sabato 20 settembre 2008

L'OTTOBRE ITALIANO DI GIOVANNA D'ARCO Il Domenicale 20 settembre

La pulzella d’Orléans è la protagonista dell’ottobre musicale italiano. Il primo giorno del mese, a Parma l’edizione 2008 del Festival Verdi sarà inaugurata con un nuovo allestimento di “Giovanna d’Arco” del cigno di Busseto – opera raramente eseguita (ne ricordo una messa in scena al Comunale di Bologna verso la metà degli Anni 90); la regia è di Gabriele Lavia, dirige Bruno Bartoletti, il cast è di grande rilievo (Svetla Vassilleva nel ruolo della protagonista, Evan Bowers in quello di Carlo VII e Renato Bruson in quello di Giacomo, padre di Giovanna). Il 12 ottobre, al Parco della Musica di Roma la stagione 2008-2009 si apre con la produzione semi-scenica di “Jeanne d’Arc au Bûcher” di Arthur Honneger su testo di Paul Claudel. Anche in questo caso, si tratta di un appuntamento importante: concerta Antonio Pappano; la regia (che, seguendo le intenzioni di Honneger prevede elementi cinematografici) è di Keith Warner; le scene ed i costumi sono affidati a Es Devil; il cast include, nei ruoli recitanti, Romane Bohringer e Tchéky Karyo (due noti attori di cinema) ed, in quelli cantati, Susan Gritton, Maria Radner e Donald Kaash.
Il “Dom” tratterà dell’opera verdiana in un’analisi del Festival. Il lavoro di Honneger e Claudel induce, invece, ad illustrarne l’importanza ed anche l’attualità nel panorama culturale italiano ed europeo di questo primo scorcio di XXI secolo. E’ utile ricordare che il Maggio Musicale 2008 sarebbe dovuto essere inaugurato con “Jeanne d’Arc au Bûcher”- il progetto è stato abbandonato quasi all’ultimo momento (pare per ragioni di budget). L’ultima esecuzione che ricordo è quella del 2003 al Teatro Massimo di Palermo ; la regia era di Daniele Abbado; concertava Stefan Anton Reck, protagonista Irene Jacob .
Innanzitutto, i lavori di Paul Claudel (anche quelli puramente teatrali come “L’annonce fait à Marie”, se non il suo capolavoro almeno quello più noto in Francia e nel resto del mondo) sono virtualmente spariti dalle scene italiane dalla fine degli Anni Sessanta, a ragione in gran misura di una vulgata, di origine marxista, secondo cui il poeta e drammaturgo sarebbe stato, oltre che cattolico, anche reazionario e vagamente fascista. Prima di allora, erano rappresentati con una certa frequenza – spesso l’estate sul sagrato di San Miniato ed a Roma nel piccolo, ma elegantissimo, Teatro della Cometa, all’interno di Palazzo Pecci-Blunt, di fronte al Campidoglio –diretto, per anni, da Diego Fabbri. Claudel non si considerava né un poeta né un drammaturgo: era un diplomatico – nella sua lunga carriera è stato, tra l’altro, Ambasciatore di Francia a Tokio, a Washington ed a Bruxelles (sedi tutte impegnative) che dedicava alla poesia ed alla drammaturgia un giorno la settimana. Veniva da famiglia cattolica. Diventato agnostico in adolescenza e scettico all’inizio degli anni universitari, racconta di essere tornato alla Fede all’età di venti anni durante una visita a Nôtre-Dame. Si considerava “scrittore religioso e cattolico”. Vedeva la propria missione non solo nella diplomazia a servizio della Francia ma anche e soprattutto nell’obbligo “di portare daccapo, ad un mondo corroso dal dubbio ed abbrutito dal materialismo, l’idea della gioia e dell’amore, nella certezza e nella fede di un Dio personale legato a noi da un rigoroso contratto”. A questo fine, una scelta precisa: drammi in versi in cui le pause sono determinate da ragioni liriche e la scansione è scandita dalla respirazione del dicitore. Grande accento, poi, sull’atmosfera: dal Medio-Evo denso di contrasti de “L’Annonce” alla Francia napoleonica de “L’Ôtage” ai ricordi del teatro secentesco spagnolo in “Le Soulier de Satin” e di “Christophe Colomb”, messo in musica da Darius Milhaud.
In effetti, nei suoi lavori i rapporti con l’Alto non sono né semplici né lieti: i protagonisti giungono alla verità al termine di percorsi tormentati, caratterizzati da forti conflitti tra le “dramatis personae” attorno ad un tema centrale: il sacrificio consacrato dalla Comunione (in “L’Annonce”), l’orgoglio umano (“Tête d’Or”), la follia della società per avere smarrito Dio (“La Ville”, “Le Repos du Septième Jour”), il canto della vita e della morte (“Le Soulier de Sapin”) e così via. In tal modo – come riconosce lo stesso Silvio D’Amico, che certo non può essere considerato un intellettuale cattolico, nella sua monumentale “Storia del Teatro Drammatico”- Claudel deve essere considerato non un conservatore che, nella prima metà del Novecento, guarda all’indietro – alla struttura del dramma ottocentesco – ma un innovatore che incorpora le lezioni del simbolismo e si rivolge verso un teatro del futuro – un teatro se si vuole, al tempo stesso, aristocratico (la scrittura in versi) e didascalico (il messaggio forte lanciato in ciascun dramma). Faceva parte del gruppo d’artisti innovatori e sperimentali che negli Anni Venti si erano raccolti, a Parigi, attorno al Théâtre de l’Ouvre, ma se ne distingueva per il suo forte senso di missione.
Veniamo a Honneger , il cui “Pacific 231” (una composizione per orchestra che imita la locomotiva a vapore) è ancora eseguito con una certa frequenza nelle sale da concerto. Era svizzero, anche se nato a Le Havre. Faceva parte del Gruppo dei Sei che, all’inizio del Novecento, si proponevano di rinnovare la musica francese, ma, a differenza degli altri cinque, non viaggiava verso la giocosità, ma si collegava a Debussy e a Schömberg, quindi contrappuntismo rigoroso e stile politonale. Non credeva nell’avvenire del teatro d’opera (mentre Claudel ne era convinto ma fornì un magnifico libretto a Milhaud per raccontare la conquista dell’America). Era, invece, interessato alla musica da film: è sua la colonna sonora di “Napoléon” di Abel Gance del 1927 , un colossal di oltre sei ore in cui per la sequenza del passaggio delle Alpi venivano utilizzati tre schermi simultaneamente. La sua unica opera (“L’aiglon” dal dramma di Rostand), composta a mezzadria con Ibert, è tornata di recente sulle scene (a Marsiglia) senza riscuotere un grande successo.
“Jeanne d’Arc au Bûcher”-rappresenta, quindi, l’incontro di due intellettuali di spicco di quello che è chiamato il “Novecento Storico”. Fu concepito mentre si sentiva già il rullo dei tamburi della seconda guerra mondiale. Ebbe appena un successo di stima alla prima esecuzione (in forma di concerto) a Basilea nel 1938. Esito strepitoso alla prima versione scenica, a Zurigo nel 1942, con la regia di Hans Reinhard. Alla “prima” in Francia un pubblico razzista si mostrò ostile alla protagonista, Ida Rubistein, ebrea, sulla cui interpretazione era stato, in gran misura, costruito il lavoro. Ciò nonostante, ci fu una tournée in ben 40 città della Francia di Vichy (ossia la parte non occupata) nel 1941. Il lavoro approdò a Parigi il 9 maggio 1943 (in piena occupazione). La sua risonanza mondiale, però, si ebbe alla metà degli Anni Cinquanta quando, con Roberto Rossellini registra ed Ingrid Bergman protagonista, venne presentato all’Opéra ed al San Carlo e divenne un film di successo.
Nel testo si ritrova il Claudel degli anni migliori: i protagonisti sono ispirati più dal dubbio che dal dogma. La partitura fu all’epoca considerata spregiudicata per l’uso di tecniche quasi cinematografiche (come le dissolvenze incrociate) negli 11 quadri (poco meno di un’ora e mezzo complessivamente) nel modulare una scrittura complessa ed un grande organico.
Un lavoro da ascoltare e da vedere.

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