venerdì 18 luglio 2008

ANNO PUCCINIANO POLEMICHE A DISTANZA, Il Velino 15 luglio

Il 54simo Festival Pucciniano , inaugurato l’11 ed il 12 luglio con un nuovo allestimento di “Turandot” e la ripresa di una produzione relativamente recente di “Tosca”, ha avuto un merito, al di là della validità dei singoli spettacoli (recensiti in altra sede): ha aperto una polemica su come concertare le opere di Puccini e sulla misura in cui ci si debba sentire legati all’interpretazione che pare abbia dato ai singoli lavori Arturo Toscanini. La polemica è stata innescata dalla concertazione di “Turandot” da parte d’Alberto Veronesi (accusato di dilatare e rallentare i tempi nonché di reintrodurre, nel finale, tagli effettuati da Toscanini in persona). Veronesi ha risposto, con un intervista ad un quotidiano che nel XXI secolo non ci si deve sentire più agganciati ad una tradizione (vera o presunta che sai) della prima metà del XX secolo.
Senza entrare nel merito dei “tempi” con cui concertare “Turandot”, credo sia importante ricordare che Toscanini non amava particolarmente dirigere partiture di Puccini . I rapporti tra i due sono sempre stati piuttosto tesi. Toscanini concertò le “prime” di “La fanciulla del West” e di “Turandot”, ma passò subito la bacchetta ad altri per le repliche. Non esistono che io sappia registrazioni di “Turandot” o di “La fanciulla” dirette da Toscanini. Ciò detto, è noto che Toscanini interferì pesantamente nel lavoro di Franco Alfano per completare “Turandot” (lasciata incompiuta dalla morte del compositore) sulla base degli appunti di Puccini. A mio avviso, la “versione Alfano” (ascoltata diretta da Daniel Oren) ha un impatto sugli ascoltatori notevolmente maggiore di quella rimaneggiata da Toscanini,
Come ha sottolineato uno dei suoi più attenti biografi, Harvey Sachs, Toscanini è stato il primo direttore d’orchestra italiano di statura internazionale (il secondo fu l’oggi dimenticato Ottorino Respighi): aperto all’avanguardia che allora voleva dire Gesamtkunstwerk , l’opera d’arte totale, teorizzata (e praticata) da Richard Wagner, impose , prima alla Scala e successivamente ad altri teatri (specialmente quelli americani) una concezione integrale ed integrata dello spettacolo in cui solisti, orchestra, scene, costumi e luci ricevevano pari attenzione e formavano in tutt’uno. In parallelo, cominciò a domandare ai professori d’orchestra (e tra loro e le voci, sia dei solisti sia del coro) un equilibrio sempre più rigoroso ed impasti sempre più compatti. Tutto ciò era solo un punto d’ avvio per giungere ad una interpretazione più profonda della partitura (e per le opera della sua integrazione con il testo del libretto) di quanto non si facesse nella seconda metà dell’Ottocento ed all’inizio del Novecento. Come avveniva questa lettura ebbe modo di raccontarlo il grande scrittore e poeta austriaco, in un saggio disponibile unicamente in tedesco, Stefan Zweig che lo osservò e studiò lavorare ai Festival di Salisburgo. Toscanini non costruiva l’interpretazione a poco a poco insieme all’orchestra (e, per il teatro in musica, con i cantanti) con sperimentazioni, anche ardite, alternative durante le prove, dando un’interpretazione al tempo stesso e personale e di squadra. Non seguiva neanche pedissequamente, ma a freddo, quanto indicato dall’autore, cercando la fedeltà assoluta all’edizione critica, o più attendibile, della partitura. Faceva una lettura a tavolino – a volte molto “propria” nel senso di molto personale- pianificando tuttavia ogni dettaglio con estrema minuzia. Una volta metabolizzato questo suo modo di leggere un brano, lo portava all’orchestra: incoraggiando ed accarezzando gli orchestrali, ma anche imprecando, insultandoli, urlando loro parolacce irriferibili (specialmente quelle in inglese) in uno strano miscuglio di lingue, li portava ad eseguire a menadito quella che era il suo modo di intendere la partitura. Un racconto analogo, però, si ha in un libro di oltre 40 anni fa di un baritono, Giuseppe Valdengo, che ebbe per Toscanini non solo sconfinata ammirazione ma vera e propria venerazione, ove non amore filiale. Gli orchestrali (ed i solisti) seguivano (a volte soffrendo) sia a ragione del carisma del Maestro sia perché sapevano di lavorare per un’intrapresa unica ed irripetibile.
La dimostrazione che questo fosse, per così dire “il metodo Toscanini” , non mera aneddotica, si è avuta di recente con la pubblicazione della registrazione di numerose prove effettuate negli Studi della Nbc Symphony (senza dubbio gli studi tecnologicamente più avanzati dell’epoca e dove si registrava tutto con quella puntualità che è una caratteristica degli americani poco conosciuta in Europa). Nel numero di dicembre2006/ gennaio 2007 , la rivista “Musica” ha pubblica un saggio di Paolo Bertoli basato sulle registrazioni delle prove di studio: scritto in un lessico accessibile ai non specialisti di musica e di discografica, rivela le determinanti essenziali sia del suo carattere (e della mitologia pure favolistica di certe ricostruzioni cinematografiche e televisive recenti) e della sua maniera di concepire la lettura di una partitura ed il ruolo del direttore d’orchestra (alla guisa di un condottiero che, dalla sua fatica a tavolino, riceve la gnosi- ossia le verità assoluta).
Tutto ciò può sembrare mera erudizione. Tuttavia rafforza il punto fatto da Veronesi nei confronti di Toscanini: quelle del concertatore erano interpretazioni molto personali – si pensi al primo atto del “Parsifal” portato a due ore e venti minuti invece dell’ora e tre quarti prescritta da Wagner durante le prove della “prima” del 1883. In quanto tali, non possono rappresentare un metro di riferimento canonico.
Un suggerimento a Veronesi: la prossima volta , apra tutti i “tagli” del finale e ci regali la versione “Alfano”.

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