martedì 23 settembre 2008

NON DEMONIZZARE I DERIVATI Libero 23 settembre

La crisi finanziaria in corso negli Usa (proprio mentre sono in atto le ultime battute della campagna elettorale per le presidenziali) sta facendo scorrere fiumi d’inchiostro sia per le dimensioni che ha raggiunto (coinvolgendo quello che era considerato il Gotha della finanza americana, ed internazionale) sia per la batteria d’interventi messi in atto dal Governo Usa per tamponarla. Noi di Libero Mercato abbiamo il triste compito di ricordare ai lettori che all’inizio di agosto avevamo delineato il processo secondo cui debitori “prime” sarebbero diventati “subprime”, tramite una vera e propria catena che minacciava di diventare una valanga. Contro la quale sono essenzialmente pochi gli strumenti a disposizione. Oggi, con il senno del poi, sono tutti pronti a fornire ricette o critiche. Mentre, in sostanza, parafrasando il titolo del capolavoro di Erich Marie Remarque c’è poco o nulla di nuovo sul fronte occidentale (la finanza Usa è a occidente dell’Europa).
Andiamo con ordine. In uno degli ultimi fascicolo della rivista “European Financial Management” (Vol. 14 , Issue 3, pp. 564-698), Matti Keloharju, un meticoloso finlandese della Università di Helsinki), analizza i 300 saggi più citati in materia di finanza dal 2000 all’agosto 2007, utilizzando una banca dati davvero straordinaria. Le conclusioni sono che le novità degli ultimi anni sono state davvero rare. Anche i tanto apprezzati (qualche anno fa) e tanto disprezzati (adesso) derivati sono antichissimi; Ernst Jeurg Weber (eweber@biz.uwa.edu.au) mi ha dato accesso ad un suo manoscritto in corso di pubblicazione: i derivati nascono in Mesopotania (in quanto futures) e si estendono all’Egitto Ellenistico, prima, all’Impero Bizantino poi e, successivamente, alla Spagna dove la finanza era gestita dai sefartiti. In seguito alla diaspora di questi ultimi, diventano uno degli strumenti finanziari principali delle Libere Province dei Paesi Bassi : nel Cinquecento ad Amsterdam viene emanata una legge di regolazione e vigilanza (sui derivati, il cui impiego si era nel frattempo esteso a Gran Bretagna e Francia – e nel XIX secolo in Germania).
Quindi, attenzione non buttiamo via il bambino (di origini mesopotane) con l’acqua sporca poiché i derivati e la stessa marcia all’abisso dei prime che diventano subprime sono unicamente una sfaccettatura della storia. E non la più importante. Il servizio studi del Fondo monetario ha appena completato un’analisi di 42 crisi bancarie in 37 Paesi dal 1970 al 2007. Nel 74% dei casi, Pantalone ha iniettano liquidità nel sistema (tramite iniezioni dirette o fideiussioni) – analogamente a quanto sta facendo oggi il Governo americano (ed a quanto fece nel 1992 il Governo italiano di fronte alla crisi dei banchi meridionali): “molto, troppo spesso –scrive lo studio- si è privilegiata la stabilità, quale che ne fosse il costo”. In termini aggregati, il costo (su 30 anni) è stato pari al 16% del pil mondiale. In più del 70% di queste crisi i derivati non erano parte del problema; lo erano le gestioni improvvide e le operazioni per compiacere politici grandi e, soprattutto, piccoli. L’Insead di Fontainbleau ha studiato un fenomeno analogo: 348 crisi valutarie in 164 Paesi (in gran misura in via di sviluppo) negli ultimi 40 anni. Il lavoro (Insead Working Paper n. 2008/EPS/MKT) mostra ancora una volta il ruolo limitato, ove non trascurabile, della finanza derivata sia nel determinare una crisi sia nel trovarne una via d’uscita. Individua, però, una serie di indicatori per prevedere l’avvicinarsi della tempesta e per contribuire a formulare strategie per uscirne.
Ci sono alcune misure che possono essere adottate per contenere le disfunzioni della finanza derivata: un saggio di Todd Zywicki e Joseph Adamson, ambedue della George Mason University (uno dei santuari liberisti per eccellenza) , in corso di pubblicazione sulla “University of Colorado Law Review” – si può chiedere a jadamson@gmu.edu – analizza il “law & economics of subprime lending”, ossia gli aspetti giuridici ed economici del suprime e delinea una serie di misure tecniche per migliorare la vigilanza. Arthur Wilmarth della Facoltà di Giurisprudenza della George Washington University della capitale Usa argomenta (nel Gwu Legal Studies Research Paper n. 436) come sia utile allontanarsi dal modello della banca universale verso cui tutti hanno corso (e mettere paratie tra istituti di credito commerciale e banche d’investimento) , ma soprattutto sottolinea come la prevenzione è in certa misura mancata a ragione della frammentazione delle attività di vigilanza. Indicazioni analoghe vengono da un pregevole volume curato da Peter Nobel e Marina Gets per la Università di San Gallo in Svizzera: l’innovazione finanziaria ha generato grandi benefici ma anche nuove sfide e nuova vulnerabilità, specialmente a ragione degli squilibri finanziari globali (leggasi disavanzo strutturale dei conti degli Usa con il resto del mondo, comparsa sulla scena di fondi sovrani, istituzioni economiche finanziarie internazionali – Fondo monetario, Banca mondiale, Organizzazione mondiale del commercio – in cerca d’autore).
Tiriamo le somme. Non c’è proprio nulla di nuovo sul fronte occidentale? L’analisi riassunta in questa nota è che si sbaglia se si cerca l’assassino nel mondo della finanza derivata. In quel mondo (quale che sia il Paese), possono essere fatti molti miglioramenti ; saranno, però, efficaci unicamente se si avvia a soluzione il nodo degli squilibri globali (e di fondi sovrani che possono fare scorrerie, per finalità non sempre economiche e finanziaria, presso questo o quell’istituto): è il compito centrale della prossima Amministrazione Usa, chiunque vinca le elezioni. Si erra se, come si sente in questi giorni, si propone di lavarsi le mani e di attribuire al Fondo monetario il compito di essere il vigilante mondiale: con una cultura radicata nella macro-economia a breve termine sarebbe il vigilante meno efficace (se del caso, qualche funzione può essere svolta dalla Banca mondiale dove vige, dal 1948, una cultura micro-economica e finanziaria). Il problema, però, non è nelle nostre stelle (come diceva Cassio a Bruto nel “Giulio Cesare” di Shakespeare) ma in noi stessi. Prima di pensare a vigilanti internazionali, mettiamo ordine nella segmentazione di quelli interni. Gli Usa ormai lo riconoscono. Noi , in Italia, non possiamo vantarci di essere di meglio.

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