sabato 7 giugno 2008

E ORA LIBERIAMO LE LIBERALIZZAZIONI Charta maggio

Premessa Occorre cominciare dalle licenze per i taxi e dal sistema di regolamentazione delle farmacie – come ha tentato, senza grandi esiti, il Governo della breve XV Legislatura – oppure porre l’accento sul buon funzionamento della Borsa elettrica (tassello cruciale in fase di prezzi del petrolio alle stelle) – come effettuato nella XIV legislatura- oppure sulla deregolamentazione dei servizi pubblici locali – argomento che nessun Governo ha osato sfiorare?
Le liberalizzazioni sono state presentate nella campagna elettorale come tema prioritario per la politica pubblica tanto dal Pdl quanto dal Pd e da forze minori, con eccezione di quelle che si richiamano ancora all’ideologia marxista. Lo sono almeno da quando sono state eliminati (nel novembre 1989) gli ultimi controlli valutari e , con la firma dei Trattati di Maastricht nel 1992, ci si è messi sulla strade dell’unione economica e monetaria europea. Ciò nonostante, la strada fatta è stata molto poca.

Privitazzazioni senza liberalizzazioni. E negli ultimi tempi ci sono stati anche seri passi all’indietro come documentato dal più recente aggiornamento dell’Index of Economic Freedom pubblicato dalla Heritage Foundation e presentato in febbraio a Roma. E’ importante ricordare che negli Anni Novanta, i Governi che si sono succeduti (di centro-sinistra tranne una breve parentesi dalla primavera 1994 al gennaio 1995) hanno realizzato un vasto programma di privatizzazioni e denazionalizzazioni senza liberare precedentemente i mercati e definire un adeguato quadro regolatorio. Si è proceduto frammentariamente creando, di volta in volta, autorità di garanzia dette in gergo Authorities. Ne è risultata un’architettura ormai entrata in crisi profonda. In casi clamorosi che hanno attratto l’interesse dell’opinione pubblica, quali Cirio, Parmalat e infine scalate bancarie, il ruolo di vigilanza a tutela dei risparmiatori si è rivelato assolutamente inadeguato. I progetti di razionalizzazione e riforma che da tempo investono il variegato settore delle Authorities dovrebbero far tesoro di una esperienza non sempre brillante. Spesso nate dietro impulsi specifici la loro razionalizzazione è stata al centro dei lavoro della XIV e della XV legislatura. Nel febbraio 2007 il Governo Prodi ha varato un disegno di legge (ddl) rimasto all’esame del Senato in sede referente. In 22 articoli, il ddl- che teneva conto anche dei lavori predatori effettuati nella precedente legislatura - aveva l’obiettivo di colmare vuoti di regolazione (principalmente nel campo di servizi a rete), di semplificare l’architettura specialmente in materia di regolamentazione e vigilanza finanziaria, di adeguare ordinamenti, numero dei componenti e metodi di nomina. Era allora ritenuto così urgente che conteneva norme per consentire “l’immediata operatività della riorganizzazione”. Non che il ddl non avesse carenze; frutto anche del lavoro fatto dai Ministri della Funzione Pubblica del Governo Berlusconi, rappresentava comunque una base su cui elaborare una nuova proposta diretta a semplificare l’intera architettura: secondo alcune stime (approssimate per difetto) il solo costo alle imprese di fornire informazioni alla selva delle Autorithies è almeno 40 miliardi euro l’anno ed a tale costo non corrisponde efficienza ed efficacia, nonché vera tutela dei mercati e di chi vi opera. Negli ultimi mesi, inoltre, le tensioni sui mercati finanziari e le difficoltà del decollo della previdenza complementare hanno mostrato a tutto tondo come la debolezza del sistema di regolazione e di vigilanza possa fare correre a tutti più rischi del dovuto. Il suo iter è stato bloccato dalle pressioni particolaristiche e dai veti incrociati che hanno caratterizzato il Governo prima ancora che il Parlamento della XV Legislatura. Occorre riprenderne i punti salienti al più presto nella XVI Legislatura e giungere ad un’architettura che assicuri un miglior funzionamento delle Authorities, eliminando incongruenze e sovrapposizioni.

Liberalizzazioni, capitale umano e, capitale sociale Oggi la Nazione è afflitta da un deficit di liberalismo, una povertà di cultura liberale ascrivibile alla classe dirigente, non solo politica, nel suo complesso. Questo è il punto centrale dei “Rapporti sul processo di liberalizzazione nella società italiana” che dal 1999 Società Libera pubblica ogni anno- l’edizione relativa al 2007 è in uscita in maggio. “Società Libera” è un’associazione apolitica ed apartitica di analisi e riflessioni sui problemi del liberalismo: in giugno di ogni anno conferisce il Premio Internazionale per la Libertà a personalità italiane e straniere. A conclusioni analoghe giungono i “Rapporti” annuali del Censis. E - quel che più conta- le analisi del sistema Italia effettuate annualmente dall’Ocse e dal Fondo monetario.
Negli ultimi anni non soltanto le cosiddette “lenzuolate” promosse dal Ministro allo Sviluppo Economico Pierluigi Bersani hanno avuto effetti trascurabili ma si si è proceduto all’inverso (ad esempio nel caso dell’acquisizione della società Serravalle da parte dell’amministrazione provinciale di Milano a guida di centro-sinistra - , i ritardi nella ristrutturazione dei servizi finanziari, il mantenimento della golden share (e di forme surrettizie ad esse equivalenti). La complessità della regolazione, gli attriti alla circolazione d’informazioni, la debolezza dei meccanismi concorrenziali e di protezione dei diritti di proprietà incentivano l’investimento in attività redistributive e di influenza sul potere pubblico, piuttosto che nello sviluppo di talento creativo, innovazioni e conoscenze utili a competere nei mercati mondiali. Gli alti costi di transazione che appesantiscono il sistema produttivo ed incidono negativamente sulla produttività
L’esigenza di liberalizzazione non riguarda soltanto i beni ed i servizi di mercato ma anche i processi per la produzione dei beni più preziosi alla modernizzazione dell’Italia: il capitale umano ed il capitale sociale. La “riforma Moratti” non solo ha iniziato un adeguamento ai sistemi europei, ma ha rappresentato una di rivoluzione per la scuola in Italia: curriculum personalizzato dello studente, portfolio delle competenze acquisite, forte coinvolgimento delle famiglie, istituzione della nuova figura del tutor per facilitare il rapporto tra insegnanti e genitori, il tutto per moltiplicare le possibilità di scelta consapevole dello studente. Sul fronte degli assetti due sono i punti di responsabilizzazione e consapevolezza: la valutazione di sistema quasi totalmente ignota nella prassi scolastica italiana e l’alternanza scuola-lavoro, obbligatoria anche nei licei come apertura al mondo del lavoro. Il binomio competizione-cooperaziore tra istituti anche nel settore pubblico è l’elemento centrale del lavoro. Occorre riconoscere che “Il quaderno bianco sulla scuola” presentato nell’autunno 2007 prosegue in gran misura sul tracciato allestito nella XIV Legislatura. L’impatto della riforma sulla realtà scolastica non è ad oggi valutabile; segnali di una maturazione dal basso verso una disposizione all’autonomia e alla scelta sono dati, da un lato, dall’impatto delle nuove tecnologie sulla docenza a seguito di una specifica formazione in materia promossa e dall’adozione di sistemi di controllo di qualità nelle scuole che hanno fatto richiesta di finanziamenti europei. Quanto all’Università i provvedimenti varati nella XV Legislatura non offrono novità sostanziali e rappresentano per molti aspetti un passo indietro.
Il mondo della comunicazione, infine, si presenta come un mercato ancora troppo ingessato, nonostante la massiccia introduzione di tecnologie e gli sforzi del legislatore per ampliare gli spazi di libertà e partecipazione. Libertà dei media e libertà degli operatori del mondo dell'informazione sono due dimensioni fortemente interrelate.

I servizi pubblici locali Se dal livello nazionale si passa a quello locale si affronta il variegato capitalismo municipale sviluppatosi in Italia. I dati essenziali sono i seguenti: 370 aziende, 200.000 addetti, un contributo al pil nazionale che varia, per regione, dall’1% al 6% . In questo segmento così rilevante dell’economia italiana si è prodotto tra il 2001 ed il 2006 un calo degli investimenti in rapporto al fatturato dal 20% al 17%. Il calo è stato ancora più pronunciato nei comparti dell’energia dal 20% al 13% e dei trasporti pubblici locali,dal 23 al 20%), Ciò a fronte di persistenti nonché vistose differenze costi del personale e della redditività fra le varia macro-aree (Sud,Centro e Nord)
Queste cifre, danno corpo all’ipotesi secondo cui in certe aree del Paese ed in certi settori l’”ingombro” della politica locale è maggiore che in altre con l’esito che il management, anche di qualità, ha le mani legati pure nel reperimento di finanziamenti (nonostante la disponibilità di risorse private per finanza di progetto). Inoltre, il forte aumento dell’imposizione locale (nel solo 2007 il gettito dei comuni è aumentato dell’8,5%) ha comportato un freno alle tariffe: uno studio delle Università di Brescia e Padova indica che dal 1998 al 2005, gli esborsi per acqua, elettricità e riscaldamento delle famiglie a basso reddito è passata dallo 0,0648% allo 0,0595% della spesa familiare totale, restando al di sotto dei livelli di soglia definiti nel resto dell’Ue. Infine, i tentativi di liberalizzazione e di privatizzazione, che avrebbero dovuto avere grazie alle misure previste nella finanziaria del 2002 sono stati meramente formali. Ci si è mossi in modo discordante in materia di trasporto pubblico locale, gas, energia elettrica e acque. Causando frammentazione ed ingenerando disorientamento tra i potenziali investitori.
La varie versioni del cosiddetto ddl Lanzilotta (lo strumento predisposto nella XV Legislatura per operare in questo campo) non solo prevedevano privatizzazioni prima di dare corpo alle liberalizzzioni (replicando l’errore compiuto a livello nazionale negli Anni Novanta) ma non riducevano l’incertezza né sugli obiettivi dei servizi pubblici locali (trasporti ed energia in prima fila) né sugli strumenti per offrirli ai cittadini nelle condizioni migliori. Non rappresenta un punto d’avvio per la XVI Legislatura.
Come uscirne? Il Dipartimento di Economia del “La Sapienza” propone, in uno studio recente, “una scelta radicale”:“una gestione pubblica separata dalla fornitura del servizio, almeno sino al momento in cui non sarà risolto il nodo degli assetti gestionali” . E’ una soluzione sensata piuttosto che radicale, specialmente in un quadro in cui c’è una spinta imprenditoriale in campi (telecomunicazioni, energia, autostrade) con prospettive di profitto
Un ultimo punto, negli ultimi dieci mesi (mentre l’attenzione del mondo politico era in gran misura rivolta al progressivo disfacimento del Governo Prodi e del Parlamento della XV Legislatura , e quindi alle inevitabili elezioni) le cronache sulla vita delle aziende nelle prime pagine della stampa finanziaria riguardano, in gran misura, tensioni e fibrillazioni tra s.p.a. (Hera, Iride, Gesac, Aem-Asm, Acea) di cui i Comuni, le Province ed in certi casi le Regioni sono tra i maggiori azionisti. E’ un universo vasto, ma poco conosciuto.
Una radiografia utile del settore è stata condotta dalla Fondazione Eni Enrico Mattei (Feem). L’analisi si distingue da altre effettuate in questi ultimi anni – ad esempio dallo studio della Fondazione Civicum che ha esaminato i dati di bilancio di 35 società a controllo comunale in sei grandi comuni e dalle ricerche periodiche della Conservizi – perché esamina il capitalismo municipale, la forma più consistente di imprenditoria pubblica, sotto il profilo dell’entità della partecipazione delle autonomie locali in società di capitali invece che sotto quello della spesa, dell’occupazione o del ruolo degli enti locali (a cui sono affiliate) nella governance delle fondazioni bancarie, temi centrali delle analisi precedenti.
I risultati sollevano più interrogativi di quelli a cui rispondono. In primo luogo, le 370 imprese partecipate da enti locali formano il 6% del pil prodotto in loco ed il 2% dell’occupazione. Siamo, quindi, alle prese con un fenomeno importante sotto il profilo sia dell’economia reale sia della finanza (e pubblica e d’impresa) sia, infine, dell’imprenditorialità.
Il capitalismo municipale è presente non soltanto nei comparti tradizionali dei servizi di pubblica utilità (come l’energia, l’acqua, i trasporti) ma anche in campi puramente di mercato e non necessariamente di competenza pubblica, come le costruzioni, il commercio, il manifatturiero ed i servizi nei comparti più differenti e più variegati. Ci sono incroci complessi nell’assetto azionario delle multiutility: ad esempio, l’azionista di maggioranza della GESAC (Società di gestione degli aeroporti campani) è una multinazionale di origine britannica e tra gli altri soci si contano oltre al Comune ed alla Provincia di Napoli, in posizione nettamente minoritaria, anche il Comune e la Provincia di Milano ed altri privati. La complessità dell’assetto azionario è una delle determinanti delle difficoltà nei processi di aggregazioni in corso, sotto lo stimolo dell’integrazione europea ed internazionale.
Un aspetto dell’analisi riguarda gli effetti dell’ingresso d’azionisti e capitale privato sugli indicatori consueti di redditività finanziaria; le società miste presentano redditività superiore di quelle solamente municipali specialmente in termine di margine operativo lordo. L’eccezione è rappresentata dai trasporti locali, su cui gravano forti vincoli politici a carattere occupazionale che di conseguenza influiscono negativamente su un indice d’efficienza significativo - l’utile per addetto.
Quanto influisce la politica, specialmente quella a livello locale, sulle scelte imprenditoriali? Lo studio non fornisce una risposta puntuale: da un lato, si riconosce ormai generalmente l’esigenza di una professionale manageriale ben distinta da interferenze burocratiche e di politica di piccolo cabotaggio. Dall’altro, la presenza del capitalismo municipale (spesso in perdita) in settori di mercato che poco hanno a che fare con interessi di pubblica utilità suggerisce che a livello locale lo Stato produttore continua ad esistere con i difetti delle partecipazioni statali di un tempo (nonché della Rai, delle Poste, delle Ferrovie, dell’Alitalia ancora oggidì). La maggiore redditività delle società miste rispetto a quelle puramente pubbliche dovrebbe essere un impulso a privatizzare o a meglio regolamentare.
Il percorso non è semplice . Varie alternative sono indicate in un lavoro importante (ma non citato nella ricca bibliografia dell’analisi della Feem): i due volumi, per oltre 1000 pagine (ed in vendita a $ 470, circa € 400) curati da Ray Rees sull’economia delle aziende di pubblica utilità pubblicato alcuni mesi fa dalla casa editrice Cheltenham del Massachusetts.

Conclusioni In termini operativi per la XVI Legislatura, tre linee d’azione appaiono essenziali:

· Riformare le Authorities , riducendone il numero (tramite accorpamenti), eliminando duplicazioni, uniformando criteri di selezione e nomina dei componenti, nonché durata degli incarichi e entità compensi.
· Incoraggiare il binomio competizione-cooperazione nel vasto settore del capitale umano e del capitale sociale.
· Liberalizzare i settori protetti mettendo a punto con le categorie un big bang in nodo che i costi relative (o le perdite relative di rendite di posizione) si elidano a vicenda,
· Definire con una legge quadro le liberalizzazioni, prima, e le privatizzazioni, poi, dei servizi pubblici locali.

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