mercoledì 3 settembre 2008

CONTRATTI LOCALI PER RIPARTIRE, Libero 3 settembre

Per fare rimettere a galoppare l’economia italiana (dopo tre lustri di crescita rasoterra) occorre rimettere drasticamente mano al mercato del lavoro e portare a compimento le riforme (attuate soltanto in parte) che portano il nome di Marco Biagi. Ciò comporta anche e soprattutto non limitarsi al federalismo fiscale ma introdurre il federalismo nel mercato del lavoro e nella contrattazione.
Lo documenta uno degli ultimi lavori di Richard Freeman dell’Università di Harvard: “American Works: the Exceptional U.S. Labor Market”. Freeman conosce bene l’Italia anche perché è stato professore all’Istituto Universitario Europeo a Fiesole. Gli italiani occupati non sono scansafatiche: lavorano, in media 1826 ore l’anno, soltanto una di meno dei britannici (in testa alla classifica), molte di più dei tedeschi (1442), dei francesi (1555) e degli stessi americani (1809). Tuttavia, l’Italia ha i tassi più bassi di partecipazione al mercato del lavoro: appena il 57,4% (rispetto al 70% degli americani e degli scandinavi) della popolazione in età da lavoro è occupata e lavora 20 settimane l’anno (rispetto alle 25 negli Usa ed in numerosi Paesi del Nord Europa).
Ci sono freni socio-culturali (in Italia, il 55% delle donne non è occupata rispetto a meno del 30% nei Paesi nordici ed utilizziamo mediamente 8 settimane di congedo l’anno, rispetto a meno di 4 per gli americani ) ma anche istituzionali. Un dato spicca su tutti: lo scarto tra la “densità sindacale” (ossia il tasso d’iscrizione a sindacati), ormai al 34% dei lavoratori (uno dei più bassi in Europa, dopo quelli di Francia, Germania, Svizzera e Spagna) ed il tasso di copertura dalla contrattazione collettiva (un buon 83% tra i più alti nei Paesi Ocse ed altissimo se raffrontato al 14% degli Stati Uniti). La bassa partecipazione al mercato del lavoro, quindi, non dipende soltanto o principalmente dall’alta pressione tributaria e contributiva – come sostengono Tine Dhont e Freddie Heylen in un saggio nell’ultimo fascicolo di “Economic Inquiry”- ma dalla centralizzazione della contrattazione nazionale e dal limitato sviluppo della contrattazione integrativa su base regionale e settoriale, pur prevista dal cosiddetto “accordo di San Tommaso”, il patto sociale del luglio 1993 (che rappresenta ancora il quadro di riferimento). Robert Inam della Università di Pennsylvania del federalismo in 73 Paesi: una struttura federale, anche in materia lavoristica, è spesso correlata ad un migliore andamento dell’economia in quanto incentiva una maggiore partecipazione e stimola una maggiore competitività. Non si tratta di tornare a strumenti amministrazioni del passato (come le “gabbie salariali”) ma a regole ed a prassi che siano in linea con le esigenze locali e ne promuovano la produttività, anche utilizzando – come proposto da Freeman – varie forme di partecipazione agli utili.
Parte di queste misure sono previste nel “Libro Verde” sul riassetto dello stato sociale. Occorrerà probabilmente andare ancora più oltre e porle nel contesto del dibattito sul federalismo fiscale – uno dei temi centrali delle discussioni politiche alla ripresa autunnale.

Nessun commento: