”, l’idea non piace non tanto perché nessuna di queste intenzioni è nobile – suvvia, siamo uomini di mondo: anche da intenzioni poco nobili possono venire accorgimenti efficaci- ma per varie ragioni basilari:
In primo luogo, ho passato tre lustri nelle istituzioni di Bretton Woods ed ho continuato a collaborare con alcune loro attività sino a pochi anni fa. Il Fondo non ha né le strutture né il personale adatto a condurre il tipo di vigilanza che ora si richiede. E’ stato attrezzato per effettuare vigilanza di politiche economiche di breve periodo. E neanche quella ha saputo farla molto bene. Non lo dicono unicamente i libri dell’aristocratiuca “gauchiste” britannica Theresa Hayter (un tempo una delle donne più attraenti sulle due sponde dell’Atlantico) ma seri lavori quantitativi. Un bacgkround paper recente (BP /0//2) del Panel di Valutatori Indipendenti del Fondo (di cui nessun pare avere notizia in Italia) lo scrive a tutto tondo, accusando l’organizzazione di non buona gestione dei programmi per i Paesi più poveri (i soli che chiedono ancora oggi il suo intervento). Sulla stessa linea, ma ancora più ruvido, il lavoro del maggiore istituto di ricerca della Confederazione svizzera: nel KOF Woking Paper N. 186, i compassati Axel Dreher e Stefanie Walter utilizzano, a proposito della scarsa efficacia della vigilanza macro-economica del Fondo, termini che verrebbero apprezzati pure nei centri sociali nostrani. Ancora più duro un altro lavoro di Axel Dreher – questa volta con Silvia Marchesi (Milano Bicocca), e James R. Vreeland (Yale). Nel KOF Working Paper n. 175, si mette a nudo, sulla base di dati relativi a 157 Paesi per il periodo 1999-2005, la strana, e peculiare, coincidenza delle stime biennali Fmi in materia di crescita ed inflazione per ciascun Paese con i voti dei delegati (dei Paesi) all’Assemblea Nazionale dell’Onu: quanto più ci si è espressi in modo collaterale agli Usa tanto più il monitoraggio del Fondo è benevolo (salvo, poi, a ricredersi sui consuntivi). A questo accuse circostanziate, i portavoce dello Fmi (tra cui cari amici personali di chi scrive) hanno preferito replicare con un assordante silenzio.
In effetti, se ci si deve rivolgere ad una delle istituzioni di Bretton Woods per la vigilanza, è più appropriata la Banca mondiale (già sovraccarica, però, di altri compiti). Negli Anni 60 ha elaborato un vero e proprio modello per la vigilanza delle istituzioni finanziarie: un libro di Luigi Paganetto e Pasquale Lucio Scandizzo ricorda, tra l’altro, come per diversi anni la Cassa del Mezzogiorno italiana è stata “vigilata”, con efficacia, dalla Banca mondiale; negli Anni 80 e 90 si è attrezzata per vigilare i propri crescenti investimenti in finanziarie private. Gestisce un fondo pensioni che ha più avuto l’Oscar mondiale del settore.
Occorre, però, chiedersi (come fa Lex Rieffel della Brookings Institutions, Brookings Global Economy and Development Working Paper N. 24) se è appropriato passare la grana al siamesi di Bretton Woods (Fmi e Banca mondiale). Tanto più che, se dessimo a loro adesso vita, non si situeremmo ambedue sulle rive del Potomac.
Soprattutto, prima di correrete a Bretton Woods ed al suo splendido golf club alle porte di Washington. Dobbiamo mettere ordine ciascuno a casa propria. In Italia perché le funzioni di vigilanza sono frammentate. Negli Usa perché sono state smantellate e castrate non negli Anni di Reagan o di Bush ma in quelli di Clinton (tanto amico di Prodi e di Veltroni). Lo documenta Timothy A. Canova , un giurista societario di Chapman University non certo schierato con i repubblicani o con i liberisti in un saggio pubblicato questa estate nel periodico “Dissent”, una delle principali riviste dell’intellighentsia di sinistra Usa. La sinistra nostrana – è triste- non legge neanche le riviste di quello che sarebbe dovuto essere “l’Ulivo mondiale”.

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