mercoledì 3 settembre 2008

NESSUN EREDE VOCALE PER LUCIANO, Il Tempo 3 settembre

Come tutti i grandi artisti, Luciano Pavarotti è morto senza eredi. Vocalmente parlando. Le caratteristiche della voce e della personalità del tenore, di cui ricorre un anno della scomparsa, sono descritti molto efficacemente del pianista Leone Magiera, il suo “accompagnatore” preferito (oltre che suo strettissimo amico) nel libro “Pavarotti Visto da Vicino” che sabato prossimo sarà presentato al Parco della Musica. La peculiarità di Pavarotti è stata la chiarezza del timbro e l’estensione del registro, ancor più del volume della voce. Una chiarezza ed un timbro che hanno affascinato critici e pubblico in tutto il mondo, consentendo a “Big Luciano” pure di prendersi qualche libertà con i compositori delle partiture a lui affidate. Questa peculiarità è più importante dei suoi “do” tanto noti e tanto applauditi.
Nella sua lunga carriera, è passato da ruoli di tenore d’agilità (memorabile la sua interpretazione di Nemorino ne “L’Elisir d’Amore” di Gaetano Donizetti) a ruoli di tenore “spinto” (quali quelli di Radanes in “Aida” di Giuseppe Verdi). Molti tenori che iniziano la carriera cantando parti lirico-leggere (che richiedono anche una buona dose agilità), man mano che la loro voce si imbrunisce e diventa più spessa affrontano ruoli da tenore “pieno” od anche “spinto” (e pure da “bari-tenore”) se curano con attenzione le proprie corde vocali e sanno quando è il momento di affrontare nuovi ruoli : è questo il caso, ad esempio, dell’americano Chris Merritt , grande protagonista rossiniano e belliniano negli Anni 80 ed ora alle prese con “Moses und Aron” di Arnold Schőmberg, specialmente in teatri tedeschi. Alcuni, tenori lirico-leggeri di rango da giovani si rovinano irrimediabilmente la vocalità tentando ruoli di tenori “pieni” o “spinti”, o loro non adatti oppure anzitempo. Pavarotti, invece è stato in grado di passare, senza fatica, da una vocalità ad un’altra sino ad età relativamente avanzata, mantenendo intatto il timbro e l’estensione. Anche il suo infortunio più noto (l’insuccesso al debutto nel ruolo del protagonista in “Don Carlo” alla Scala) si spiega in gran misura dalla sicurezza (forse eccessiva) che aveva nelle proprie capacità vocali.
Chi ne seguirà i percorsi? L’unico su piazza che può transitare con facilità da agilità e ruoli bari-tenorili è Giuseppe Filianoti , che è tornato circa un anno fa sui palcoscenici dopo una lunga malattia ed il 7 dicembre inaugurerà la stagione della Scala. Altrimenti, occorre distinguere tra le due vocalità così differenti in cui si cimentava, senza difficoltà, Pavarotti. Guardando ai più giovani (quindi, con una carriera in prospettiva più lunga), nella categoria dei tenori di agilità, il più noto – lanciato in Italia ma già divo internazionale – è il peruviano Juan Diego Flòrez , a cui aggiungerei gli italiani Francesco Meli e Vittorio Grigolo ed il russo Maxim Mironov. Tra i tenori “pieni” e “spinti”, ce ne è una pattuglia di mezza in età e in carriera da anni (Fabio Armiliato, Walter Fraccaro, Antonello Palombi). La vera scoperta di queste ultime stagioni è il coreano, ormai, italianizzato, Francesco Hong, il cui Calaf in “Turandot” di Giacomo Puccini ed il cui Manrico ne “Il Trovatore” di Giuseppe Verdi ricordano “Big Luciano” (anche in termini di stazza fisica e quindi di limitata versatilità scenica).

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