sabato 27 settembre 2008

MASCHI “PIU’ CASALINGHI” PER FARE SALIRE IL PIL Libero 27 settembre

E’ utile allontanare gli occhi da tante notizie ed analisi riguardanti il breve periodo (crisi dell’Alitalia, tracollo dei colossi finanziari Usa) per mettere il cannocchiale e scrutare il medio e lungo periodo, in particolare i nessi tra crescita economica e demografia. Specialmente, se c’è qualcosa di nuovo sull’argomento. Da tre lustri, l’Italia è il fanalino di coda dell’Ue in generale e dell’area dell’euro in particolare. Mentre la crescita potenziale di un’economia matura (come la nostra) dovrebbe situarsi sul 2,5% l’anno (il tasso di crescita di lungo periodo di Francia, Germania, Benelux ed Austria), facciamo fatica a raggiungere l’1% e la stessa Commissione Europea stima all’1,3% il nostro potenziale. Le determinanti sono molteplici. Spiccano, tra esse, l’andamento demografico ed il progressivo invecchiamento della popolazione: da Paese caratterizzato da famiglie numerose ci siamo assestati ad un tasso di fertilità dell’1,3% (il numero di figli per donna in età appropriata per la procreazione). Ciò comporta una graduale riduzione della popolazione (oltre che un’età mediana sempre più avanzata, tale da impedire riforme – come quella della previdenza- essenziali e da incidere negativamente sulla produttiva, sul tasso di risparmio e sulla tipologia degli investimenti). Gli anziani – si sa – raramente amano innovare e rischiare.
Il declino del tasso di fertilità (sottolinea uno studio pubblicato nell’ultimo fascicolo del “Journal of Economic Perpectives , Vol. 22, N. 3 pp.3-23) non è una caratteristica unicamente dell’Italia. Ha dimensioni analoghe in Giappone e Germania e riguarda in misura preoccupante, anche Irlanda, Spagna e Portogallo. In Europa solamente in Francia , dopo una contrazione del tasso di fertilità (dal 2,7% nel 1955 all’1,7% nel 1995) si è riusciti a fare marcia indietro ed ora il saggio è tornato all’1,9%. Uno strumento utilizzato Oltralpe è un forte incremento degli assegni familiari (dall’equivalente di $ 1,800 dollari per figlio/anno nel 1980 a $ 3000 dollari per figlio/ anno, a prezzi costanti nel 2000). E’ questa la molla che ha modificato la tendenza? Senza dubbio è un aspetto a cui si guarda molto nell’elaborazione della politica per la famiglia in Italia.
Lo studio citato- ne sono autori - James Freyer, Bruce Service e Ariel Dora Stern del Darmouth College – getta una nuova luce: gli assegni familiari (ed altri supporti ai nuclei) sono elemento essenziale ma non la determinante principale per incidere sui tassi di fertilità. La vera leva è fare sì che i partner maschili modifichino i loro comportamenti, specialmente in materia di tempo e sforzo impegnato nelle cure delle faccende domestiche e nell’attenzione ai figli. L’analisi contiene a riguardo una rassegna delle letteratura ed una serie di verifiche econometriche: i Paesi a fertilità elevata (Danimarca, Norvegia, Nuova Zelanda, Usa) sono quelli in cui c’è una divisione del lavoro paritetica tra uomini e donne nei lavori tra le mura di casa e nella cura della prole. Tra i tanti indicatori, uno è specialmente eloquente: in Italia le donne sbrigano circa il 73% delle attività attinenti alla cura dei figli, mentre negli Usa tale percentuale sfiora il 60%. Un’analisi controfattuale econometrica rivela che se gli uomini italiani si assestassero al livello degli americani, in Italia il tasso di fertilità passerebbe dall’1,3% all’1,8% per donna (diventando molto vicino a quello della Francia anche se inferiore al tasso di sostituzione, 2,1%, necessario per mantenere stabile la popolazione). Ciò non vuole dire che altre misure (assegni familiari e soprattutto asili nido) non sono necessari; avrebbero, però, effetti limitati se i maschi non mutano comportamenti: una maggiore spesa pubblica per la famiglia (indica l’analisi econometrica) è efficace laddove tale cambiamento avviene. In ogni caso, i dati non ci dicono se assegni familiari, servizi alle famiglie (quali gli asili nido) e gli sgravi fiscali sono lo strumento che funziona meglio.
A conclusioni simili si giunge da uno studio della Banca d’Italia (Temi di discussione n. 684) il 20% delle donne che lavorano prima della nascita di un figlio, smettono di lavorare per un anno e mezzo; il 14% dà le dimissioni. Il quadro sarebbe differente se ci fosse una migliore divisione del lavoro (a casa) tra i generi. Stesse risposte da una ricerca dell’Università d’Amsterdam (Timbergen Institute Discussion Paper N. 8-079/3) sull’allocazione del tempo tra genitori e dall’Istituto federale tedesco di studi sul lavoro (IZA Working Paper N. 3272).
C’è un consenso, quindi, sul fatto che sta all’uomo di darsi una mossa ed adattarsi alle mutate condizioni economiche, tecnologiche e sociali. In questo panorama, però, c’è una voce dissonante: nell’ultimo fascicolo della “Review of Income and Wealth” (Vol. 54, pp. 350-372) Rafael Gòmez e Pablo Hernandez De Cos, due economisti latino americani, sostengono (con un titolo provocatorio) che l’invecchiamento fa bene alla crescita economica. Se si legge il saggio con cura, ci si accorge che si riferisce ad un invecchiamento molto, ma davvero molto, limitato. La demografia tira il pil quando la popolazione nell’età più produttiva (prime age: 35-54 anni) è pari alla fascia più giovane della popolazione in età da lavoro (16-34 anni). Indicazione utile per l’America centrale e meridionale ma non per l’Italia.

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