sabato 10 maggio 2008

PROKOFIEV, “CAPRICCIOSO” DOPPIO GIOCO, IL Domenicale 10 maggio

Come si sono assuefatti gli intellettuali russi ai regimi autoritari? E’ un tema che il “Dom” sta affrontando da un paio d’anni. All’inizio del 2006 (nel n. 3 del 21 gennaio) abbiamo ricordato “il centenario dimenticato” , quello di Dmitri Šostakovič, comunista convinto, ma la cui opera principale (“La lady Macbeth del distretto di Mensk”) venne messa al bando da un editoriale della Pravda ispirato (e secondo alcuni scritto) da Stalin in persona , e costretto a lunghi anni di isolamento. Nell’estate 2006 abbiamo tracciato una panoramica degli intellettuali di San Pietroburgo (Matteo, penso fosse luglio). Più di recente (nel “Dom” del 12 aprile) abbiamo trattato della ribellione, non tanto segreta, di Nicolai Rimski-Korsakov all’autoritarismo di un regime zarista, ormai moribondo. Per una coincidenza del caso, in giugno di potrà vedere ed ascoltare al Maggio Musicale Fiorentino la ripresa di una bellissima edizione (del 1998) de “La lady Macbeth del distretto di Mensk” di Šostakovič ed alla Scala la nuova produzione, in coproduzione con la Staatsoper di Berlino, de “Il giocatore” di Sergej Prokofiev , un’opera composta nel 1915-16 (quando l’autore era giovanissimo) ma la cui “prima” avvenne a Bruxelles nel 1929 – poco messa in scena in Russia ed ancora più raramente in Italia (ne ricordo un’esecuzione alla Scala nel gennaio del 1996 nell’ambito di una tournée del Teatro Marinskj di San Pietroburgo.
Rimandano per Šostakovič a quanto scritto sul “Dom” del 2006, è utile soffermarsi su Prokofiev, noto in Italia principalmente per la sua produzione concertistica, per i suoi balletti, per le sue musiche da film (“Alexandr Nevsky” e “Ivan il Terribile”, ambedue di Sergej Eisestein) e per tre opere, peraltro molto differenti, “L’amore delle tre melarance”, “L’angelo di fuoco” e “Guerra e Pace” . nonché ovviamente per il delizioso “Pierino e il lupo”. Su Prokofiev è stato pubblicato alcuni anni fa un libro esauriente di Piero Rattalino (“Sergej Prokofiev- La vita, la poetica, lo stile”, Zecchini Editore 2003), la cui lettura può essere una buona premessa per meglio godere “Il giocatore”.
In questa sede, tuttavia, gli aspetti della poetica musicale ci interessano meno del rapporto difficile che questo “figlio geniale ma capriccioso” (la definizione è di Tommaso Manera) ebbe con il regime autoritario della propria Patria e soprattutto il camino che fece, dopo avere lasciato la Russia all’inizio di una “rivoluzione proletaria” che per lui – lo ammettono anche i musicologi schierati a sinistra- per lui era almeno “problematica” – vi ritornò (gradualmente) mentre stava cominciando il periodo peggiore del terrore staliniano, ebbe la propria prima moglie deportata nel gulag nel 1948 (e successivamente costretta all’espatrio), cantò non solo le gesta della Russia in guerra contro la Germania , compose nel 1950 l’oratorio più celebrato dal comunismo internazionale (“Siate vigili per la Pace”), e morì quasi alla stessa ora di Stalin tanto che del suo decesso diede notizia un giornale americano quattro giorni dopo e la “Pravda” ben sei giorni più tardi.
Prokofief è stato un “enfant prodige”- già a 11 anni ha composto il testo e la musica di una cantata. Nel clima di una Russia che si avvicinava alla Rivoluzione d’Ottobre, oltre a sfornare una produzione sorprendente, per quantità e per qualità, di cameristica e di avvicinarsi al teatro in musica (con la prima versione de “Il giocatore”, le cui prove furono interrotte dalla Rivoluzione del Febbraio 1917) si appassionò alle espressioni più moderne – dal neobarocco, al futurismo, al dadaismo – tutte molto distanti dal post-wagnerismo della musica tedesca o dal verismo che allora permeava la musica italiana ed, in parte, quella francese e che sarebbe diventato “realismo socialista” nella poetica leninista e stalinista. Pianista di eccezionale qualità, venne accolto a braccia aperte in Occidente quando nel 1918 lascia (in compagnia della madre) la Russia alla volta di Parigi (che aveva già conosciuto ed apprezzato nel 1911, a 20 anni), Londra e Chicago dove, dopo molte peripezie, trionfa “L’amore delle tre melarance”, opera tratta da una commedia di Carlo Gozzi con un ritmo sincopato futurista, una vera e propria di personaggi , un organico orchestrale contenuto ma soprattutto un’ironia sferzante contro gli autoritarismi di ogni genere e specie, i falsi intellettuali, gli utili idioti e via discorrendo. Si è vista al “Carlo Felice” di Genova nel febbraio 2007 ed ho avuto modo di gustare un’edizione godibilissima lo scorso dicembre alla Komische Oper di Berlino. Curiosamente, l’opera ebbe un’accoglienza trionfale a Leningrado (nuovo nome di San Pietroburgo) quando venne ivi rappresentata nel 1927; i burocrati sovietici non si accorsero del suo potenziale rivoluzionario.
Nonostante il carattere vagamente laicista (che sarebbe potuto piacere alla nomenklatura ed alla Commissione per l’Ateismo) un altro capolavoro per il teatro in musica (“L’angelo di fuoco”) , commissionato inizialmente dal Metropolitan (dove non andò mai in scena), restò un manoscritto nella sua casa di Parigi (dove alcune parti vennero eseguite in forma di concerto); la prima rappresentazione scenica fu postuma, ed in traduzione ritmica italiana, al Festival di Musica Contemporanea di Venezia nel febbraio 1955. In effetti, l’insolitamente lungo periodo di composizione del lavoro, coincise per molti aspetti con la sua graduale decisione di ritornare in Russia. Accettò, in primo luogo, di comporre le musiche per un film brillante (che sarebbe stato di grande successo) , “Il luogotenente Kijé”, poi di un balletto, “Romeo e Giulietta”, e di avvicinarsi sempre più ad uno stile che sarebbe stato accattivante per il pubblico russo (ad esempio, il “Primo concerto per violino ed orchestra”), quindi sempre più distante sia dalle esperienze dadaiste e futuriste di pochi anni prima sia dal nuovo linguaggio che prendeva piedi in Germania, in Francia ed in Italia e che avrebbe avvicinato lo stesso Stravinsky (émigré come lui al tempo della Rivoluzione d’Ottobre) alla dodecafonia.
Nell’Unione Sovietica, la vita dei musicisti era severamente regolamentata: suo moglie- si è detto- finì in campo di concentramento prima di essere deportata (si spense a Londra nel 1989), uno dei suoi migliori amici Vsevolod Mejerchol'd, librettista dell’opera “Seimon Kotko”, fu condannato a morte nel corso delle purghe staliniane, si legò ad una donna di giovane età, compose addirittura una “Cantata per il ventennale dalla Rivoluzione d’Ottobre” (da cui se la era data a gambe levate) ed un’altra per il sessantesimo compleanno di Stalin, oltre a lavori più noti (“Guerra e pace”, le musiche per i film di Eisenstein), molti con un forte contenuto patriottico.
Un opportunista, come considerato per anni da certa critica di destra? Un irrimediabile tradizionalista, incapace di prendere atto della crisi del sistema tonale, e di meditare sulla serialità e sulla dodecafonia, come scritto per decenni dalla critica italiana e tedesca di sinistra?
Difficile dare una risposta: il beffardo dadaista e futurista dalla cultura internazionale è forse semplicemente rientrato in Russia sui 45 anni per amore e nostalgia di Patria, pagando il prezzo di venire a patti con il sistema politico imperante. Lo suggeriva nel 1940 in “Seimon Kokto” (curiosa opera comica sulla campagna ucraina ai tempi della prima guerra mondiale) ed ancor meglio un’opera minore del 1948 , singolarmente intitolata “La storia di un vero uomo” ( mai rappresentata in Occidente) in cui si tenta, senza riuscirci, di mostrare cosa è il “vero uomo sovietico”..

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