venerdì 31 ottobre 2008

SAN NICOLA RESTITUIRA’ AI BARESI IL LORO PETRUZZELLI? Il Velino 31 Ottobre

Mancano pochissime settimane al 6 dicembre, giorno in cui Bari festeggia il proprio Santo Patrono, San Nicola. Nei Paesi nordici ed anglosassoni – è noto – San Nicola ha preso le forme e le vesti sempre più laiche di Santa Klaus – da noi diventato Babbo Natale e nei Paesi slavi – c’è a riguardo una deliziosa opera di Rimiskji-Korsakov che in Italia non si vede da oltre 50 anni – quelle di Nonno Gelo. Tanto San Nicola, quanto Santa Klaus (e le sue caratterizzazioni latine e slave, Babbo Natale e Nonno Gelo) portano regali ai bambini buoni. I baresi si meritano, o meno, la riapertura del Petruzzelli, dopo 17 dalla chiusura in seguito ad un incendio ( le cui cause non sono ancora chiare), alla spesa di 50 milioni di euro per la ricostruzione, alla costituzione nel 2002 di una fondazione lirico-sinfonica (la 14sima del panorama, e - quel che più conta- della normativa italiana in materia di sussidi e sovvenzioni). Ad Aix –en –Provence con meno della metà dei fondi, due architetti italiani hanno progettato e supervisionato i lavori di un teatro tra i più belli e più moderni in Europa.
Sei mesi fa sembrava tutto pronto: il Petruzzelli, tornato all’antico splendore, avrebbe aperto i battenti con “Norma” (l’opera che stava per andare in scena al momento dell’incendio) con scene e costumi utilizzando, in parte, quanto salvato e ricostruendo il resto sui bozzetti. Protagonisti d’eccezione: Daniela Dessì e Fabio Armiliato. In effetti, tale “Norma” si è vista ed ascoltata al Comunale di Bologna la scorsa primavera. Non si sa se nel 2009 – o più in là- arriverà al Petruzzelli. Anzi, la stagione lirica, che avrebbe dovuto iniziare il 6 dicembre (in concorrenza con la prima di “Otello” diretto da Muti a Roma e dell’inaugurazione della Scala, con “Don Carlo” diretto da Chially il giorno seguente), si parla molto poco: a Bari si mormorà che avrà luogo in marzo, il mensile “L’Opera” ha dedicato, nel numero in edicola, un editoriale sferzante poiché quello di Bari è uno dei rari teatri al mondo di cui non si conosce la programmazione nel 2009 (il mensile sfoggia anche le stagioni liriche in Manitoba, Nuova Zelanda ed Isole-Stati del Pacifico meridionale).
Ora è in programma un concerto dell’orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, guidata da Zubin Mehta. In breve, come per il Massimo di Palermo e la Fenice di Venezia, (ed il Parco della Musica a Roma) ci sarebbe un’inaugurazione a rate: uno o più concerti prima del teatro in musica. Allora, la musa bizzarra e altera (la lirica) non poteva entrare sul palcoscenico perché i lavori non erano finiti. Oggi per un’intricata questione giudiziaria. Il Petruzzelli è nato come teatro privato (della famiglia Messeni Menaglia). Per la ricostruzione, è stato espropriato, ma la Corte Costituzionale ha riconosciuto incostituzionale la legge in base a cui è stato effettuato l’esproprio. E’ un corso una vera e propria bagarre tra legulei e barracuda-esperti. La famiglia sottolinea che vuole fare valere i propri titoli come stimolo a scoprire chi è stato il mandante dell’incendio. Tutto troppo complicato per il povero Hans Sachs che di pandette e di conti non si intende.
E’ qualche tempo che il vostro Hans non frequenta il teatro lirico barese. Se e quando legulei e barracuda-esperti avranno trovato una soluzione, un’implorazione: si rimettano in ordine coro e orchestra (ottoni in particolare). I grandi nomi necessitano coro e orchestra all’altezza.

UN AUTUNNO TUTTO BAROCCO, Milano Finanza 31 Ottobre

In attesa delle inaugurazioni delle “stagioni” 2008-2009 di teatro in musica (è iniziata soltanto quella del Regio di Torino), il barocco e la musica dello spirito sono gli elementi caratterizzanti di questo autunno musicale. Due manifestazioni, di differente portata, sono particolarmente importanti. La più breve (e meno pubblicizzata) è il Festival contemporaneamente barocco, tenuto a Siena dall’11 al 30 ottobre, un progetto innovativo che ha affrontato i linguaggi musicali e teatrali del barocco, con il proposito di mettere in risalto le relazioni con la sensibilità contemporanea. L’importanza della manifestazione (che non ha riguardato unicamente attività concertistica ma anche teatrale, di teatro in musica, di cinema ed incontri e seminari) è data dal fatto che la nuova direzione artistica dell’Opera di Roma ha indicato di riservare al “contemporaneamente barocco” parte delle attività del Teatro Nazionale, la seconda sala a disposizione dell’istituzione. Al Teatro dell’Opera di Zurigo ed a quelli di Berlino – si badi bene – il barocco contemporaneo, o interpretato in modo contemporaneo, sono i generi che più attirano il pubblico giovane.
A questo riguardo, vale una segnalazione l’evento centrale del festival: la realizzazione, in forma semiscenica di uno dei più importanti oratori di Alessandro Scarlatti, “Il trionfo della SS Vergine assunta in Cielo (1706)”, affidato alla regia di Alessio Rosati, direttore artistico del festival, e all'esecuzione musicale dell'orchestra barocca Il Rossignolo, gruppo in residence del festival, diretto dal maestro Ottaviano Tenerani. E’ uno spettacolo avvincente che probabilmente presto si rivedrà e riascolterà a Roma, ed altrove.
Più esteso in durata (dal 12 ottobre al 30 novembre) il VII Festival Internazionale di Musica ed Arte Sacra, organizzato, nelle maggiori basiliche romane, dalla Fondazione Pro-Musica ed Arte Sacra. Il complesso sinfonico in residenza sono i Wiener Philalmoniker ma si possono ascoltare altre orchestre europee ed anche americane che raramente sono in tournée in Italia. Un evento, quindi, speciale: per il programma dettagliato e per le procedure attinenti ai biglietti (gratuiti) rivolgersi a www.festivalmusicaeartesacra.net . Il Festival è stato inaugurato con una vera chicca: la prima mondiale dell’esecuzione della nuova edizione critica dell’Arte della Fuga di Bach da parte di un ensemble internazionale costituto a questo scopo- un evento carico di emozione nell’abside di San Giovanni in Laterano. Verrà chiuso, il 30 novembre, con un’altra “prima mondiale”: la nuova edizione critica della Musiclasches Opfer, sempre di Bach. I Wiener hanno offerto la Sesta di Bruckner in una stracolma San Paolo fuori le mura e, tra l’altro, presenteranno il 27 novembre, in San Giovanni in Laterano, l’oratorio di Haydn “Le ultime sette parole del nostro Redentore sulla Croce”. Per gli appassionati d’organo, una serie di concerti dal 18 al 20 novembre. Per chi desidera una sintesi attraverso i secoli ( da Palestrina a Krämer) una serata di “musica delle cattedrali europee”, il 27 novembre, a San Paolo Fuori le Mura affidata a Leo Krämer ed alla filarmonica ed al coro della Saar. Tra gli altri appuntamenti particolarmente importanti delle prossime settimane: “Ein deutsches Requiem” di Brahms, eseguito dall’Orchestre de la Suisse Ronande guidata da Mark Janowski ed una “Messa per l’Immacolata” con sacro antico (Monteverdi) e moderno (Pärt) ad opera dell’orchestra e coro del National Shrine di Washington diretto da Peter Latona.

giovedì 30 ottobre 2008

DA ALITALIA ALLA SCUOLA: QUANDO LA CATTIVA INFORMAZIONE SOFFIA SUL DISAGIO SOCIALE L'Occidentale 30 ottobre

“La strategia del ragno” è un film di Bernardo Bertolucci ; grande successo alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1970, ebbe ottimi esiti commerciali in Francia (ed anche negli Usa) ma relativamente pochi in Italia. Mostrava allora una rete di ambiguità ed una strategia a tenaglia (per l’appunto “la strategia del ragno”) per tenere in vita, in un piccolo villaggio del mantovano, un falso mito della Resistenza. E’ un film che senza dubbio WV (Walter Veltroni) ha visto in cineteca e ne ha assimilato alcuni punti fondamentali. Lo ho ricordato (senza fare riferimento né al film né a WV) un grande esperto di cinema, oltre che eminente sociologico, Luciano Pellicani in una recente intervista televisiva: è in atto una strategia analoga a quella dell’autunno-inverno 1994-95 dove la malinformazione soffiò sul disagio sociale per scalzare il Governo.
La “strategia del ragno” spiega il nesso tra lo sciopero nel comparto scuola indetto da tutte le sigle del settore per oggi 30 ottobre e l’abbandono del tavolo della trattativa (con la Cai) da parte delle nove sigle sindacali. Alla vigilia era stato convertito in legge il decreto sulla riforma della scuola elementare; era stato anche aumentate tanto il capitale sociale quanto il numero dei soci della Cai. Due “fatti” molto distinti ma tali da costituire due vittorie per il Governo e la maggioranza. Non solo. Sul fronte dell’aviazione civile, il piano industriale e l’offerta definitiva della Cai al Commissario Augusto Fantozzi stava per essere messa in bella copia e la conclusione del negoziato con il partner straniero (AirFrance-Klm o Lufthansa oppure, secondo alcune ipotesi, ambedue) veniva annunciata per il 12 novembre. Su quello della scuola, crescevano le adesioni alla “maggioranza silenziosa” di studenti e genitori, stanchi e stufi di proteste che danneggiano principalmente i giovani nonché dell’estensione a macchia d’olio alle secondarie ed all’università.
La “strategia del ragno” consiste nel tentare di trasformare queste vittorie della maggioranza in sconfitte. Il possibile fallimento della trattativa con la Cai mette a repentaglio la presentazione dell’offerta definitiva e vincolante, accelerando la fine dell’Alitalia e la minaccia di una marea di disoccupati. Tensioni analoghe ci sono nel settore dei trasporti ferroviari ed urbani. Un sindacalista molto vicino a WV preconizza un “inverno caldo” in cui scioperi nella scuola, nei trasporti, nei servizi locali e nel pubblico impiego inducano parte della maggioranza a smarcarsi dal resto (come avvenne nel dicembre 1994-gennaio 1995).
Come replicare? Dare più forte prova di compattezza, evitare di scivolare sulla creazione di finti problemi o di problemi meno seri di quanto non siano (come la battaglia sull’art.18 dello Statuto dei Lavoratori), migliorare la comunicazione per spiegare ciò che, in condizioni rese ancora più difficili dalla crisi internazionale, si sta tentando di realizzare. E’ l’unico modo per evitare che “la strategia del ragno” abbia gli esiti che WV (& Co) si sono proposti. E’ un percorso difficile. Come tutte le venture ardue richiede costanza e perseveranza.

mercoledì 29 ottobre 2008

LA TECNOLOGIA PER RIPORTARE IL PUBBLICO A TEATRO Il Velino del 29 Ottobre

Ricorre un venticinquennale di cui, in Italia, pochi si sono accorti: l’introduzione, nei teatri d’opera, dei “sovratitotili (“surtitles”, termine brevettato nel 1983 dalla Canadìan Opera Company di Toronto). Lo si deve a Lofti Mansouri. Nato da magnanimi lombi dell’aristocrazia persiana, formato all’University of California di Los Angeles, dopo avere iniziato una carriera di cantante (ed anche d’attore cinematografico), ha trovato la propria strada maestra nella gestione di teatri (dopo Toronto, Los Angeles e San Francisco). Nel 1983, a Toronto si programmava “Elektra” di Hugo von Hofmannsthal e Richard Strauss , un ‘ora e tre quarti di estrema tensione dove parole e musica si fondono in tutt’uno. Cosa avrebbero apprezzato gli spettatori canadesi, poco usi al tedesco di von Hofmannsthal? L’idea fu semplicissima: proiettare il testo su una striscia sovrastante il palcoscenico. La recepì subito Beverly Sills allora alla guida della New York City Opera, e sempre alla ricerca di nuovi strumenti per attrarre pubblico. Si estese rapidamente a tutti i teatri del Nord America (con l’eccezione del “Met” di New York) ed ai maggiori teatri europei: a Bruxelles, a “La Monnaie”, ci sono due strisce (una destra ed una sinistra del palcoscenico) – una in fiammingo ed una in francese, ad ogni atto la lingua cambia lato. Dopo una lunga resistenza, guidata dal direttore musicale, James Levine, in persona, il “Met” ha capitolato nel 1995; al posto delle strisce sul palcoscenico, si può leggere il testo (scegliendo la lingua) sul dorso della poltrona di fonte. Ha capitolato pure “La Scala” (applicando un sistema analogo a quello del “Met”) nonostante Riccardo Muti avesse minacciato che si sarebbe dovuto marciare sul suo cadavere, prima di avere marchingegni del genere nella Sala del Piermarini.

Secondo gli oppositori, i “surtitles” distraggono il pubblico. La vasta diffusione nell’arco di un quarto di secolo dimostra che, invece, aiutano attenzione, comprensione, concentrazione. Come seguire commedie in musica quali “I maestri cantori di Norimberga” o “Il cavaliere della rosa” senza gustarne il dialogo? Adesso, i “surtitles” vengono individuati come delle cause per cui i teatri d’opera in America, Asia e gran parte d’Europa sono sempre affollati. Li adottano quasi tutti i teatri italiani; hanno probabilmente frenato l’emorragia di pubblico ma non agevolato il ricambio generazionale.
Ci riusciranno le altre innovazioni che vengono dagli Usa- adesso dalla nuova gestione del “Met” affidata a Paul Gerb? Alcune (apertura delle prove generali a studenti, proiezioni in piazza in diretta) sono già entrate nell’uso d’alcuni teatri italiani. La principale sono i “simulcasts” (la proiezione ad alta definizione, e su maxi-schermo, in diretta di alcune “prime”) in circa 600 sale cinematografiche (normalmente di lusso) negli Usa, in Australia, in Europa e Giappone (ad un prezzo medio di $ 22 a spettacolo, ma si privilegiano gli abbonamenti): nella stagione 2007-2008 del “Met” i “simulcasts” hanno attratto 920.000 spettatori in 23 Paese – una parte di loro, se andranno a New York- vorranno vedere “the real thing” dal vivo. In molte città, la serata al “simulcast” è un evento mondano: ci si veste con eleganza, si organizzano cene o prime colazioni (dipende dal fuso orario). La produzione del “simulcast” è dispendiosa: richiede un regista televisivo, 15 telecamere, una troupe di 60 tecnici. Il primo anno, il “Met” ha riportato una perdita, ma si prevede un profitto nel 2008-2009.
In Italia si è tentato qualcosa d’analogo, con una cinquantina di “microcinema” dove , per € 10 a biglietto, si sono viste ed ascoltate le serate inaugurali della Scala, del Comunale di Bologna, del Festival Verdi a Parma, e via discorrendo. Ha inaugurato il sistema nella primavera 2007 il Teatro dell’Opera di Roma con il nuovo allestimento di “Traviata” (regia di Franco Zeffirelli, direzione musicale Gianluigi Gelmetti). Esiti? Prematuro fare un bilancio. Tuttavia, non paiono comparabili a quelli dei “simulcasts” del “Met”. Per due ordini di motivi. In primo luogo, si sono scelti piccoli cinema di comuni di piccole dimensioni (spesso sale parrocchiale): in un ambiente piccolo, l’alta definizione è più facile ed un comune di campagna non fa concorrenza ai teatri. Non si crea, però, l’evento. In secondo luogo, non si sono dispiegate forze tecniche analoghe a quelle messe in campo dal “Met” con il risultato che le immagini sono più statiche. Soluzione possibile: coalizzarsi con gli altri maggiori teatri europei per migliorare sia la qualità sia la diffusione.

UN PROFESSORE DI CONSERVATORIO LIBERTINO ANTICIPO IN MUSICA I LAGER PROSSIMO VENTURI, Il Foglio 29 ottobre

Leoš Janáček aveva da poco superato i 70 anni quando si accinse a realizzare ciò che trent’anni prima aveva tentato, senza esito, Giacomo Puccini: trasformare in un dramma in musica il romanzo autobiografico “Memorie da una casa di morti” di Fëdor Michajlović Dostoeskij in cui raccontava i quattro anni di lavori forzati inflittigli (quando aveva dai 28 ai 32 anni d’età) dalla magistratura zarista in seguito all’accusa di avere partecipato ad un complotto eversivo. Tra delinquenti comuni macchiatisi dei peggiori delitti, “ho avuto modo – ha scritto Dostoeskij – di conoscere gli uomini”, in breve di trovare un immenso materiale per quella che sarebbe diventata la tavolozza di gran parte della sua narrativa.
Difficile dire cosa avvicinò Janáček all’idea di scrivere un libretto e comporre un’opera di 90 minuti tratta da un testo essenzialmente privo di uno sviluppo drammatico: il pretesto è l’imprigionamento di un intellettuale e la sua progressiva comprensione di un mondo “di morti” (quasi tutti ergastolani in un carcere sotterraneo da cui escono unicamente per i lavori forzati). I detenuti raccontano le proprie vicende, quasi sempre trucide poiché relative a delitti efferati; anche nelle più brutali, però, traspare quella che Janáček, in un appunto trovato dopo la sua morte, chiama “la scintilla di Dio”.
Janáček stava uscendo dalla complessa vicenda extra-coniugale, con la giovane Kamila Strösslová, che plasma la sensualità dei suoi lavori precedenti (tutti concepiti dopo il sessantesimo compleanno). Moravo doveva essere politicamente appagato dalla istituzione, nel 1919, della Repubblica Cecoslovacca dato che dalla nascita nel 1854, aveva sofferto il giogo austro-ungarico (tanto che faceva parte del partito slavo, filo-russo). La Moravia era pacifica e relativamente ricca. Eppure la sua ultima opera – come notò nel 1981 Milan Kundera in un articolo sulla Patria lontana occupata dai russi – è preveggente: “più contemporaneo non potrebbe essere” poiché descrive i gulag ed i lager ed utilizza un linguaggio musicale in anticipo di alcuni decenni – una semantica che intende cogliere il nesso tra note e psicologia ed in cui il linguaggio crudo, e spesso volgare, dei carcerati viene presentato in una struttura in 13 episodi ciascuno diviso in sezioni tematiche, ciascuna costruita su iterazioni di motivi semplici e con una tonalità fissa. Ciò accentua il carattere al tempo stesso cupo, e crudo del lavoro, ma anche, come ha scritto il musicologo John Tyrrell, l’immensa “pietas” dell’opera.
Il Teatro Massimo di Palermo, risanato nei conti dopo una fase di grandi difficoltà, ha avuto il coraggio di presentarla prima d’altri (pare che La Scala lo abbia in programma per il 2010) in quella che dal 1974 è ritenuta l’edizione critica più vicina alle intenzioni dell’autore (che morì prima di suggellare la terza stesura della partitura). In Italia, l’opera era stata messa in scena a Perugia nel 1963 ed a Milano nel 1968 ma in versioni manipolate da allievi di Janáček. Il Massimo ha fatto uno sforzo produttivo importante: il lavoro non ha veri e propri protagonisti ma ben 23 personaggi – ciascuno con caratterizzazioni difficili da interpretare e da cantare; le voci sono unicamente maschili (tranne un breve intervento di un soprano nel ruolo di una prostituta ammessa nel carcere, in occasione della Pasqua, per soddisfare esigenze dei prigionieri); la scrittura vocale ed orchestrale è estremamente complessa; i tre atti vengono rappresentati senza intervallo proprio per accentuare il senso di claustrofobia (ed il simbolo finale di libertà : il volo di un’aquila ferita e curata dai carcerati). Il Massimo co-produce il lavoro con la Welsh National Opera (che lo ha in repertorio): la regia è affidata a David Pountney (specialista del teatro in musica di Janáček) e la direzione musicale a Gabriele Ferro che ha cesellato la partitura. Alla “prima” c’erano alcune file vuote: lo scotto che si paga per l’innovazione, ma il passaparola funziona per le repliche.
Resta l’interrogativo di Kundera: come mai nella seconda metà degli Anni Venti in una Moravia lieta della propria indipendenza ed apparentemente serena, un vecchio borghese professore di conservatorio che aveva 50 anni quando aveva composto a prima delle sue sette opere (destinate a trasformare il teatro in musica del Novecento) riuscì ad anticipare i lager ed i gulag di quello che, in un bel libro, Luigi Fenizi ha correttamente chiamato “il secolo crudele”?

martedì 28 ottobre 2008

SI’ AD UN FONDO SOVRANO MA NON ALL’ITALIANA Il Tempo del 28 ottobre

Nei Palazzi, si sta discutendo proprio in queste ore se l’Italia debba seguire la Francia e costituire “un fondo sovrano” per sostenere, temporaneamente, banche ed imprese in difficoltà a ragione della crisi finanziaria. Verosimilmente, la decisione sarà presa dal Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, appena rientrato dalla Cina.
Per contribuire al dibattito, occorre spiegare cosa è un “fondo sovrano” ed in cosa il fondo francese e quello, eventualmente, italiano si distinguerebbero dai più noti “fondi sovrani” dei Paesi esportatori di petrolio ed emergenti (come India e Cina). I “fondi sovrani” sono nati negli Anni 70 (sono stato associato alla messa a punto di alcuni di tali fondi poiché allora ero dirigente in Banca mondiale) per investire all’estero le riserve di petrodollari che, dopo il forte aumento dei prezzi dell’oro nero, i Paesi esportatori di greggio non riuscivano ad assorbire al loro interno. Sono quasi tutti nazionali. Ne esistono di multilaterali: di questi ultimi, il più importante ha, da 30 anni, sede a via del Serafico a Roma- l’Ifad (finanziato in gran misura dai petrodollari e con la missione di aiutare i coltivatori diretti dei Paesi a basso reddito). Negli Anni 90 e nel primo lustro di questo secolo, i “fondi sovrani” asiatici (e non solo) hanno dato un nuovo orientamento: investire, con profitto, i surplus valutari (che si accumulavano a ragione, in gran misura, dello squilibrio dei conti con l’estero Usa) in aziende, anche bancarie, del resto del mondo. Negli ultimi mesi, i Paesi europei hanno preso strade differenti di fronte a tali fondi, la cui gestione non risponde solo a logiche finanziarie: di norma incoraggiano l’afflusso d’investimenti ma ne vincolano l’impiego per evitare il controllo (da parte di fondi sovrani esteri) di aziende o settori strategici.
Il fondo sovrano che si sta allestendo in Francia (100 milioni d’euro) – e quello di cui si discute in Italia – hanno invece l’obiettivo di fare da para-urti a imprese ed a banche nazionali in una fase oggettivamente difficile. Quello francese verrebbe gestito, asetticamente, da “la vielle dame”, la Caisse de dèpôts et consignations) proprio per assicurare trasparenza di interventi limitati all’essenziale (nell’importo e nel tempo). Un fondo italiano (di cui si avverte l’esigenza- basta leggere lo studio di Medio Banca sulla capitalizzazione delle banche italiane) comporta, da un lato, la modifica di normativa appena varata (i due decreti leggi sugli interventi a favore di istituti in difficoltà) e, dall’altro, - è questo l’aspetto di fondo – assicurare che non operi “all’italiana”, come le leggi di ristrutturazione industriale del passato (dalla nefasta “legge Prodi” a tante altre) a quelle più recenti d’incentivazione (quale la legge 488). Tutte misure la cui gestione è stata ben incipriata a favore degli amici-degli-amici. I benefici di un fondo sovrano italiano ben gestito probabilmente supererebbero i costi. Avverrebbe il contrario per un fondo sovrano “all’italiana”.

ORA LO TSUMANI INVESTE L’ASIA. A RISCHIO LA CRESCITA MONDIALE, Libero 28 ottobre

Il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi è rientrato soddisfatto dalla riunione dei Capi di Stato e di Governo dell’Asem tenutasi a Pechino il 24-25 ottobre. Per afferrarne la ragione occorre sapere cosa è l’Asem e di cosa si è discusso nella capitale cinese. Nella galassia delle sigle, l’Asem (Asia-Europe-Meeting) non è un’organizzazione internazionale, ma un’associazione, piuttosto informale, di Stati Europei ed Asiatici, nata sulla scia della crisi del debito estero di molti Paesi dell’Estremo Oriente (fine Anni 90). I Capi di Stato e di Governo degli Stati aderenti si riuniscono una volta l’anno; negli anni intermedi si incontrano i loro Ministri degli Esteri. Non ha un organico proprio; di volta in volta lo Stato che organizza la riunione “politica” annuale, gestisce il segretariato on-line (un elegante sito Internet). Priva di una struttura, l’Asem ha 45 soci (il termine tecnico è partner), che, insieme, rappresentano la metà del pil mondiale ed il 60% della popolazione e del commercio internazionale del globo. Accanto alle sessioni politiche, ce ne sono numerosissime tecniche (ad esempio, dei responsabili del commercio con l’estero) ed una vasta gamma di comitati: ho fatto parte, su indicazione non del Governo italiano ma della Banca mondiale e del Consiglio d’Europa, di quello su finanza pubblica e stato sociale, partecipato a riunioni a Manila, Washington e Bruxelles e promosso, con la Scuola superiore della pubblica amministrazione) un seminario internazionale alla Reggia di Caserta alcuni anni fa. Quindi, l’Asem è una realtà che poco costa ai contribuenti (non avendo né una sede né personale proprio) ma conta molto nel gioco economico e finanziario internazionale.
La riunione appena tenuta a Pechino ha avuto un tema poco trattato sulla stampa italiana: cosa può avvenire alla finanza ed all’economia reale mondiale se e quando lo tsumani finanziario arriverà in Asia. Europa ed Asia – ci si è chiesti a Pechino - possono dare una risposta comune all’appuntamento convocato degli Usa il 15 novembre? E’ stata, dunque, una sessione di grande rilievo preparatoria a quelle del 7 novembre (Parigi) e 15 novembre (dintorni di Washington). Per questo motivo, il settimanale “The Economist” del 25-31 ottobre ha dedicato alla riunione un’inchiesta e l’editoriale d’apertura - scritti ovviamente prima dell’incontro a Pechino e densi di preoccupazioni sullo “shock” finanziario che l’arrivo dello tsumani potrebbe portare alle Borse ed all’economia reale di Paesi come la Cina e l’India, che, negli ultimi anni, sono stati tra i motori dell’economia internazionale.
Inquietudini analoghe si respirano a Washington, all’angolo tra Pennsylvania Ave. e la 19sima strada, dove ha sede il Fondo monetario internazionale (Fmi). Secondo indiscrezioni, raccolte nella capitale Usa, il Fondo sta mettendo a punto uno sportello speciale per aiutare i Paesi emergenti (tra cui India) a parare la crisi finanziaria; lo sportello non sarebbe finanziato sulle risorse proprie del Fmi (ormai al lumicino tanto che è in programma un drastico taglio del personale) ma tramite i “fondi sovrani” di Paesi petroliferi e grazie ad un contributo straordinario del Giappone. Yusuku Horiguchi dell’Instititue for International Finance afferma che per ora, in Asia, si avvertono i prodromi di un problema di liquidità: “se dura troppo a lungo, potrebbe diventare un nodo di solvibilità”. Secondo C. Fred Bergsten dell’Institute for International Economics , il lato che da più da pensare è l’effetto sull’economia reale: una frenata in Cina ed in India (a causa dello tsunami finanziario) trasformerebbe una recessione moderata (a livello mondiale) in una lunga e profonda. Sempre secondo indiscrezioni, a Pechino si sarebbero fatti notevole passi avanti nella messa punto dello sportello: ciò spiega la soddisfazione di Berlusconi (e di Sarkozy) – si tratta di un risultato europeo ed asiatico non americano , aspetto da fare pesare al vertice convocato da G.W. Bush per il 15 Novembre e con chiunque , dal 20 gennaio 2009, sarà l’inquilino della Casa Bianca.
Vale la pena mettere in evidenza alcuni aspetti che rendono lo Fmi e non la Banca mondiale, o qualche nuova organizzazione istituita per la bisogna, particolarmente adatto a gestire lo sportello. Non solamente il dato pratico che da anni lo Fmi è semi-disoccupato e lavora a scartamento ridotto. Un’analisi europea (Università di Maastricht e di Lussemburgo – CESifo working paper N. 2131) , in base ad un campione di 25 mercati emergenti negli ultimi 15 anni, dimostra non solamente andamenti paralleli delle Borse ma anche un impatto positivo sull’economia reale della liberalizzazione finanziaria e commerciale – a rischio di marcia indietro a ragione dell’onda lunga. Un altro lavoro (della Lancaster University e della Johns Hopkings University School of Advanced International Studies), in base ad un campione di 37 Paesi emergenti, avverte come in questi Paesi tensioni nelle Borse interne contagiano i cambi; sulla stessa scia il CEPR discussion paper n. DP6148, documenta come stia tornando la speculazione valutaria a proposito delle divise dei mercati emergenti. Anche perché il debito estero sovrano di molti di questi Paesi – lo rivela uno studio di Banca mondiale, Università Pompeu Fabra di Barcellona e Mit – è in gran misura a breve termine (quindi più sensibile a tensioni). Il mercato dei cambi (dove evitare speculazioni) ed il breve termine sono campi d’elezione del Fmi. Da quando ha iniziato ad operare nel 1945.

ALITALIA : OCCHI PUNTATI SULL'AMBLEA CAI, Il Tempo 28 ottobre

Decollerà la Compagnia Aerea Italiana (CAi) al termine di una giornata, quella di oggi 28 ottobre, che si presenta molto lunga e dagli esiti incerti. E’ in programma l’assemblea per l’aumento di capitale dell’azienda costituita in fretta e furia per tentare un salvataggio di ciò che resta di Alitalia. I risultati si avranno solamente a tarda sera, ove non nella notte od anche domani. L’assemblea è stata preceduta da un incontro tra il management della Cai ed i sindacati cominciato ieri 27 ottobre alle 18; nella notte tra il 27 ed il 28 ottobre è trapelato, peraltro ufficiosamente, che ci sono “alcuni spiragli”. Nessun comunicato ufficio al momento in cui scriviamo (alle 9 del 28 ottobre).

Il quadro è ancora complicato. Si accavallano vari elementi : la crisi finanziaria che rende oggettivamente più difficile l’aumento di capitale, le restrizioni creditizie che ostacolano un’operazione ipotizzata su una forte leva finanziaria, l’irrigidimento di alcune sigle sindacali ; la posizione della Commissione Europa sull’ultimo prestito effettuato; una buona dose di confusione su cosa otterrebbero i lavoratori nell’eventualità di fallimento dell’intera operazione. Questo ultimo punto, poco trattato nelle cronache e nei commenti, merita di essere messo in evidenza. C’è, infatti, chi soffia sul fuoco e vorrebbe strumentalizzare la vicenda come un caso politico analogo a quello suscitato con le , tutto sommato, modeste e tardive riforme che si stanno introducendo nella scuola.

Lo ho potuto constatare di persona parlando con lavoratori Alitalia andando a Reggio Calabria per lavoro domenica 26 con il volo AZ1159 e rientrando a Roma il giorno seguente con il volo AZ1160 – ambedue , ma ormai è ovvio scriverlo, in ritardo. In breve, è stata diffusa la voce che il fallimento della trattativa (o del piano Fenice) sarebbe la soluzione migliore per i lavoratori (che avrebbero sette anni di cassa integrazione straordinaria) e per il Paese (poiché si innescherebbe una spallata al Governo in carica). L’informazione sulla cassa integrazione è quanto meno artata: tale ammortizzatore è previsto da una normativa speciale unicamente per i lavoratori in esubero in caso di buon esito del piano; se tutto va all’aria, agli ex-lavoratori AZ non spetta che l’indennità di disoccupazione per non più di 18 mesi ed ad un terzo dei minimi contrattuali. La diffusione di notizie palesemente errate, unitamente all’irrigidimento di alcune sigle, fa prevedere che, nonostante le interviste dense di ottimismo del Presidente della Cai, Colaninno, il decollo (se ci sarà) sarà lungo. Il vincolo è la cassa; agli ultimi dati, ce ne è per solo due settimane. Poi, tutti a terra.

Unicamente dopo l’assemblea Cai sapremo se ci sono le condizioni per presentare l'offerta vincolante, che dovrebbe arrivare sul tavolo del commissario straordinario Augusto Fantozzi entro venerdì 31 e mettere in pista la nuova azienda il primo. Dicembre.
Una notizia positiva, tra tante incertezze, appare questa mattina sul sito del quotidiano francese “La Tribune”: la data del primo dicembre sarebbe stata citata dal presidente di Air France-Klm, Jean-Ciryl Spinetta, in occasione degli incontri avuti nell'ultimo fine settimana con i sindacati e gli analisti. Il quotidiano scrive inoltre che la scelta del partner straniero, Air France o Lufthansa, avverrà il 12 novembre. E che Spinetta sarebbe convinto che Air France è meglio piazzata rispetto a Lufthansa: anche in questo caso, però, il portavoce di Air France ha smentito.
Sino ad ora non sono giunte smentite. Ma neanche conferme. Au revoir, les enfants…………………..la vicenda sta per arricchirsi di nuove eccitanti puntate.

domenica 26 ottobre 2008

BORSE IN CRISI A RISCHIO LE PMI LAZIALI, Il Tempo 26 ottobre

Se il tema interessa anche il servizio studi della Banca centrale della Finlandia, la situazione si profila davvero preoccupante. Pure più inquietante di quanto descritto il 22 ottobre dal principale quotidiano economico italiano in un’inchiesta dedicata all’autunno freddo che, a ragione della crisi finanziaria internazionale, si prospetta per le piccole e medie imprese (pmi) di Roma e del suo hinterland. Il lavoro della Banca di Finlandia è il Research Discussion Paper N. 15/2008 on line dalla notte tra il 22 ed il 23 ottobre. In Filandia è disponibile in un’elegante versione cartacea. Allo studio hanno lavorato, oltre ad un noto economista del Politecnico di Reensalear, Iftekhar Hasan, due italiani, Leonardo Becchetti dell’Università Roma III e Annalisa Castelli dell’Università di Tor Vergata. E’ un’analisi tecnica della reattività (alla disponibilità di credito) del cash flow delle pmi , specialmente di quelle a cui sono stati negati, in passato, i finanziamenti richiesti. Le imprese studiate sono quello dell’analisi campionaria di Capitalia (in cui il Lazio ha un peso ed un ruolo rilevante). Nei confronti delle pmi che dichiarano (nei formulari per l’istruttoria di finanziamenti) di non avere trovato la porta sbarrata in passato, gli istituti di credito applicano una “chiara discriminazione”.
L’analisi tecnica della Banca centrale della Finlandia pone nella giusta prospettiva l’inchiesta giornalistica sull’autunno freddo, e l’inverno glaciale, che si profilano per parte importante dell’industria romana a ragione delle restrizioni creditizie conseguenti la crisi internazionale. A Roma e nel suo hinterland , l’80% delle imprese sono a conduzione familiare (e solo una su quattro ha un livello di capitalizzazione adeguato), il 7% sono piccole aziende con tra nove e 49 addetti (rispetto ad una media nazionale del 10%), oltre il 92% hanno meno di nove addetti (rispetto ad una media nazionale di dell’88,7%). Gli ordinativi espongono una flessione del 10% rispetto allo scorso anno, i costi aumentano (quello del denaro è arrivato, per le pmi, al 12% l’anno i); l’edilizia, l’elettronica e la stessa farmaceutica sono in difficoltà. Tiene solo il lusso (che tira specialmente tramite l’export di Paesi ad alto tasso di crescita dove si stanno formando élites che adorano il “made in Italy” di pregio).
Il Comune, la Provincia e la Regione potrebbero istituire un osservatorio sulle imprese in crisi sempre che non finisca nei soliti “tavoli” dove si parla molto e si conclude poco. Gli istituti di credito dovrebbero potenziare i servizi diretti alle pmi, unendo all’azione creditizia, assistenza tecnica in aree come le innovazioni di processo e di prodotto ed il marketing (la chiave del successo di numerose “development finance companies”, per utilizzare il lessico internazionale). La Camera di Commercio e le Associazioni di categoria dovrebbe promuovere la formazione manageriale, pure tramite una più intensa e qualitativamente migliore utilizzazione dei fondi europei. Le idee non mancano: sì, è possibile uscire senza troppi danni.

UN EVENTO PUO’ DIVENTARE UN’OCCASIONE DA NON PERDERE PER LA POLITICA L'Occidentale del 26 ottobre

Il festival verdiano si dipana per 28 giorni (tante quante le opere del maestro, “Messa da Requiem” compresa); ha il suo centro a Parma; coinvolge anche Busseto e Reggio Emilia. Il programma è ricco: quattro nuovi allestimenti (“Giovanna d’Arco”, “Nabucco” (a Reggio Emilia), “Il Corsaro” (a Busseto), “Rigoletto”), tutte le altre opere presentate in sintesi con parti cantate , concerti di livello internazionale (ad esempio, la Filarmonica di San Pietroburgo), una serie di iniziative speciali per avvicinare i giovani, specialmente gli studenti al Cigno di Busseto, la preparazione di un’integrale in DvD da completarsi entro il 2013. Grande attenzione da parte della stampa e della critica internazionale (pure dal “Wall Street Journal”, di norma molto parco in materia d’informazione musicale e di recensioni di spettacoli dal vivo, specialmente se di “musica classica”. Gruppi di turisti musicali dalla Germania, dalla Francia ed anche dalla lontana Svezia, nonché ovviamente dagli Usa. Quindi, il progetto lanciato quattro anni fa di fare diventare Parma “capitale europea della musica” sta prendendo corpo.
Ho trattato in altra sede sugli aspetti più strettamente musicali del Festival: il consuntivo artistico (ora che si è giunti ad oltre metà strada nella manifestazione musicale monografica più importante dell’anno – il Governo sta predisponendo un provvedimento per “i festival d’importanza nazionale”) è indubbiamente positivo. Quello contabile potrà essere fatto tra alcuni mesi.,
In questo nostro “orientamento quotidiano”, mi sembra utile lanciare tre idee che possono essere a supporto del Festival e di misure per renderlo ancora più efficiente e più efficace:

a) In primo luogo, gli organizzatori dovrebbero commissionare uno studio analitico degli impatti economici del Festival in termini di valore aggiunto e sua distribuzione tra settori produttivi e fasce di reddito. Uno studio analogo è stato fatto circa 15 anni fa dall’Università d’Urbino per conto del Rossini Opera Festival. Ne sono stati condotti molteplici (ma non d’alta qualità e, comunque, più sociologici che economici) per il Ravello Festival. Oltre un quarto di secolo fa, l’allora giovane Bruno Frey (Università di Zurigo) ne condusse uno sul Festival di Salisburgo; la traduzione italiana è stata pubblicata dalla casa editrice Il Mulino nel libro dal titolo “Muse e mercati”. L’Università di Parma e l’istituto di ricerche della Regione Emilia-Romagna hanno la capacità di effettuare l’analisi. Che potrebbe rivelarsi strumento potente non solamente per un maggiore intervento pubblico ma anche per attirare sponsorizzazioni private.
b) In secondo luogo, il Festival sta realizzando l’”integrale” delle opere di Verdi in Dvd da completare in occasione del bicentenario dalla nascita nel 2013. Verdi è un importante simbolo di italianità ed elemento di coesione per gli italiani all’estero (esistono “club dei 27” anche a Caracas ed a Pretoria). D’intesa con la Direzione Generale competente del Ministero degli Affari Esteri, il Festival potrebbe mettere a disposizione del centinaio circa di Istituti italiani di cultura all’estero tanto i DvD (man mano che vengono prodotti) quando guide per spiegare l’opera ed organizzare (nell’ambito degli istituti) serate verdiane con la visione dell’opera seguita da un dibattito e , se possibile, preceduta da una conferenza di un musicologo locale.
c) In terzo luogo, utilizzare il Festival come strumento per “esportar cantando”. D’intesa con l’Ice , diffondere i DvD ed organizzare serate verdiane in occasione di esposizioni internazionali – penso a quella mondiale a Shangai il prossimo anno , ma anche e soprattutto ad altre più capillari pur se più piccole. Potrebbe essere una leva importante.

sabato 25 ottobre 2008

LA CRISI NON CANCELLERA' IL SISTEMA DEL LIBERO MERCATO, Libero 25 ottobre

Da due anni circa il mondo finanziario è alle prese con una crisi che starebbe mettendo a repentaglio l’ordine economico mondiale tanto che si parla (lo abbiamo viso su “Libero Mercato” del 23 ottobre) di una nuova “Bretton Woods” per fissare nuove regole. Tutti gli Stati, anche i più liberisti, intervengono per tamponare questa o quella banca o questa e quella istituzione finanziaria. Mentre i Governi si arrabattano chiedendosi dove è la cittadina del New Hampshire in cui nel luglio 1944 è stato definito il quadro con il quale, bene o male, si è operato sino ad ora, e mentre le sempre più numerose Cassandre si rotolano per terra e si strappano i capelli, poniamoci alcune domande terra-terra per chi lavora, risparmia ed opera in un contesto destinato a durare sino alla fine del 2009. I telegiornali non ci mostrano banchieri e bancari che si sfracellano dai piani alti dei grattacieli di Wall Street e della City o file di disoccupati in attesa di una zuppa alla mensa dei poveri (immagini tipiche dei cinegiornali del 1929-1931). Ciò dovrebbe indurre a pensare che la crisi è pesante ma non tale da schiacciare economia e finanza.
Innanzitutto, qualche cifra. Il vostro “chroniqueur” insegna economia e collabora a quotidiani; è a reddito medio-alto ma non appartiene certo alla “classe agiata” di weberiana memoria. Cura un proprio giardinetto di titoli mobiliari, dedicando a tale funzione circa un’ora al giorno (un’ora però molto intensa non come l’attenzione di molti trader on line che guardano i titoli che scorrono sullo schermo di Tv finanziarie e, al tempo stesso, preparano l’ossobuco o il sugo per la pasta). Non opera direttamente in proprio; lavora con un trader professionale con cui è al telefono ogni giorno (più o meno ad ora fissa). Dal primo gennaio ad oggi, la valorizzazione del giardinetto è diminuita sì, ma appena delL’8% circa (di cui un terzo negli ultimi 120 giorni), mentre nello stesso periodo le Borse mondiali hanno accusato una contrazione del 45% e l’obbligazionario internazionale una caduta del 4%. Non mi considero né particolarmente abile né specialmente fortunato. Non ho consigli o suggerimenti specifici da fornire. Ho, però, seguito alcune convinzioni e prassi che ritengo doveroso condividere con i lettori di “Libero Mercato”.
In primo luogo, ho considerato la crisi (che vedeva approssimarsi sin dall’inizio del 2006) grave ma non sistemica- ossia tale da provocare dolori e sofferenze ma non da mettere a repentaglio il sistema (ad onta di tutta la pubblicistica sulla fine del capitalismo che imperversa in questi giorni). Interessante notare che nell’ultimo fascicolo del Financial Analysts Journal . tre esperti di rango – Vinee Bhanall della Pacific Investiment Management , Robert Gingrich e Francis Longstaff della Università della California a Los Angeles, arrivano a conclusioni analoghe al termine di un’analisi rigorosamente quantitativa. Costruiscono un nuovo indicatore composito di rischio sulla base di un modello complesso che consente di estrarre informazioni da spezzoni di indici di liquidità e distinguono tre tipologie di rischio : rischio idiosincratrico a livello di singole aziende, rischio di settore (a livello di un comparto), e rischio sistemico per uno o più Paesi. Applicando il modello alla crisi in atto, ne derivano un indice di rischio sistematico pari al doppio di quello della crisi creditizia per il settore dell’auto (negli Usa ed in Europa) nel maggio 2005. Ciò vuole dire che la situazione merita senza dubbio di essere tenuta sotto controllo, che essa potrà avere ripercussioni pesanti sull’economia reale ma che siamo lontani dalla “fine della storia” del capitalismo e del libero mercato.
In secondo luogo, da quando (nel gennaio 2006) ho visto nuvolosi neri all’orizzonte, mi sono tenuto lontano da derivati esotici, oppure prima di avvicinarmi al loro profumo ho chiesto che fossero sottoposti ad analisi di rischio, tramite le forma relativamente più avanzata di “simulazione di Montecarlo” (quella chiamata in gergo “barrier shifting techniques, BAST). Se ne troverà una descrizione compiuta nel manuale di Emmanuel Gobet, della Universià di Grenoble, su metodi matematici per l’analisi finanziaria, in corso di stampa (l’uscita è prevista, in Francia e negli Usa, all’inizio del 2009).
In terso luogo, ho preso con le pinze le analisi tecniche (specialmente quelle che appaiono sulla stampa) e la qualità delle relazioni finanziarie pubblicate dalle aziende. In uno studio memorabile apparso un anno fa sul Journal of Economic Surveys (Vol. 2, N. 4, pp.786-826) , le analisi tecniche venivano divise in due categorie: quelle finalizzate a portare a casa utili nei mercati delle divise e dei futures (ma non nelle Borse dei singoli Paesi) e quelle finalizzate ai mercati speculativi interni. Quindi, per interpretarle occorre sapere a cosa è “finalizzata” ciascuna di loro. La rassegna ne analizza 95: in generale, hanno raggiunto i loro obiettivi sino all’inizio degli Anni 90 (prima dell’esplosione della net economy e, successivamente, della bolla immobiliare); sino a 15 anni fa, 56 analisi tecniche hanno delineato strategie di trading che si sono rivelate soddisfacenti, 20 hanno comportato perdite (per chi ha seguito i loro suggerimenti) e 19 hanno avuto esiti misti. In generale – è scritto nel saggio – “gran parte delle analisi tecniche hanno mostrato di essere afflitte da vari problemi” ed il “testing” della loro efficacia si rivela molto difficile.
Veniamo adesso alla qualità delle relazioni finanziarie pubblicate dalle aziende. Daniel Cohen ne ha esaminato un vasto campione ed ha pubblicato i risultati nel fascicolo di agosto dell’Asia-Pacific Journal of Accounting and Economics: c’è un nesso negativo tra il rischio totale associato all’impresa e la qualità delle relazioni finanziarie (in parole povere, si tende ad incipriare i numeri). Lo ribadiscono sue saggi nel fascicolo di ottobre nel Journal of Business, Finance & Accounting.
Sino a qui, cosa non fare. Per il cosa fare, la ricetta è semplice: lavorare duro, acquisire conoscenza delle aziende e di fondi comuni in cui si investe e diversificare il rischio tra azioni ed obbligazioni (di qualità)

SETTE GIORNI CON LODE PER JANÁCÉK AL MASSIMO DI PALERMO Il Domenicale 25 ottobre

“Da una casa di morti” di Leoš Janáček è approdata al Teatro Massimo di Palermo, in un allestimento esemplare co-prodotto la Welsh National Opera, Opera Nazionale del Galles (Regia: David Puuntey ; Scene e costumi: Maria Björson; Direzione musicale: Gabriele Ferro; un cast internazionale per i 23 ruoli). E’ stata in scena tutte le sere per una settimana (le ristrettezze finanziarie, e l’obiettivo del teatro palermitano di chiudere i bilanci in pareggio o leggero attivo, impongono queste scelte). Quindi, una recensione sarebbe fuor di luogo se avesse come scopo quello di invitare il potenziale pubblico ad assistere ad uno spettacolo raro (credo sia la terza volta che l’opera viene messa in scena in Italia – la prima nel 1963 alla Sagra Musicale Umbra e la seconda nel 1968 alla Scala) e prezioso (90 minuti di enorme tensione). Sarebbe anche fuori luogo accendere una polemica: il Massimo di Palermo – un tempo considerato ente dissestato ed ora tra i pochi esempi di risanamento – batte la grande Scala, che nel 2009 aveva intenzione di portare l’edizione presentata tre anni fa a Aix en Provence (Regia: Patrice Chéreau; Direzione Musicale: Pierre Boulez) ed ha ripiegato riproponendo nel 2009 Il Caso Makroupolos nell’allestimento di Luca Ronconi, visto, negli Anni 90, a Torino, Bologna e Napoli. La batte due volte in quanto quella palermitana è la “prima” esecuzione in Italia dell’opera come la scrisse e la volle Janáček; la terza stesura del lavoro era manoscritta quando morì e due suoi allievi la “imbellirono” (aggiungendo anche un finale quasi romantico); nel dopoguerra, ci sono state altre versioni più o meno manipolate. Soltanto nel 1974, grazie all’edizione critica, registrata da Sir Charles Mackerras con i Wiener Philarmoniker, si è giunti ad una partitura che, quasi identica alla terza stesura approntata da Janáček rifletteva il pensiero dell’autore: una musica del tutto innovativa, con echi della “Messa glagolitica”, costruita in 13 brevi episodi nettamente distinti e suddivisi in sezioni in cui vengono reiterati motivi semplici che non conoscono né combinazioni né sviluppi.
E’ più appropriata una riflessione sulla straordinaria edizione (i tre atti sono presentati come un blocco unico senza soluzione d’intervallo) di uno straordinario lavoro, l’ultimo composto dal 74enne Janáček, dopo tre opere fortemente sensuali in gran misura ispirate alla sua relazione con la giovane, e bellissima, Kamila Strösslová. “Da una casa di morti” è tratto dal romanzo di Dostoevskij in cui racconta i quattro passati (dai 24 ai 32 di età) ai lavori forzati in un campo di lavoro siberiano presso Omsk. La saggistica sulla trasposizione in opera lirica da parte di Janáček tende a mettere l’accento sull’inno alla libertà che traspare da un lavoro in cui, tuttavia, non c’è nessun coro analogo al “Fidelio” ed il senso della libertà è affidato essenzialmente al volo di un’aquila che, raccolta dai prigionieri ferita nella prima scena, nell’ultima, curata, riprende a volare nelle vie del cielo. Pone anche enfasi su come Janáček benché filo-slavo (e filo-russo) in terre che considerava occupate dagli austro-ungarici offre una rappresentazione premonitrice dei “gulag” e dei “lager”.
Meno noto, e probabilmente più rivelatore del pensiero di Janáček nell’ultima fase della propria esistenza umana è che prima di lui un musicista italiano- quel Giacomo Puccini di cui ricorre il 150nario dalla nascita – fosse stato tentato da mettere in musica il lavoro di Dostoevskij. Dal 1899, ossia da pochi anni dopo la pubblicazione della traduzione italiana del romanzo, Luigi Illica – rileva un saggio di Franco Pulcini- insistette con il compositore perché “Da una casa di morti” fosse quel teatro in musica del Novecento di marca italiana (che in effetti fu “Tosca”) . Puccini – afferma Pulcini - venne dissuaso dalle difficoltà di trasformare in azione scenica una narrazione – che, al pari di Un giorno nella vita di Ivan Denisovič di Solženicyn, non ha un vero e proprio sviluppo drammatico- ma rappresenta un campo di prigionia in gran parte tramite i racconti dei carcerati.. Ritengo che ci fosse qualcosa di più profondo: Puccini non era credente, le pagine di Dostoevskij (cristiano ortodosso molto sui generi) hanno un senso di pietà cristiana nei confronti di un’umanità di assassini, ladri, concussori e corruttori, carcerieri sadici, borghesi altezzosi e farisei (questo è il mondo che incontra, al bagno penale, un intellettuale di San Pietroburgo condannato alla Siberia per ragioni politiche ma restituito alla libertà dopo circa un anno). Tale senso è colto da Janáček (che usciva dall’amore senile con la Strösslová) forse più e meglio che da Dostoevskij. In un appunto trovato tra le sue carte, Janáček scrive:”penetro nell’animo dei prigionieri e vi trovo la scintilla di Dio”.
Il musicologo John Tyler ha scritto di “messaggio privo di compromessi”. E’ quello che ispira questa edizione ; chi la ha persa a Palermo può gustarla a Cardiff o nel resto della tournée in Europa continentale del Teatro d’Opera del Galles.

LE CLÉZIO E QUELLA GENERAZIONE TUAREG PERDUTA Il Domenicale 25 ottobre

Non so se sono cretini –come suggerito nel “Dom” del 18 ottobre- quei parrucconi dell’Accademia di Svezia che hanno deciso di conferire il Premio Nobel per la Letteratura per il 2008 a Jean-Marie Gustave Le Clézio. Non ho competenze minime in materia di critica letteraria. Non posso prendere posizione a riguardo che in base a sensazioni. Sottolineo sensazioni; molto più fragili delle impressioni. Sono stato un avido lettori dei “romanzi”, per così dire, di J-M G. Le Clézio, di cui sono di pochi anni più giovane. Li ho letti quando (dai 25 ai 40 anni di età) vivevo negli Stati Uniti e per lavoro (in Banca Mondiale) visitavo ogni anno una mezza dozzina di Paesi in via di sviluppo (prima nel Medio Oriente, poi nell’Estremo Oriente ed infine soprattutto in Africa). In ufficio, la mia lingua di lavoro era l’inglese. In viaggio era quella del luogo dove andavo. A casa, parlavo francese, poiché mia moglie è borgognona; è naturale che i figli siano allevati nella lingua materna. J-M G. Le Clézio era, con Romain Gary e con Françoise Sagan uno degli autori che leggevo con maggiore frequenza sia nelle serate Washingtoniane sia soprattutto nei lunghi viaggi in aereo.
Tutti e tre rispecchiavano molto l’epoca (dalla fine degli Anni 60 a quella degli Anni 70) in cui viveva una generazione nomade quale quella a cui appartenevo – allora non si parlava ancora di “generazione Tuareg”, ma alcuni di noi lo erano già. Credo che pochi libri come “Chien Blanc” di Romain Gary sia riuscito a comprendere il Sessantotto (tanto sulle due sponde dell’Atlantico quanto sulla costa Usa sul Pacifico) ed ad ironizzarvi con un acume che è mancato nelle rievocazioni fatte nell’anno in corso. Analogamente, “Des Blues sur l’Âme” e “Le Lit Défait” di Françoise Sagan afferrano il cambiamento di ruoli tra generi (in corso in quegli anni) meglio di molta altra letteratura.
J-M G. Le Clézio spiccava su tutti per due motivi: il linguaggio ed il nomadismo. Il linguaggio è elegantissimo – sin dal suo primo libro “Le Procès Verbal” - ma al tempo stesso intraducibile poiché costruito su frammenti, spesso tematici, in continuo compattamento e ricompattamento (ci sono analogie con il linguaggio di Joyce). Come nella musica di Henze o di Janáček, la scrittura può essere apprezzata unicamente da chi riesce ad entrare in quello che, pur nella raffinata semplicità, è un puzzle in moto perpetuo. Il nomadismo (il senso continuo del viaggio per molti aspetti errabondo) è, quindi, nel lessico ancor prima che nelle parvenze di vicende che caratterizzano soprattutto il trittico scritto a cavallo tra la fine degli Anni 60 e l’inizio degli Anni 70 (Terra Amata, L’Extase Matérielle, Le Livre des Fuites) mentre i lavori più recenti hanno intrecci veri e propri.
Leggo che dopo averlo ignorato per decenni, grandi editori italiani si apprezzano a lanciarlo sul nostro mercato. Faccio loro i migliori auguri. Credo, però, che gli esiti commerciali li deluderanno : Le Clézio non si riesce a tradurre e, soprattutto, la generazione Tuareg di oggi ha poco a nulla a che spartire con quella di circa 40 anni fa.

venerdì 24 ottobre 2008

“DA UNA CASA DI MORTI” ARRIVA IN ITALIA Il Velino 24 ottobre

A circa 70 anni dal termine della composizione (lasciata in certi dettagli incompleta dalla morta del compositore di Leoš Janáček ha la sua prima italiana. In effetti, l’opera è già stata messa in scena un paio di volte (ricordo rappresentazioni nel 1963 alla Sagra Umbra a Perugia e nel 1968 alla Scala) ma in edizioni rimaneggiate dagli allievi dell’autore i quali pensavano che il manoscritto (era la terza stesura) fosse troppo “ruvido” per essere definitivo. Lo abbellirono (aggiungendo un finale romanticheggiante). Soltanto nel 1974, l’edizione critica (ed la registrazione di Charles Mackerras con i Wiener Philarmoniker) ha mostrato che l’originale aveva una carica innovativa da anticipare, con la sua semplicità ed integrazione con temi “popolari”, sviluppi della seconda metà del Novecento. La “prima”italiana avrebbe dovuto avere luogo alla Scala con l’edizione presentata tre anni fa al Festival di Aix en Provence (Regia: Patrice Chéreau, direzione musicale Pierre Boulez). Il Massimo di Palermo ha battuto Milano (dove l’opera arriverà forse nel 2010) mettendo in scena un allestimento co-prodotto la Welsh National Opera, Opera Nazionale del Galles (Regia: David Puuntey ; Scene e costumi: Maria Björson; Direzione musicale: Gabriele Ferro; un cast internazionale per i 23 ruoli) che, dopo una settimana di repliche in Sicilia, sarà in tournée in Europa continentale ed in repertorio in Gran Bretagna. Gran parte della critica italiana era presente il 16 ottobre, un vero e proprio nel panorama del teatro in musica.
Al pari della versione Chéreau-Boulez , i tre anni sono eseguiti senza soluzione di continuità : 90 minuti di estrema tensione (in cui c’è solo, e per pochi minuti, una voce femminile ma si devono sfoggiare varie gradazioni di tenori). Tratta dal romanzo di Dostoevskij non ha una vicenda nel senso convenzionale. Si svolge in un campo di lavoro siberiano tra l’arrivo di un intellettuale (prigioniero politico) e, alcuni mesi dopo, il suo rilascio. In parallelo, i galeotti trovano un’aquila ferita che riacquista la libertà il giorno stesso dell’intellettuale. I prigionieri sono, in gran misura, assassini, ladri, stupratori – ossia un’accozzaglia di brutali delinquenti comuni a cui si giustappongono carcerieri sadici. In questo mondo, l’intellettuale riscopre un’umanità ed una “pietas” ignota anche a lui, dissidente politico nella confortevole San Pietroburgo zarista.
L’impianto scenico cupo – il carcere è scavato in una miniera ed in superficie gli ufficiali e la borghesia siberiana ostentando falsa commiserazione per i prigionieri – accentua, da un lato, il clima ossessiva ma il sapiente gioco delle luci evidenzia “le scintille di Dio” di cui Janáček parla negli appunti scritti prima di morire e che, in un lavoro che precorre i lager nazisti ed i gulag sovietici, dovrebbe essere il tema dominante.
Gabriele Ferro ha affrontato la difficile partitura scavandone nei dettagli e mostrandone la modernità. Impossibile ricordare i numerosi interpreti (i principali sono in gran misura noti in Italia unicamente agli specialisti). Di livello il coro filarmonico di Praga chiamato ad integrare gli organici palermitani.

SERVONO REGOLE PIU’ SEMPLICI PER LA NUOVA BRETTON WOODS Libero, 24 Ottobre

Il G20 (G8 allargato ai principali Paesi emergenti) in calendario nei pressi di Washington (si parla di Mount Vernon in Virginia) è l’inizio di un processo che porterà ad una nuova “Bretton Woods”, ossia di una conferenza internazionale che determini regole e strumenti per il superamento della crisi finanziaria in atto e , soprattutto, per il funzionamento dell’economia mondiale nei prossimo lustri? Sarà, quindi, analogo alla Conferenza di Savannah, dove si predispose l’ordine del giorno di quella di Bretton Woods?
. I commenti apparsi nelle interviste degli stessi proponenti della “nuova” Bretton Woods (ed ancor più negli editoriali di quotidiani e periodici) danno l’impressione che ci sta perdendo in un labirinto di banalità e che non si parta, quindi, con il piede giusto, e con le domande appropriate.
E’ banale sostenere che il mondo del 2008 non è come quello del 1944: non si tratta – ben lo sappiamo - di rimettere in sesto l’economia internazionale dopo una guerra mondiale e un trentennio di protezionismi, ma di fare fronte ad esigenze differenti da quelle di allora. Pure i protagonisti sono ovviamente cambiati. Occorre invece costruire un nuovo edificio per un mondo dove l’integrazione economica è molto forte (anche e soprattutto grazie alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione) ma ci sono profondi squilibri (il principale è quello della bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti) e sta ritornando, non solo in modo strisciante, il protezionismo.
Tuttavia, poco si è riflettuto su alcuni punti fondamentali, che banali non sono. In primo luogo, il sistema di Bretton Woods si basava su assunti validi per il mondo della ricostruzione ma non per quello della globalizzazione: nel 1944 la premessa era l’apertura progressiva del commercio internazionale da contemperare con una liberalizzazione più graduale dei movimenti di capitale e con la gestione collegiale dei tassi di cambio. Tale assunto non è più né valido né realistico. Su “Libero Mercato” abbiamo documentato il fallimento della Doha Development Agenda (Dda) per la liberalizzazione degli scambi commerciali ed, in parallelo, tanto la nascita di mercati comuni regionali quanto il proliferare d’accordi bilaterali. Al tempo stesso, è esplosa la libera circolazione dei capitali: su “Libero Mercato” del 18 ottobre abbiamo riportato le cifre strabilianti relative al solo mercato dei derivati. Ripensare gli assunti è il tema di fondo del saggio di Raghuram G. Rajan dell’Università di Chicago “The Future of the IMF and the World Bank” pubblicato negli atti dell’ultima conferenza scientifica dell’American Economic Association: poche pagine (pp.110-115) che sherpas e barracuda-esperti della nuova “Bretton Woods” dovrebbero meditare con attenzione. Dovrebbero anche leggere un lavoro interno del servizio studi della Bank of England (Bank of England Working Paper n. 349) su come continuare a pensare ad un Fondo monetario modellato su una cassa di risparmio (come lo è ancora) non giovi a nessuno e faccia più danni che altro.
Il saggio di Rajan include un punto non affatto banale: le istituzioni finanziarie internazionali devono lavorare all’unisono con Governi che possono non solo dare pareri molto validi ma sostenerli con meccanismi di controllo del rischio e di assicurazione. E’ un punto che porta a confutare un’altra banalità che si ascolta e si legge con frequenza: quella secondo cui la crisi sarebbe, in gran misura, il risultato di inadeguata regolazione, specialmente nel settore dei mutui edilizi. Occorre chiedersi se non sia stato invece il groviglio di regolazione – pochi comparti come quello dei mutui negli Usa sono soggetti a regolazione minuta al livello dei comuni, delle contee, dei singoli Stati dell’Unione e federale – a facilitare le elusioni e gli abusi. Il proverbio “il troppo stroppia” è quanto mai valido. Lo dice, tra l’altro, un lavoro dell’University of California, della Brown University e della Deutsche Bank (Nber Working Paper n. W13798): il sistema implicito in atto (chiamato colloquialmente Bretton Woods II) ha fatto da cinghia di trasmissione tramite il disavanzo dei conti Usa con il resto del mondo. Tale disavanzo, però, -rileva acutamente Paul Wachtel della Stern Business School della New York Università- ha di fatto preso il posto del nesso dollaro Usa-oro definito nel 1944 a Bretton Woods ; se non si individua un percorso per il riassetto degli squilibri, si rischia di annegare in una palude di banalità tale da aggravare le prospettive non migliorarle. All’International Regolatory Conference 2008 organizzata a Berlino dal 16 al 18 novembre (a cui sono stato invitato) mi auguro che questi punti siano fatti con forza. Ossia dalla nuova Bretton Woods deve uscire una regolazione più efficace, perchè più semplice ed una strada condivisa per il riassetto degli squilibri. L’Italia non può porsi come esempio perché, in materia di regolazione, ha molto da smantellare, da fondere e soprattutto da semplificare. Ha tanto, davvero tanto, da imparare.

martedì 21 ottobre 2008

TUTTI GLI ERRORI ANCHE QUELLI DEL "CORSERA" SULLA VECCHIA BRETTON WOODS, L'Occidentale del 21 Ottobre

Mai come oggi si parla di una “nuova Bretton Woods” senza avere le idee chiare sulla vecchia. Allora a riunirsi furono gli esperti internazionali e si parlò di “diplomazia del dollaro e della sterlina”. Stavolta saranno gli Stati e tra i protagonisti ci sarà anche l’Euro. Non sono pignolerie da erudito ma un benvenuto esercizio storico e filologico.
Mai come in questi giorni si parla, e quel che è peggio, si scrive di una “nuova Bretton Woods” (le cui base dovrebbero essere poste, tra circa un mese, da un G8 allargato ai principali Paesi emergenti) senza avere idee chiare sulla vecchia Bretton Woods, ossia su quella creata mentre stava per terminare la Seconda Guerra mondiale e le cui principali istituzioni finanziarie ed economiche sono ancora in piedi. Ad esempio, lo storico dell’economia Giulio Sapelli inizia un esteso commento sul “Corriere della Sera” del 20 ottobre affermando che “nel caldo luglio del 1944” , “le Nazioni Unite convocarono a Bretton Woods” la conferenza. Imprecisioni ancora maggiori in altri editoriali, frutto della penna di giornalisti che forse non si sono neanche presi la briga di verificare date e fatti sui principali siti Internet.
In primo luogo, quando venne tenuta la conferenza di Bretton Woods (1-22 luglio 1944), le Nazioni Unite erano ancora nel grembo degli Dei ; la conferenza istitutiva dell’Onu si svolse a San Francisco nel 1945 e la Carta istitutiva entrò in vigore il 24 ottobre dello stesso anno, dopo la ratifica da parte della Cina, degli Stati Uniti, della Francia, del Regno Unito, dell’Urss e di altri Stati che rappresentavano la maggioranza dei 50 rappresentati nella città della California. A Bretton Woods, invece, si erano dati convegno esperti di 44 Stati in base alla regola della “not committally representation”, ossia “non impegnavano” gli Stati d’origine: Lord Keynes, ad esempio, guidava una delegazione di britannici ma non rappresentava il Governo di Sua Maestà britannica. Gli esperti provenienti dall’Urss si sfilarono il giorno dopo la conferenza. E via discorrendo.
Non sono pignolerie da erudito (chi scrive ha lavorato per circa 20 anni per le istituzioni di Bretton Woods). Sottolineano che il G8 (allargato) è alla ricerca di qualcosa di profondamente differente: un accordo al massimo livello tra Capi di Stato e di Governo non un’intesa tra esperti. A Bretton Woods e soprattutto nella sua preparazione – è ancora valido il libro magistrale di Richard Gardner, Ambasciatore Usa in Italia nella seconda metà degli anni Settanta, “The Sterling Dollar Diplomacy” (Oxford University Press 1956) – il gioco venne retto da solo due aree: quella del dollaro e quella della sterlina, ossia gli Usa e i loro alleati più prossimi da un lato, e la Gran Bretagna e il Commenwealth dall’altro. La partecipazione degli altri “vincitori” (in primo luogo, quella dell’Unione Sovietica) fu marginale. Oggi si guarda invece ai Paesi emergenti (ed ai loro fondi sovrani) come strumento di riequilibrio.
Altro errore nei commenti di questi giorni è che il tema centrale di Bretton Woods fosse l’ordine finanziario internazionale e la liberalizzazione della circolazione dei movimenti di capitale. Nulla di più errato: basta leggere gli atti della conferenza (e gli statuti delle tre istituzioni che da essa sarebbero dovute nascere – in pratica ne sorsero solamente due) per toccare con mano che l’obiettivo era l’apertura dei commerci specialmente di manufatti e di semi-manufatti. Per raggiungere tale obiettivo, gli accordi di Bretton Woods creavano un sistema di cambi gestiti collegialmente (non fissi, come si scrive erroneamente) e una cassa di risparmio mondiale (il Fondo monetario) per concedere prestiti a breve termine, e a condizioni di mercato, a Paesi temporaneamente in difficoltà.
E’ fin troppo ovvio che il XXI secolo della globalizzazione (finanziaria, ancora più che commerciale) è molto differente dagli anni Cinquanta della Ricostruzione. Non solo la liberalizzazione dei mercati finanziari ha preso, di diversi multipli, il sopravvento su quello dell’apertura dei mercati commerciali (si veda il fallimento della "Doha Development Agenda"), il sistema di cambi gestiti collegialmente è crollato nel 1971-73 quando è stato reciso il nesso tra il dollaro Usa (il perno del sistema) e l’oro.
Tuttavia, la confusione su cose fosse la “vecchia” Bretton Woods non permette di vedere la lezione principale che oggi se ne può trarre. Allora – mi riferisco ancora allo splendido studio di Richard Gardner – il motore dell’assetto fu “la diplomazia del dollaro e della sterlina”. Oggi, al di là degli aspetti cerimoniali, è essenziale una “diplomazia del dollaro e dell’euro” che tracci il nuovo assetto e lo piloti. Lo dice, implicitamente, anche “un falco” come John B. Taylor, Vice Segretario al Tesoro Usa dal 2001 al 2005, nel suo ultimo libro “Global Financial Warriors”, Norton & Co. 2007.
E’ fattibile? Oggi più di quanto non lo fosse sei mesi fa. Nella gestione della crisi finanziaria internazionale, l’Europa ha mostrato una vitalità inattesa. Lo scrive tutta la stampa Usa: si guardi, ad esempio, all’inchiesta condotta da Nelson D. Schwartz sul “New York Times”. Berlusconi e Tremonti, quindi, hanno ottime carte da giocare.

lunedì 20 ottobre 2008

ALITALIA: LA CAI PERDE ENTUSIASMO L'Occidentale 20 ottobre

Quale è il nesso tra l’ultima opera di Leoš Janáček , tratta da un romanzo autobiografico di Fëdor Michajlović Dostoeskij ed intitolata l’appunto “Da una casa di morti”, e l’ormai annosa vicenda della boccheggiante Alitalia? Per semplificare potrei dire che il nesso sono io – unitamente a tanti altri passeggeri, molti dei quali andati a Palermo per la “prima” italiana della versione critica del lavoro la sera del 16 ottobre. In effetti, conoscendo ormai l’ex-compagnia di bandiera, mi ero prenotato su un altro vettore per rientrare a Roma il pomeriggio del 17 ottobre. Numerosi critici musicali, melofili e passeggeri in generale, prenotati sul volo AZ 1792 delle 15.10 sono rimasti in terra; il personale viaggiante ha aderito ad uno sciopero a cui (secondo le stime) ha preso parte meno del 5% del personale delle altre compagnie aeronautiche in arrivo od in partenza all’aeroporto Falcone Borsellino a Punta Raisi. Un micro-segnale , probabilmente. Ma si apprende più guardando le singole foglie che cercando di cogliere il valore ed il significato di un intero albero.
L’indicazione è eloquente: le vecchie abitudini (che hanno portato al collasso di un’azienda i cui libri sarebbero dovuti finire in tribunale alcuni fa) sono dure a morire. Douglas Cecil North ha ottenuto, nel 1993, il Premio Nobel per l’Economia specialmente per un saggio in cui dimostra che all’approssimarsi di nuove regole (di comportamento), le vecchie s’irrigidiscono in autodifesa. I portavoce di Alitalia (se esistono ancora) diranno che si è trattato di qualche caso isolato. Nelle condizioni dell’azienda ciascuno di questi casi può deflagrare come una bomba ad alto potenziale.
Infatti, come preannunciato su L’Occidentale del 13 ottobre, la scadenza del 15 ottobre è passata senza che il piano industriale e la proposta irrevocabile d’acquisto della (ricostituenda) Cai arrivasse al commissario Prof. Augusto Fantozzi. L’assemblea della Cai è stata convocata per il 28 ottobre: alcuni soci della compagine iniziale (il fondo Clessidra) pare che non parteciperanno proprio mentre sembra sia in arrivo una colorita e composita compagine di nuovi aderenti (ivi compreso il re della distribuzione ortofrutticola Antonio Orsello che avrebbe l’ambizione di sviluppare un aeroporto internazionale ad Albenga, ossia a pochi passi dal Cristoforo Colombo di Genova). Ora, il piano industriale e la proposta d’acquisto sarebbero pronti per il primo dicembre sempre che la variopinta “friendly company” riesca a redigerlo e concordarlo.
L’Occidentale ha sottolineato come la crisi dei mercati finanziari stia rendendo tutto più complicato: alcuni soci vorrebbero versare solo il 10% del capitale (tenendo il resto “on call”, ossia da erogare quando c’è l’esigenza) ma l’azienda ha urgente bisogno di cassa. Ove la situazione non fosse abbastanza intricata, i sindacati dei piloti, Anpc e Up, hanno alzato le richieste: ancora una volta siamo al ripetersi di un film, già visto, poiché l’universo mondo era convinto che si fosse raggiunto un accordo, mentre proprio il 20 ottobre alle 9 si riapre il tavolo. La Cisl è tanto irritata che i suoi leader non fanno mistero di volere mandare al diavolo i comandanti-dirigenti, i quali, alle richieste pecuniarie attinenti ai loro contratti, avrebbero aggiunto quella che la Cai dovrebbe avere un “nucleo duro” stabile, ed italiano, pari al 30-40% dell’azionariato (seguendo, in breve, quelle che sono state le prassi Iri i cui esiti sono sotto gli occhi tutti).
Altro fascicolo aperto è quello della valorizzazione degli slot Alitalia in territorio nazionale ed altrove: le stime variano tra i 400 ed i 700 milioni e nella situazione attuale dei mercati finanziari è difficile giungere ad una cifra davvero affidabile. Tale cifra, però, è al tempo stesso un tassello essenziale e del piano industriale e della proposta definitiva ed irrevocabile della Cai al Commissario.
A Parigi, si dice, che Jean-Cyril Spinetta se la rida: tutto ciò avrebbe detto assomiglia a “Les Grande Manoevres”, l’ultimo indimenticabile film di René Clair con Gérard Philippe ed una giovanissima Brigitte Bardot. Ossia si tratterebbe di una “pochade” se non fossero in gioco migliaia di posti di lavoro e un patrimonio di potenziale industriale. A Colonia non si parla molto, ma si opera: Lufthansa ha annunciato 8 collegamenti da Malpensa per grandi città europee (Barcellona, Parigi, Bruxelles, Bucarest, Madrid, Lisbona e Londra) senza scali in Germania e con tariffe a partire da 99 euro (tutto incluso). Quanto più AirFrance-Klm e Lufthansa si organizzano tanto meno attraente è una partecipazione ad una Cai che oggi pare meni “friendly” di quanto non fosse ( o non apparisse) all’inizio di settembre.
Il tempo è galantuomo. Mi auguro (da italiano) che mi provi in torto. E che Alitalia e Cai non finiscano “in una casa di morti”.

IL “RIGOLETTO” PARMIGIANO ED IL TEATRO DI REGIA, Il Velino 20 ottobre

Un sito web dei melomani, un po’ bizzarri, si è scagliato nei confronti del Festival Verdi che termina il 28 ottobre a Parma per la convenzionalità delle regie. Molti strali sono stati diretti neri confronti dell’edizione di “Rigoletto” poiché il Festival ha riproposto (probabilmente anche per ragioni di economia) un allestimento più che ventennale di Pierluigi Samaritani (rimesso a nuovo da Alessandro Ciammarughi), con la regia di uno dei migliori allievi di Samaritani (Stefano Vizioli) e con protagonista l’ultrasettantenne Leo Nucci (ai cantanti, come alle signore, non si chiede mai l’età). Il pregio dell’allestimento iper-tradizionale di Samaritani (ritoccato ma non manomesso di Ciammarughi e Vizioli) è di renderla credibile con scene e costumi che ricordano i quadri d’epoca. Commuovere parte del pubblico molto di più di quanto facciano allestimenti che vogliono essere a tutti i costi innovativi:, alla prima rappresentazione, il momento più drammatico – il duetto “Vendetta, tremenda vendetta!” con cui termina il secondo atto – è stato, a grande richiesta, bissato da Leo Nucci e Desirée Rancatore.
Il pubblico pagante – a differenza degli pseudocritici – vanno a teatro per averne emozioni e per divertirsi non per essere campioni per studi socio-psicologici di registi dalle tendenze un po’ distorte. Il “Corriere della Sera” del 15 ottobre riferiva di come a Lipsia un "Fliegender Holländer" di Wagner è stato violentemente contestato dal pubblico, con abbandono della sala, annullamento delle repliche successive, abbonamento disdetti ecc., per via delle intollerabili scempiaggini inventatesi dal ventisettenne regista "provocatore". Al Festival di Bayreuth, si è visto un "Meistersinger" in cui - al di là della trasposizione inutile e assurda ai nostri tempi ormai divenuta consuetudine—nel primo atto, la pre-prova di canto si trasforma in un impegno del protagonista a comporre un "puzzle" su una grande lavagna (magnetica ?) in Chiesa , mentre un altro dei principali personaggi dell’opera ne segnala via via gli errori nella successione appositiva dei pezzi. Inoltre, prima della gara di canto finale in cui il protagonista stravince col meraviglioso "Morgentlich leuchtend im rosigen Schein.....", il suo avversario, anzichè impappinarsi musicalmente sullo stesso testo, viene trasformato in un artista figurativo ipermoderno e d'avanguardia (proprio lui che in Wagner è l'incarnazione della tradizione musicale e del conservatorismo ! ) , per cui come propria prova nella competizione fa entrare in scena una specie di barella ospedaliera coperta da un mucchio di sabbia, e la sua prestazione per vincere la mano della ragazza consiste nello scoprire gradualmente, grattando via a mani nude la sabbia, un uomo sdraiato che emerge ma completamente nudo , con gli attributi al vento, e viene subito raggiunto poi da una parimenti nuda fanciulla che se lo abbraccia .
A Berlino, alla Staatsoper di Unter den Linden, in "Evgheni Oneghin" di Ciakovsky in scena si spogliano tutti ed in aggiunta hanno la faccia impiastricciata come ridicoli mascheroni da circo. I loro movimenti principali consistono nel far roteare in continuazione, facendola appoggiare su un solo piede, delle sedie impagliate. Alle proteste del pubblico, il grande Daniel Barenboim , quando si è ripresentato per dare vita alla seconda parte , si è rivolto al pubblico, ha chiesto silenzio, e poi ha detto : “una cosa sola vi posso assicurare, e cioè che la seconda parte non vi apparirà migliore della prima.”
Pare che parte di queste lepidezze verranno importate in Italia nel prossimo futuro: comprensibile che, a fronte di tanta e tale stoltezza, il Fus venga tagliato. Ma torniamo all’ipertradizionale “Rigoletto” di Parma. Leo Nucci, con sulle spalle oltre 400 repliche di “Rigoletto” nei cinque continenti, è ancora un grandissimo interprete del ruolo. La Rancatore è una Gilda belcantistica.. Francesco Demuro affronta con destrezza il ruolo del Duca; il volume crescerà e la voce diventerà più spessa con il passare degli anni. Non è stato aiutato dalla concertazione, un pò concitata di Massimo Zanetti.

DALLE ECO-IMPOSIZIONI CI SALVERA’ IL PROGRESSO , Il Tempo 20 ottobre

Il dibattito sulle misure europee in materia climatico-ambientale deve essere posto in prospettiva. In primo luogo, quando furono concordati gli obiettivi quantitativi del “pacchetto clima” non si era sulle soglie di una recessione europea che verrebbe aggravata dall’aumento dei costi di produzione. Lo sottolinea “The Economist” in edicola: in commento afferma che l’Italia dice ciò che gli altri pensano e spesso già fanno (alla chetichella). In secondo luogo, mentre i costi sono più o meno noti (tra i 10 ed i 20 miliardi l’anno per quanto attiene all’industria italiana, secondo le stime della stessa Commissione Europa), troppo poco lavoro è stato fatto per quantizzare i benefici e definire così una politica ambientale sostenibile.
Tutti ricorderanno le profezie del Club di Roma all’inizio degli Anni 70: se non fossimo tornati a zappare l’orto ed ad andare in bicicletta, le risorse si sarebbero esaurite prima della fine del secolo. Un libro di successo in Francia - “L’enfermement planetarie” di André Lebeau- ha spostato la fine del mondo di qualche decennio (ove non riducessimo ulteriormente la natalità e non tagliassimo drasticamente i nostri consumi).
Il modello econometrico adottato dall’Unctad (l’agenzia Onu per il commercio e lo sviluppo) smentisce queste prospettive. Lo ha elaborato un economista giapponese – Akira Onishi-, il suo acronimo è Fugi (Future of Global Interdependence), e vi si tiene esplicitamente conto dei benefici ambientali connessi al miglioramento della qualità della vita e dei loro effetti dinamici: nell’assunto che, per ragioni tecnologiche, si possa fare poco o nulla in tema di riduzione di emissioni di CO2 e di fabbisogno di energia combustibile prima del 2020. secondo Onishi (che si è detto disponibile a rispondere in prima persona ai lettori di Il Tempo- il suo mail è akira.onishi@palette.plala.or.jp) , il progresso tecnologico indurrà ad una sempre più marcata tutela ambientale “implicita” (specialmente in tema di rischi di riscaldamento climatico) e le economie mature (come Italia e Giappone) potranno riprendere a crescere a tassi sul 2,5% (molto più elevati quelli delle economie emergenti).
Non mancano metodi, tecniche e procedure di stima di benefici ambientali. In Italia, da decenni esiste una scuola che ha come punti di riferimento le Università di Pavia e di Padova. Il vostro “chroniqueur” ne ha trattato ampiamente in saggi usciti negli Anni 80 sulla rivista scientifica “Public Choice” ed in un libro recente sulla valutazione dell’incertezza. Purtroppo, in questo campo, i servizi della Commissione di Bruxelles hanno fatto poca strada e si baloccano con strumentazione obsoleta (come il “logframe” e “l’albero dei problemi”). Quando negli Anni 90 si sono rivolti ad uno stuolo di consulenti ed a sei saggi (ero uno di loro) per definire metodi e procedure di analisi costi benefici, hanno preferito pagare puntualmente ma non incorporare nessuno degli ammodernamenti metodologici proposti. “Chacun à song out” (“Ciascuno a suo modo”), come si dice a Bruxelles.

sabato 18 ottobre 2008

CHE FARE DOPO IL PIANO PAULSON ED IL G15 EUROPEO? Libero 18 ottobre

Il “G 7” tenuto a Washington il 10 ottobre, nell’ambito dell’assemblea annuale del Fondo monetario e della Banca mondiale, ed il “G 15” (dei Ministri economici e finanziari dei Paesi dell’Unione monetaria europea) sono stati in grado di fare passo avanti superiore alle previsione sulla via della soluzione dei problemi più immediati (il tracollo dei valori mobiliari) risultanti dalla crisi finanziaria esplosa nell’estate 2007, ma prevista da molti sin dal 2006 e che probabilmente ci accompagnerà sino al 2010 (per l’edilizia residenziale in Europa le stime parlano del 2012).
Tuttavia molto resta ancora da fare. E forse i risultati sarebbero stati maggiori, e soprattutto, non di breve periodo, se si fossero presi alcuni accorgimenti di stile e di metodo. Da un lato, sotto il profilo dello stile (ma in quest’area le buone maniere si accavallano con il medodo, i vari “G” dovrebbero essere tenuti alla chetichella, di nascosto (come quello in video conferenza organizzato a fine settembre) ed i loro risultati dovrebbero essere annunciati solamente al termine della riunione ed unicamente se concreti. E’ un assunto basilare della teoria economica dell’informazione; un’analisi recente di due economisti dell’Università di Chicago, Matthew Gentzkow e Jesse Shapiro, lo rafforza nel recente lavoro “Competition and Truth in the Market for News” (Chicago GSB Research Paper n. 16, 2008). Da un altro, una lettura attenta dei comunicati mostra che il programma in cinque punti varato dal G7 è una promessa di un miglior coordinamento (tra i Ministeri economici e le Banche centrali dei 7) ma non contiene nessun dettaglio puntuale su cosa fare e come farlo. Non molto differente il comunicato del “G 15” dell’area dell’euro, dove tuttavia si avvertono differenze profonde tra le posizioni di Stati la cui finanza pubblica è in condizione relativamente florida e quelle invece di chi (come Francia ed Italia) ha conti piuttosto in bilico: i primi temono che un’azione comune (ed ancora di più un fondo comune) faccia sì, nella migliore delle ipotesi, che le formiche finiscano con il sussidiare le cicale e, nella peggiore, faccia saltare l’unione monetaria. Il coordinamento, in effetti, c’è stato ma dopo una prima ondata d’entusiasmo, i mercato non sembrano essere stati convinti.
Una ragione risiede probabilmente nel fatto che sia il “G7” sia il “G 15” hannp omesso di fare una distinzione essenziale: quella tra misure urgenti di breve, anzi di brevissimo, periodo e tra misure strutturali a più lungo termine. Le prime sono la premessa per le seconde: è futile chiamare architetti per programmare come ricostruire una casa in fiamme (ossia definire una nuova regolazione) se, prima, non si chiamano i pompieri per spegnere l’incendio.
Dalla documentazione a disposizione dell’assemblea annuale del Fondo monetario e della Banca mondiale, si possono trarre alcuni dati interessanti per aiutare a definire i provvedimenti più urgenti: a) il mercato dei derivati ha adesso un valore facciale nominale pari a 600 milioni di miliardi di dollari (circa 11 volte la produzione mondiale di beni e servizi) mentre dieci anni fa era 75 milioni di miliardi di dollari (due volte e mezzo l’output mondiale) – nessuno ha idea di quale sia il valore effettivo, ossia di quale sia la percentuale della spazzatura e di come si suddivide la tra le varie tipologie di derivati ; b) un tasso di crescita così rapido è stato agevolato da un’integrazione dei mercati finanziari (lo stock di attività finanziarie straniere nei portafogli dei Paesi Ocse è raddoppiato negli ultimi dieci anni) che ha superato anche le ipotesi più ottimiste; c) la deregolamentazione ha avuto un ruolo inferiore a quello di cui si parla oggi su quotidiani e periodici perché gran parte dei nuovi strumenti derivati sono stati studiati proprio per aggirare le regole in vigore (prima che, negli Usa, l’Amministrazione Clinton le smantellasse; d) dalle due parti dell’Atlantico, i politici (quale fosse il colore dei differenti Governi) hanno incoraggiato il processo nella convinzione (diffusa peraltro anche nel mondo accademico) secondo una finanza dinamica avrebbe trainato l’economia reale (specialmente in aree dove i costi di produzione nel manifatturiero incidono pesantemente sulla competitività e la concorrenza dei Paesi emergenti morde di più). Nell’assuntoi che questa diagnosi è corretta, per rimettere in gareggiata il sistema ci vorrà, senza dubbio, tempo ed una nuova regolazione.
Nel frattempo, però, occorre evitarne il collasso. Il G7 ed il G15 hanno tentato tre strategie simultanee e parallele: a) sbloccare il mercato del credito (specialmente l’interbancario paralizzato da mancanza di fiducia tra gli istituti in quanto nessuno sa quanta e quale è la spazzatura nelle casseforti degli altri); b) agevolare la ricapitalizzazione delle banche (un documento del Fondo sostiene che sono necessari 675 milioni di dollari per impedire che la riduzione del credito abbia effetti sull’economia reale); d) impedire il propagarsi di una recessione (tanto più fattibile quanto più le quotazioni dei prodotti di base, travolte pure esse dalla crisi finanziaria, stanno calando rapidamente. E’ mancato , però, il parallelismo essenziale per dare ad esse efficacia rafforzandosi a vicenda Il “piano Paulson” riguarda i primi due di questi punti ma non tocca il terzo nella convinzione, diffusa e radicata negli Usa, che i fondamentali dell’economia americana vanno nella direzione giusta. Le misure europee hanno ingenerato il legittimo dubbio che si metta a repentaglio il “patto di stabilità” e con esso l’unione monetaria. Oggi paghiamo lo scotto di avere posto eccessivamente l’accento su parametri (quelli di Maastricht prima e del patto di stabilità poi) che lo stesso Prodi ha chiamato “stupidi”.
L’onere è in gran misura negli Stati Uniti non perché là la crisi è scoppiata ma perché l’Ue (e la stessa Unione monetaria) non sembra in grado di dare una risposta coordinata ed incisiva anche poiché una risposta che vada oltre i comunicati incoraggianti e le pacche sulle spalle ingenera dubbi sul futuro dell’unione monetaria. Il TARP (Trouble Asset Relief Program- Programma di sollievo per le attività finanziarie in difficoltà, il nome tecnico-legislativo del piano Paulson) deve essere, al più presto, integrato con una serie di misure interne (agli Usa), alcune delle quali in vario stadio di progettazione od anche realizzazione. In primo luogo, occorre ricapitalizzare la FDIC , l’istituto federale di assicurazione di conti correnti bancari, al fine di evitare panico e corse allo sportello. In secondo luogo, urge stabilire la regola (insolita negli Usa) che i titoli saranno acquistati da Pantalone soltanto alla scadenza (tutti i derivati hanno scadenze di qualche sorta) per non favorire bracconieri e cacciatori di frodo (i quali si annidano ogni volta scoppia una crisi finanziaria); ciò vuol dire, in termini tecnici, abbandonare la prassi dell’”opzione all’americana” per seguire quella dell’”opzione all’europea”. Attenzione: nel Vecchio Continente pochi conoscono questa differenza essenziale tra “opzioni americane” ed “opzioni europee” – due dei più diffusi quotidiani finanziari hanno fatto in questi giorni una grande confusione in materia; ancora peggiore ovviamente quella dei telecronisti economico-finanziari in video. In terzo luogo, si devono definire procedure d’asta per gli acquisti di titoli “troubled”; è l’unico modo per farne emergere, dall’ombra, un’idea, pur se approssimativa, della valorizzazione, ma il “piano Paulson” è tutt’altro che chiaro in materia. In quarto luogo, la gestione dei titoli acquistati nell’ambito del TARP non deve essere fatta dal Tesoro o da sue agenzie ma tramite gestori (incaricati in seguito ad asta e con regole stringenti in materia di conflitti d’interesse). In quinto luogo, è essenziale evitare il tracollo dell’immobiliare – la molla che ha scatenato la crisi, ponendo una moratoria temporanea (un paio d’anni) sulle sanzioni pecuniarie ed agli sfatti per i ritardi nei pagamenti dei ratei dei mutui. In sesto luogo, varare un programma d’assunzioni (se del caso a termine) per fare sì che il Tesoro e l’Agenzia per il TARP abbiamo il personale necessario per trattare le numerose crisi e possibili procedure fallimentari (si parla di un migliaio) di banche locali e re-istituire la Resolution Trust Corporation per facilitare transazioni e liquidazioni in caso di fallimenti bancari (specialmente delle banche locali).
Dal canto suo, l’Europa, quanto meno quella dell’unione monetaria, deve almeno estendere agli altri derivati la prassi dell’”opzione all’europea” (con esercizio del diritto di esercizio, e di compravendita, unicamente alla scadenza) ed applicarla a qualsiasi tipologia di acquisto di derivati. In terzo luogo, si devono definire procedure europee d’asta per gli acquisti di titoli che sembrano marci (e probabilmente lo sono); se ciascun Paese dell’area dell’euro segue “proprie” procedure in questa materia, sarebbe l’inizio di un (più o meno lungo) addio all’euro. In quarto luogo, la gestione dei titoli così acquistati non deve essere fatta dal Tesoro o da sue agenzie (come si vocifera) ma tramite gestori (incaricati in seguito ad asta e con regole stringenti in materia di conflitti d’interesse). In quinto luogo, la vigilanza deve essere più rigorosa e più semplice (il rigore si coniuga bene con la semplicità): unicamente nell’area dell’euro ci sono 40 autorità nazionali di vigilanza che si accavallano con quelle europee – i doppioni fanno sempre confusione. Noi in Italia non diamo certo il buon esempio. Dovremmo darci rapidamente una risistemata, chiudendo doppioni inutili ove non dannosi. Anche se ciò comporta l’abolizione di poltrone e prebende.
Soprattutto, però, è essenziale una politica di crescita. Pure se ciò vuole dire sospendere il patto di stabilità od interpretarlo in modo flessibile. Sino a quando “à nuttata è pessata”.

LE FRODI ALIMENTARI CRESCONO DI PARI PASSO ALL’AUMENTO DEI PREZZI Il Tempo del 18 ottobre

Non è solamente la Coldiretti a sottolineare come le frodi alimentari, oltre a comportare danni alla salute, incidano pesantemente sui portafogli delle famiglie. L’organizzazione dei coltivatori avverte che quanto più i prezzi aumentano tanto più cresce il rischio delle frodi alimentari. Nei primi otto mesi del 2008 è praticamente raddoppiato, rispetto allo stesso periodo del triennio precedente (+93%) il valore dei sequestri effettuati dai Carabinieri dei Nas di cibi e bevande sofisticate. Una conferma, secondo l'organizzazione, "dell'accresciuto interesse della criminalita' nel settore dell'alimentazione per effetto del forte aumento dei prezzi". L’analisi della Coldiretti sostiene che gli alimentari, costeranno nel 2008 alle famiglie italiane 8 miliardi di euro in piu' rispetto agli importi spesi lo scorso anno: "Si tratta - spiega l'organizzazione - di un volume di affari appetibile per la malavita, che trova nella contraffazione degli alimenti, anche attraverso la sostituzione degli ingredienti tradizionali con prodotti di bassa qualità, una nuova e interessante opportunità, con rischi per le imprese e i consumatori". Un crimine che si fonderebbe soprattutto sull'inganno nei confronti di quanti, per la ridotta capacità di spesa, sono costretti a rivolgersi all'acquisto di alimenti a basso costo, in particolare famiglie numerose e pensionati. "L'aumento dei prezzi incide particolarmente sugli anziani e sulle coppie con tre o più figli, che destinano ben il 21,9 % della spesa complessiva agli alimentari. Un dato nettamente superiore rispetto alla media nazionale del 18%". Tra i prodotti maggiormente presi di mira per le frodi, molti tra quelli che abitualmente 'popolano' la tavola degli italiani: carne, latte, uova, formaggi e bevande. Per le famiglie a reddito più elevato è invece in corso una “flight to quality” (non differente da quella che avviene sui mercati finanziari): si spende di più per essere certi della qualità.
A conclusioni in parte analoghe era arrivata alcuni mesi fa un’economista italiana, che lavora negli Stati Uniti, Monica Giulietti, dove fa parte del gruppo di strategia economica della Aston University . Nel suo saggio “Buyer and Seller Power in Grocery Retailing . Evidence from Italy” (“Il potere di chi acquista e di chi vende nel mercato alimentare: il caso Italia”, pubblicato, in traduzione spagnola, nella Revista de Economía del Rosario, Vol. 10, No. 2, Dicembre 2007) , Monica Giulietti utilizza dati dal 1989 alla metà degli anni Novanta disaggregandoli per categoria di venditore al dettaglio, di prodotto, di concentrazione orizzontale delle aziende, di elementi di costo e di utile di impresa. L’analisi – si potrà dire- riguarda il passato ed non attiene direttamente alle frodi. La strumentazione econometrica utilizzata mostra come, già allora (tra 20 e dieci anni fa) c’era una forte interdipendenza nella determinazione dei prezzi (al dettaglio) e molti lati oscuri in cui meglio di potevano annidare le frodi. Il quadro è stato complicato dal federalismo “pasticcione” con cui è state fatta la riforma del titolo V della Costituzione dal Governo di sinistra nel 2001 pensando di poterne avere vantaggi elettorali. Raddrizzare il disordine del federalismo pasticcione è passo essenziale per fare sì che in questo campo tutte le istituzioni funzionino.

venerdì 17 ottobre 2008

RIPRENDE LA CORSA IL “CORSARO” DI VERDI, Il Velino 17 ottobre

Curioso il destino de “Il Corsaro”, opera di Verdi che di poco precede la “trilogia popolare” (“Rigoletto”, “Trovatore”, “Traviata”) e che ebbe grande successo tra il 1848 (data della prima a Trieste) ed il 1861, per sparire sino a quando venne ripresa, in edizione da concerto, nel cortile del Palazzo Ducale di Venezia per due esecuzioni nel 1963. Da allora, rare le rappresentazioni in forma scenica , soprattutto in Italia mentre la si incontra abbastanza spesso nei cartelloni tedeschi ed americani. E’ augurabile che le recite (sino al 27 ottobre) nel piccolo e delizioso Teatro Verdi di Busseto lo rimettano in corsa.
Per quanto composto (piuttosto rapidamente) negli anni di maggiori pulsioni risorgimentali, tratto da un romanzo in versi di Byron, “Il Corsaro” ha poco o nulla di patriottico. In Byron, il protagonista Conrad (diventato Corrado nel libretto di Francesco Maria Piave), è un introverso; a guida sì di una ciurma di corsari che difendono i mari dalle escursioni degli ottomani sulle costo europee, ma preso soprattutto da meste riflessioni sul significato dell’esistenza in un mondo senza speranza e senza aldilà. Per Piave e Verdi siamo invece in una vicenda di avventura analoga a quelle di molti film degli Anni Quaranta (pensiamo a “Il Corsaro dell’Isola Verde” e a “Le Avventure del Corsaro Nero”). Il bel Corrado è amato da due donne, Medora e Gulmara. La seconda è la favorita del crudele, e sadico, Pascià Seid. Corrado tenta di bloccare, con uno stratagemma (si traveste da Derviscio), le scorrerie di Seid, ma viene preso prigioniero e condannato a morte lenta tramite atroci torture. Gulnara lo aiuta a fuggire(visto che c’è la fanciulla ne approfitta anche per accoltellare Seid nel sonno) ed a tornare sulle suo coste, dove però Medora, sapendolo morto, sta spirando avvelenata. Byroniamente, Corrado si suicida buttandosi in mare – in Byron, però, non c’è suicidio ma semplicemente il protagonista sparisce alla ricerca di altre avventure. La partitura – attenzione- è l’ultima di un certo tipo di opera verdiana ed anticipa molti tratti del “Trovatore”.
La regia di Lamberto Puggelli , le funzionali scene di Marco Capuana ed i bei costumi di Vera Marzot rendono questo “feuilleton” un veloce romanzo d’avventure, con un ritmo quasi cinematografico e con alcuni dettagli osé (quali gli amori saffici nell’harem del Pascià). Carlo Montanaro dirige l’orchestra disciplinatamente; un’orchestrazione semplice gli confà. Di grande livello il cast di giovani messo insieme per questo “Corsaro”. Eccelle Bruno Ribeira, un tenore portoghese molto giovane, e bel ragazzo, che debutta nel ruolo: ho un timbro chiaro, un fraseggio perfetto, sa “spingere” senza mostrare alcuno sforzo anche dando di scherma e correndo su e giù sulla tolda delle navi (omnipresenti nell’opera). Molto buona un’altra giovane al debutto: Silvia Della Benetta nel ruolo di una piacente Gulnara. Il baritono Luca Salsi (Seid) funziona molto bene al centro ma ha difficoltà con gli acuti. Irina Lungu (Medora) è sempre bella ma è stata , la sera in cui la ho ascoltata, vocalmente al di sotto delle aspettative.

VERDI SALPA CON IL “CORSARO”, Milano Finanza 17 ottobre

Dopo “Giovanna d’Arco” al Regio di Parma ed una serie di repliche del “Nabucco” nelll’elegante, e spazioso, “Romolo Valli” di Reggio Emilia (in un’edizione adattata da un allestimento di Daniele Abbado già visto a Ferrara 11 anni fa), nell’ambito del Festival Verdi 2008, al piccolo e delizioso teatro di Busseto arriva una chicca:“Il Corsaro”, opera che di poco precede la “trilogia popolare” (“Rigoletto”, “Trovatore”, “Traviata”). Ebbe successo tra il 1848 (data della prima a Trieste) ed il 1861 in vari teatri europei , per sparire sino a quando venne ripresa, in edizione da concerto, nel cortile del Palazzo Ducale di Venezia per solo due esecuzioni nel 1963. Da allora, rare le rappresentazioni in Italia mentre la si incontra abbastanza spesso nei cartelloni tedeschi ed americani ed è in repertorio a Budapest. Si può vedere ed ascoltare a Busseto sino al 27 ottobre, ma già si annuncia una tournée anche internazionale.
Tratto da un romanzo in versi di Byron, “Il Corsaro” ha poco o nulla del fervore patriottico che pare animasse Verdi in quel periodo. Nel testo del poeta inglese, il protagonista Conrad (Corrado nel libretto italiano), è un introverso; a capo (forse controvoglia) sì di corsari che difendono i mari dalle escursioni degli ottomani sulle coste europee, e preso soprattutto da meste riflessioni sul significato dell’esistenza in un mondo senza speranza. In Verdi siamo invece in un puro teatro d’avventura sulla stregua di film ormai d’epoca come “Il Corsaro dell’Isola Verde”. Il bel Corrado è amato da due donne, Medora e Gulnara. La seconda è la favorita del crudele, e sadico, Pascià Seid. Corrado tenta di bloccare, con uno stratagemma (si traveste da Derviscio), le scorrerie di Seid e dei suoi in terre cristiane, ma è preso prigioniero e condannato a morte lenta tramite atroci torture. Gulnara lo aiuta a fuggire (la fanciulla ne approfitta anche per accoltellare Seid nel sonno e pentirsi di essere una peccatrice omicida) ed a tornare sulle sue spiagge, dove però Medora, sapendolo morto, sta spirando avvelenata. Byroniamente, Corrado si suicida buttandosi in mare. La partitura – attenzione- è l’ultima di un certo tipo d’opera verdiana ma anticipa alcuni tratti del “Trovatore”.
La regia di Lamberto Puggelli , le funzionali scene di Marco Capuana ed i bei costumi di Vera Marzot rendono questo “feuilleton” un veloce romanzo d’avventure, con un ritmo quasi cinematografico e con alcuni dettagli osé (quali gli amori saffici nell’harem del Pascià). C’è un pizzico d’ironia nel veloce spettacolo dove l’ambientazione pare in un esagerato technicolor Anni 20, dove qualsiasi elemento è più colorito del normale.
L’orchestrazione è semplice e si confà a Carlo Montanaro che abbiamo visto in difficoltà con scritture orchestrali più complesse. Viene, soprattutto, data un’opportunità ad un cast di giovani in gran misura debuttanti. Bruno Ribeira è un tenore portoghese che per la prima volta affronta un ruolo non facile: ha un timbro chiaro, un fraseggio perfetto, sa “spingere” senza mostrare alcuno sforzo anche dando di scherma e correndo su e giù sulla tolda delle navi (omnipresenti nell’opera). E’ anche un bel ragazzo, come previsto dal libretto. Merita di essere seguito con attenzione; se non strafa, e non affronta ruoli a lui non adatti, potrà essere uno dei tenori verdiani importanti dei prossimi anni. Occorre segnalare un’altra giovane al debutto: Silvia Della Benetta nel ruolo di una piacente Gulnara. Il baritono Luca Salsi (Seid) funziona bene al centro ma ha difficoltà con gli acuti. Irina Lungu (Medora) è sempre bella ma è stata, la sera in cui la ho ascoltata, vocalmente al di sotto delle aspettative.

BANDO EUROPEO PER SCEGLIERE CHI RISCRIVERA’ LE REGOLE, Libero 16 ottobre

L’azione congiunta degli Stati Uniti, del Canada, dei Paesi del Pacifico meridionale e soprattutto dell’Ue hanno tonificato i mercati. Almeno nel breve periodo. Ciò non vuole dire, però, né che la crisi finanziaria sia stata superata né che sono stati risolti i problemi alla sua radice. Ciò non significa neanche che non ci saranno forti alti e bassi nelle prossime settimane. Victor Ricciardi, forse uno dei maggiori specialisti di “beharvioural finance” (la scuola che analizza i comportamenti di chi fa finanza) dedica un capitolo del secondo volume del Manuale di Finanza (a cura di Frank Fabozzi) appena pubblicato da John Wiley & Sons (pp.85-111) alla “psicologia del rischio finanziario”: l’analisi contiene una ricca rassegna della letteratura fiorente dalla metà degli Anni 70. L’impressione che si trae della rassegna è un parallelo tra la psicologia del rischio (finanziario) ed un fiume carsico – sparisce per riaffiorare soprattutto in una fase come l’attuale in cui si parla di nuove regole e di nuove prassi. Più positivo, per il medio periodo, un altro leader della finanza comportamentale, Lennart Erixon; in un saggio, in uno degli ultimi fascicoli, del Cambridge Journal of Economics (Vol. 31, n. 3 pp. 327-348) sottolinea come “anche i tempi infausti sono buoni perché spingono alla trasformazione” (di regole e prassi). Ma la trasformazione richiede tempo (e non è affatto facile). In questa fase è specialmente difficile fare scelte in materia di portafoglio: anche chi cautelativamente mente si tiene distante dall’azionario, è solo limitatamente attratto da “corporate bonds” sino a poche settimane di pregio ma che adesso si trattano a prezzi molto bassi. Neanche un comparto con un sottostante di pregio - il meglio dei quartieri residenziali di Parigi- attira più (lo documenta un saggio sul “Journal of Real Estate Finance and Economics” Vol. 37, N. 3, 2008)
Un’interessante analisi (ma non citata, nonostante la sua attualità, da nessun quotidiano o periodico italiano) è stata condotta da un team delle Università di Salerno, Napoli (Federico II) e Venezia (Cà Foscari) sul grado d’abilità cognitive, e di cultura finanziaria, nel costruire un portafoglio in una fase come questa. L’analisi (University of Venice Working Paper N. 19/WP/”008) esamina, in base a dati europei, lo stock di ricchezza e le scelte di portafoglio dei cinquantenni in 11 Paesi dell’Ue : quelle migliori sono di coloro con un alto grado di istruzione ed in particolare con il bernoccolo per la matematica. Se questa conclusione appare scontata – nessuna regolazione più difendere il selfmade home trader che opera in Borsa guardando con un occhio un canale televisivo finanziario e con l’altro la pentola dove bolle la pasta – e in aggiunta cullando tra le braccia il pargolo che strilla perché la poppata è in ritardo- , è meno prevedibile ciò che si apprende (e che può essere per la regolazione del futuro) da un lavoro di economisti della Bocconi pubblicato nel numero di luglio di “Corporate Governance- An International Review” (Vol. 16, Issue 4, pp. 312-325). L’analisi – si badi bene –non riguarda il settore finanziario ma la regolazione delle s.p.a in generale ; è stata pubblicata in luglio, quindi redatta diversi mesi prima di allora, ed utilizzando i dati 2000-2003. Soffermiamoci sulla sezione relative alla performance finanziaria: esaminate sulla base dei consuntivi, le imprese “familistiche” italiane (anche le maggiori) sembrano andare meglio delle public companies ad azionariato diffuso in quel mercato anglosassone che aveva fama di essere così ben regolamentato. A conclusioni non differenti giunge un lavoro del servizio studi della Banca centrale spagnola (Banco de Espaňa Working Paper n. 0820) in cui si analizza la posizione finanziaria e le decisioni in materia di investimenti di 120.000 aziende (non finanziarie) in sei Paesi Ue (Belgio, Germania, Francia, Italia e Paesi Bassi).
Queste citazioni non sono leccornie per ostentare erudizione ma mostrano come il dibattito sulla nuova era di regolazione poggi su basi fragili. Negli Usa è diventato molto intenso in questa fase di campagna elettorale. Ambedue i canditati alla Casa Bianca spingono per un’ondata di nuove regole tanto sulla “grande finanza” quanto su quella al dettaglio (carte di credito, aziende di contabilità e fatturazione). Robert Litan