mercoledì 28 maggio 2008

AD ALITALIA, PER SALVARSI, SERVE UN COLPO DI SCENA

Circa due settimane fa, commentando su L’Occidentale (del 12 maggio) l’evoluzione della situazione dell’Alitalia, scrissi che stavano iniziando i dieci giorni cruciali per il futuro della compagnia. Il 13 maggio, infatti, il CdA era chiamato ad approvare la relazione trimestrale per il periodo gennaio-marzo 2008 ed il 23 il consuntivo 2007. In effetti, erano ampiamente anticipate le perdite finanziarie nel primo trimestre dell’anno in corso aggravate dal disorientamento dei passeggeri e del cargo da mettere anche in relazione con lo spostamento di diversi voli da Malpensa a Roma (incerti sul futuro della s.p.a. hanno scelto altre imprese di trasporto aereo) e dall’aumento del costo del carburante (che colpisce l’intero settore, anche e soprattutto le low cost) . Il CdA in programma il 23 maggio è stato rinviato più volte. Ormai composto di tre sole persone è stato tenuto nella tarda sera del 28 maggio (al limite quasi di quanto previsto dalla normativa) ed ha approvato un consuntivo per l’esercizio che si chiude con perdita di 495 milioni ed una svalutazione della flotta di 97 milioni d’euro. Quasi per addolcire il comunicato, il CdA ricorda che nell’esercizio 2006, le perdite sono state ancora maggiori (627 milioni di euro, ossia circa due milioni di euro al giorno) e che la riduzione dei ricavi da traffico hanno subito un calo solo leggermente inferiore al 5%..
Molti osservatori (a conoscenza dei dati) pensavano che il CdA si sarebbe concluso con un coup de théâtre, ossia un colpo di scena: dimissioni di tutti per costringere il Governo a nominare un commissario ed iniziare una delle possibili strade che sembrano inevitabili: una procedura giudiziaria di fallimento o di liquidazione, la vendita di rami d’azienda promettenti (con scorporo della compagnia), un’operazione in base alle legge Marzano per corresponsabilizzare i creditori nell’eventuale rilancio di quel-che-resta della compagnia. Invece, si sono letti i soliti auspici che qualcuno individui un nuovo azionista od una cordata di nuovi azionisti disposti a portare risorse fresche. Le risorse fresche – alla Magliana nessuno lo cela – sono indispensabili in quanto l’operazione contabile (di cui peraltro la Commissione Europea mette in dubbio le basi giuridiche) per trasformare in capitale il recente prestito di 300 milioni ha il fiato corto. Per avere esiti positivi di medio e lungo periodo, tali risorse devono essere accompagnate da capacità organizzativa ed industriale che oggi sembrano fare difetto.
Riuscirà Bruno Ermolli (incaricato da Silvio Berlusconi di risolvere il puzzle) ad essere l’esorcista in grado di liberare Alitalia dalla maledizione che la affligge da tre lustri- essere troppo piccola perché possa competere con le major sui cieli mondiali ma troppo grande per operare unicamente su piano interno e regional-europeo? Non mancano – ma lo si dice ogni giorno con voce più sommessa – gli istituti di credito pronti ad affiancarlo, sempre che venga individuato un partner industriale adeguato. C’è un partner che si fa avanti da mesi – ed a cui non può essere imputato di essere entrato ed uscito dalla pasticciata procedura di ricapitalizzazione e privatizzazione messa in atto dal Governo Prodi: la AirOne. Tuttavia, molti si chiedono se AirOne a) sia all’altezza tecnico-industriale del compito e b) non stia scivolando verso una situazione finanziaria analoga a quella dell’Alitalia tanto che un’eventuale fusione tra i due vettori aggraverebbe i problemi invece di risolverli.
I dubbi sulla capacità tecnico-industriale sono sollevati (senza tanti se, ma o però) dai tedeschi di Lufthansa , alleati di AirOne, nella cordata commerciale Star Alliance. I dubbi sulla capacità finanziaria sono stati documentati da una serie di servizi su “Il Sole-24 Ore”, sino ad ora mai smentiti. A margine dell’assemblea della Confindustria, la settimana scorsa, il Presidente e Fondatore d’Air One, Carlo Toto, ha ribadito che l’interesse della impresa in Alitalia non è mai venuto meno. La decisione del Consiglio di Stato secondo cui si deve rifare nelle prossime due settimane la gara per l’acquisto di Volare (una lunga vertenza tra Carlo Toto e quella che viene ancora chiamata “compagnia di bandiera). Ciò sembra aprire nuovi spiragli per la giovane compagnia italiana con sede operativa a Chieti. Questi spiragli inducono certamente Air One a non cedere il passo. Potranno, però, portare ad una riconsiderazione da parte delle società internazionali del settore, senza il cui apporto è difficile che Alitalia possa andare lontano?
Questi oggi i termini del problema. In breve, se non c’è un colpo di scena, siamo all’epilogo. Un epilogo che non potrà non essere strumentalizzato da un’opposizione che, nella XV legislatura, ha ingarbugliato alla grande la già complicata vicenda.

Ve lo dico io LOMBARDIA E LIGURIA BACIATE DAL PONTE Libero del 28 maggio

Alla fine degli Anni Settanta nelle vesti di dirigente di una divisione della Banca mondiali, visitai la diga d’Inga; scrissi nell’albo degli ospiti: “Mi spiace di avere bocciato il finanziamento anche se sono ancora convinto che non è un investimento tale da reggere ad un’analisi finanziaria ed economica”. La diga è un enorme complesso per portare elettricità dalle vicinanze della capitale di quello che allora era chiamato Zaire alla regione mineraria, lo Shaba. Aveva una capacità di produzione pari al 30% dei consumi effettivi d’elettricità degli Usa nel 1950; un miracolo d’ingegneria e di tecnologia, ma chiaramente sovradimensionato. Il suo costo (ed il suo finanziamento in gran misura tramite crediti concessi dai fornitori) fu una delle determinanti del collasso finanziario del Paese. La sua costruzione e la sua messa in opera sono, però, state un collante della “Nation Zairoise” (come si chiamava allora), un caleidoscopio d’etnie differenti che, pochi anni dopo il completamento della linea di trasmissione da Inga allo Shaba, esplosero in una guerra civile, peraltro ancora in atto. Ciò vuol dire che Inga non aveva una giustificazione economica ma aveva una non secondaria funzione politica: il tentativo di dare unità nazionale al mosaico di razze di cui era, ed è, composto il Congo (nome storico ed attuale del vasto Paese).

Non se giungerò mai a dare “uno sguardo dal ponte”. Non il mirabile testo di Arthur Miller, trasformato in film tre volte e in opera lirica almeno due. Ma da quello più prosaico sullo stretto di Messina di cui si parla sin dall’antichità e che adesso è promesso in funzione per il 2016 (o giù di lì). Verosimilmente a Villa San Giovanni in Calabria o nei pressi della laguna di Gazirri in Sicilia ci sarà un albo per i visitatori. Se ci andrò, vi scriverò qualcosa d’analogo a quanto vergato nell’ormai ingiallito album dei visitatori d’Inga.

Il dibattito sull’opera è ripreso in queste settimane. E’ tra le priorità del programma del Governo per le infrastrutture ma la stessa Presidente della Confindustria (non i “verdi” d’Alfonso Pecoraro-Scanio) ha messo in dubbio la priorità dell’investimento (rispetto a quella d’altri progetti come l’alta velocità ferroviaria). Un elegante libro pubblicato dalla Società Ponte di Messina (si veda nel box) solleva più interrogativi (sulla redditività economica e finanziaria del progetto, e sulla sua stessa sostenibilità) di quelli a cui risponde. In ogni caso, il general contractor (contraente generale) responsabile per l’opera complessiva è già in pista poiché la gara è stata svolta durante la XIV legislatura. E’ l’Impregilo. Il finanziamento dovrebbe essere attuato con una modalità parziale di “finanza di progetto” (40% pubblico, 60% privato). Ci sono dubbi sui costi finanziari (probabilmente lievitati da 5.130 milioni di euro (6.036 milioni di euro tenendo conto degli interessi capitalizzati durante il periodo di costruzione) a circa 6500 milioni di euro, a ragione dei ritardi subiti in seguito alla decisione del Governo Prodi di accantonare il progetto. Ciò comporta, quindi, un aumento del finanziamento pubblico (da 2.583 del programma originario a circa 3 miliardi d’euro) ed un aggiustamento conseguente di quello privato. In queste settimane l’attenzione, pure internazionale, è sul reperimento dei finanziamenti privati e delle condizioni a cui essi saranno messi in campo, data la turbolenza ancora in atto nei mercati finanziari mondiali.

Uno sguardo sul ponte dovrebbe, però, rivolgersi anche ad altri aspetti. In primo luogo, alla sostenibilità finanziaria. Ci sono due tipologie differenti d’analisi finanziaria: dal punto di vista del gestore e dal punto di vista degli utenti. Si tratta di definire tariffe tali da permettere al gestore di coprire i costi ed ottenere, dopo alcuni anni, un cash flow (flusso di cassa) positivo ed anche un buon margine operativo lordo ma anche da non scoraggiare gli utenti ad utilizzare l’infrastruttura. Ciò comporta un’attività di regolazione niente affatto semplice al fine di ricavare i tassi interni di rendimento (Tir) sia al gestore sia a varie tipologie di utenti. Nella pubblicazione della Società Ponte di Messina si parla di un Tir del 9% ma non si specifica se ci si riferisce al gestore, ad alcune categorie d’utenti, ad una media ponderata tra i Tir afferenti a tutte le categorie d’utenti. Inoltre, non sono esplicitate né le ipotesi né la “robustezza” dell’indicatore. A riguardo, un Tir del 9% supera di poco il tasso marginale di rendimento dell’investimento pubblico (secondo le ultime stime econometriche fatte). Se l’indicatore fosse “fragile”, invece, che “robusto” basterebbe che la realtà effettuale fosse di poco meno positiva delle ipotesi per mettere a repentaglio la sostenibilità dell’investimento. E rendere necessario l’intervento dello Stato per la gestione. Forse per sempre.
Se è stata fatta un’analisi finanziaria accurata ma secondo metodiche tradizionali, quali quelle indicate nel libro citato nel “Box”, essa andrebbe integrata con due strumenti che stanno entrando nella prassi: una “Simulazione di Montecarlo” per valutare il rischio finanziario ed un’analisi finanziaria estesa alle “opzioni reali” per esaminare la fragilità o meno del 9%. Non si tratta d’innovazioni peregrine. In Italia sono state utilizzate, tra l’altro, per esaminare il programma di transizione da televisione analogica a digitale, il passante stradale e ferroviario della Basilicata, il distretto turistico culturale di Trapani-Erice. La documentazione è disponibile presso il Ministero dello Sviluppo Economico e la Fondazione Ugo Bordoni. La rivista “Rassegna Italiana di valutazione” ha dedicato due anni fa un fascicolo speciale a questi temi. Vengono tenuti regolarmente corsi su questi argomenti in alcune università ed alla Scuola superiore della pubblica amministrazione. Non mancano, quindi, a casa nostra le professionalità a cui rivolgersi. In aggiunta, la Banca Mondiale ha un vasto programma di sperimentazione e queste tecniche sono state utilizzate per ri-programmare gli aeroporti nel Nord Europa. Quindi, ci si può indirizzare a professionalità straniere. Ciò è tanto più essenziale poiché la documentazione esistente sembra fare pensare che ancora una volta (altro caso celebre è la costosa ristrutturazione del Teatro alla Scala) si è, sotto il profilo finanziario, alla prese con un’”opzione call” nei confronti dell’erario. L’”opzione call” diventa tanto più forte nell’ipotesi che il ponte diventi l’unico modo di trasporto ferroviario; ove si ripetessero le vicende dell’Eurotunnel , il “call” verrebbe esercitato (pure ripetutamente) al fine di non interrompere il collegamento tra la Sicilia, da un lato, ed il resto dell’Italia e dell’Europa, dall’altro.
Superati, in modo affermativo, i nodi dell’analisi finanziaria, occorre rivolgersi all’analisi economica. Ancora una volta ci sono due aspetti distinti: gli effetti di breve periodo, nella “fase di cantiere”, ed il rendimento economico nell’arco di tutta la vita del progetto. La stima dei primi è resa più difficile dal fatto dalla metà degli Anni Novanta la matrice di contabilità sociale (ossia il quadro delle interdipendenze settoriali ed istituzionali del Paese) non è aggiornata che per comparti. Tuttavia, l’Università di Palermo è uno dei pochi cenacoli in Italia in cui si lavora con tali strumenti (ampliamente impiegati per la messa a punto di uno dei piani regionali di sviluppo della Regione Siciliana): dunque, non si partirebbe da zero. E’ utile ricordare che la Signora Thatcher ritirò il finanziamento pubblico al tunnel sotto la Manica quando l’analisi degli effetti mostrò che i principali benefici sarebbero stati nel corridoio tra Parigi e Colonia. Analogamente, all’inizio degli Anni Ottanta un’analisi preliminare degli effetti di cantiere del Ponte sullo Stretto indicò che i benefici sarebbero ricaduti soprattutto sulla Lombardia e sulla Liguria. Ce n’è, dunque, a sufficienza per fare di nuovo l’analisi con dati e strumentazione aggiornata.
L’analisi economica sull’intera vita del progetto presenta aspetti delicati ma non particolarmente difficili dato l’ampio lavoro manualistico (si pensi ai testi di Hans Adler) proprio su progetti di trasporto. I punti più complicati riguardano le esternalità tecnologiche a carattere ambientale ed il valore da attribuire ai consumi delle generazioni future (a ragione della lunga vita economica del progetto). Sono tematiche su cui si è lavorato molto proprio all’Università della Calabria ed alla Scuola superiore della pubblica amministrazione.
Effettuate queste analisi è possibile quel dibattito a carte scoperte (come quello sulla conversione della centrale di Montalto di Castro da termonucleare a policombustibile) che sino ad ora è mancato. Potrebbe ridurre numerose legittime, anzi doverose, preoccupazioni sull’economicità e sostenibilità finanziaria dell’opera. Ritardarlo non giova a nessuno. Tanto meno a chi crede nel ponte e per il ponte lavora.

LA MALEDIZIONE DELLE GRANDI OPERE E’ IN AGGUATO ANCHE IN SICILIA
Un libro per un ponte. Ma quale Ponte? Il Ponte per eccellenza – quello che, sullo stretto di Messina, dovrebbe collegare la Sicilia con il territorio che Angelo Musco chiamava, con un pizzico d’esagerazione, “Il Continente”. Il volume è stato curato da una docente di storia moderna (Laura D’Antone) che ha scritto un pregevole saggio introduttivo sul valore “costituente” delle infrastrutture dal 1860 al giorno d’oggi. D’altronde del collegamento tra Messina e la Calabria si parlava sin dai tempi di Archimede; quindi, si sarebbe potuto andare anche più in là nell’analisi storica. Il libro contributi di manager delle partecipazioni statali (Pietro Ciucci), urbanisti e trasportasti ( Pierluigi Coppola, Domenico Gattuso , Bruno Filippo La Padula, Agostino Nuzzolo, Silvio Pancheri; Francesco Russo) ed economisti (Michele Capriati, Domenico Cerosimo, Laura Raimondo). I vari capitoli hanno un taglio non-tecnico, anzi quasi divulgativo.
Il suo pregio principale consiste nell’offrire, a lettori non specialisti, un panorama complessivo dello sviluppo locale e delle reti sia nella sponda dell’Adriatico sia in quella del Tirreno, di analizzare il ruolo del Mezzogiorno nei trasporti del Bacino del Mediterraneo, di riassumere i punti salienti del progetto specifico relativo al ponte sullo stretto, a tratteggiarne gli aspetti ambientali ed ad indicare come dovrebbe essere fatta un’analisi dei costi e dei benefici economici (dal punto di vista della collettività) per l’infrastruttura.
Il punto più debole è che l’analisi economica (di cui è indicata la metodica) non è effettuata, o quanto meno esplicitata. Si resta, quindi, con più interrogativi, sulla convenienza del megaprogetto di quelli che si avevano quando si è aperto il libro. Ad esempio, quali saranno gli “effetti” del Ponte nella fase di cantiere, quali modellistica economica e quali dati sono stati utilizzati per stimarli? Quali sono le tariffe minime per assicurare, da un lato, che automobilisti e ferrovie siano pronti ad utilizzarlo ed evitare che la vicenda finisca in un marasma finanziario analogo a quella dell’eurotunnel sotto la Manica? Come si sono stimati i benefici economici? Per i benefici ed i costi finanziari ed economici è stata fatta un’analisi di rischio?
Non sono domande peregrine, quando sono in ballo le risorse della collettività e quando si è alle prese con “la maledizione dei megaprogetti” quale documentata nel volume di Bent Flyvbierg, Nils Bruzelius e Werner Rothengatter “Magaprojects and risks: an anatomy of ambition”, pubblicato dalla Cambridge University Press. Il lavoro analizza 258 “mega progetti” (210 sono nel settore dei trasporti) in tutto il mondo; nel 90% dei casi i costi effettivi sono stati molto superiori (28%) alle stime iniziali; nel 40% casi la domanda è stata notevolmente inferiore alle aspettative (mandando a soqquadro l’equilibrio costi-ricavi); nel 9% è stata, invece, superiore (creando congestione). Gli aumenti dei costi e gli sfasamenti tra domanda stimata ed effettiva comportano ritardi oppure riduzione degli standard tecnici oppure ancora opere incomplete.

Leandra D’Antone (a cura di)
La rete possibile. I trasporti meridionali tra storia, progetti e polemiche
Donzelli Editore, Roma
160 pp. € 18

NELL’ANNO DI PUCCINI RISCOPRIRE LA “MUSICA CONDANNATAì" Il Velino del 28 maggio

A Lucca e a Torre del Lago le celebrazioni dei 150 anni dalla nascita di Giacomo Puccini stanno arrivando al momento più importante: a) l’inaugurazione, il 15 giugno, del nuovo Grande Teatro a Torre del Lago (una struttura fissa ad anfiteatro all’aperto per 3200 posti con, nel suo ambito, un auditorium al chiuso per circa 500 spettatori); b) il 54esimo Festival Pucciniano e c) un convegno internazionale di studi iniziato a Lucca il 23 maggio ma che sino a novembre proseguirà anche a Milano ed a New York.
La costruzione del nuovo Grande Teatro è stata finanziata quasi interamente da enti locali (Regione, Provincia, Comune) e da sponsors (Enel, Poste, Fondazione Monte dei Paschi di Siena e molti altri). La biglietteria copre il 43% dei costi di gestione del Festival Pucciniano di Torre del Lago (luglio- agosto). Il programma musicale è affiancato da una serie di mostre (ad esempio Puccini e la sua terra; Puccini ed il suo tempo) allo scopo di effettuare anche un’operazione di “marketing territoriale”. Dato che le opere di Puccini vengono rappresentate, con successo, in tutti i continenti, gli enti locali, il Centro Studi e la Fondazione Festival intendono cogliere l’occasione del 150nario per incoraggiare i pucciniani ed il turismo culturale in generale a visitare i luoghi dove il compositore è nato ed è cresciuto ed ha passato diversi anni della sua vita adulta.
Non è caso di fare durare le celebrazioni oltre 2008? Si può farlo prendendo spunto dalla ricorrenza pucciniana per tirare fuori dagli archivi la “musica condannata” Musik” italiana. Di cosa si tratta? “Entertete Musik” ovvero “musica degenerata” è il nome che la Germania nazista affibiò a gran parte dell’innovazione musicale che tra il 1920 ed il 1942 su sviluppò al di là delle Alpi e del Reno. Una mostra di “Entertete Musik” venne addirittura organizzata a Düsserdolf nel maggio 1938 quando gran parte dei musicisti “degenerati” erano riparati all’estero e qualcuno di loro (come Walter Baunfels) inviato al confino Si possono individuare due filoni distinti: uno principalmente austriaco che ebbe sbocco nella dodecafonia (Schömberg, Berg, Zemliksky) ed uno di stampo più prettamente tedesco (Korngold, Schreker, Krenek, Weill) in cui l’esperienza post-romantica si fondeva con l’espressionismo, la musica popolare ed il jazz . La “Entarteke Musik” tedesca non è mai stata considerata “degenerata” in Italia. In piena guerra, nel 1942, al Teatro dell’Opera di Roma è stato rappresentato “Wozzek” di Alban Berg (opera vitatissima in Germania) in versione ritmica italiana (secondo l’uso dell’epoca) e con Tito Gobbi nella veste di protagonista. Inoltre, oltre a Berg, un altro “degenerato” Krenek era tra gli ospiti abituale del Festival internazionale di Musica Contemporanea di Venezia, lanciato per decisione specifica di Palazzo Venezia come concorrente del Festival di Salisburgo.La “Entartete Musik” è tornata nei teatri di tutto il mondo – ed una collana di dischi della Decca. In Italia, non solamente le due principali opere di Berg sono sempre state presenti nei cartelloni ma da un paio di lustri si ascoltano e si vedono anche drammi in musica di Korngold, Krenek, Schreker, Schömberg, e Zemliksky, con un certo successo di pubblico, oltre che di critica.
C’è però anche una versione italiana della “Entarteke Musik”. Chiamiamola “musica condannata” per non confonderla con quella di Oltre Reno. La “musica condannata” italiana nasce proprio nell’ultima fase della vita di Puccini. Per parafrasare il titolo di uno dei maggiori lavori di Schreker, è rimasta, dopo la seconda guerra mondiale, “bollata” per decenni dall’accusa d’essere “musica fascista”. Benito Mussolini, violinista dilettante (pare di pessima qualità), aveva un notevole interesse nella musica, e nella politica musicale, in particolare per l’opera lirica. I motivi erano due: l’essere espressione d’italianità ed avere un forte appello popolare. In effetti, nel ventennio, nonostante l’avanzata del cinema come forma di spettacolo per le masse e l’inizio della crisi finanziaria dei teatri d’opera, la lirica era ancora di grande richiamo. Nascevano gli enti lirico-sinfonici ed i teatri “di tradizione” , sovvenzionati in varia misura dallo Stato; tutte le città avevano stagioni d’opera; la mano pubblica sosteneva artisticamente i palcoscenici di provincia con iniziative itineranti , quali il “carro di Tespi”. Il Governo (Mussolini trattava in prima persona molte di queste questioni) doveva barcamenarsi tra due scuole contrapposte: i tradizionalisti (Mascagni, Cilea, Giordano, Montemezzi) e gli innovatori (Casella, Malipiero, Pizzetti, Dallapiccola, Russolo, Pratella). Con rare eccezioni (quali le opere più popolari di Mascagni, Cilea e Giordano) sono spariti dai nostri cartelloni, mentre alcuni di loro (si pensi a Montemezzi) sono nella programmazione ordinaria dei maggiori teatri americani, tedeschi e britannici. E’ stata accusata di fascismo anche la musica di Dallapiccola nonostante sia stato uno dei rari professori universitari a dare le dimissioni al momento del varo delle leggi razziali.
Sarebbe uno sbaglio sostenere che si tratta di lavori che meritano di essere indiscriminatamente riproposti: ad esempio, il “Nerone” di Mascagni (al cui libretto pare abbia collaborato Mussolini in persona) è lavoro polveroso, magniloquente e di pessima fattura. Altri (come “La Nave” di Montemezzi o “L’Orfeide” di Malipiero) richiedono uno sforzo produttivo che pochi teatri sarebbero in grado di sostenere.
Proprio partendo da Gian Francesco Malipiero (che era l’antitesi di Puccini) si potrebbe, nell’anno pucciniano, fare una scommessa e riproporre un autore di spicco della “musica condannata” italiana. Penso a due opere: la commedia “I capricci di Caillot” (importandone, se si vuole, un allestimento di quelli correnti in Germania e Svizzera) e il dramma “La favola del figlio cambiato”. La messa in scena della seconda avrebbe anche un contenuto ironico.
L’idea di un connubio tra Luigi Pirandello (autore del libretto) e Gian Francesco Malipiero (compositore della musica) sarebbe stata proprio di Mussolini che vedeva una grande sintesi di italianità (il maggior scrittore ed il maggior musicista dell’epoca) per un’opera che avrebbe dovuto viaggiare in tutto il mondo. Il Capo del Governo volle presenziare alla prima, a Roma il 24 marzo 1934. Dopo il primo atto, diventò furioso e stimolò una vera e propria ribellione del pubblico. Le cronache dicono che passeggiava nervoso nel Palco Reale (disturbando l’esecuzione) sbraitando contro la commissione di censura ministeriale: “Una scena in una casa di tolleranza?E la moralità? E la famiglia? Me presente!!!”. “D’avanguardia”, forse. Purché puritana.

martedì 27 maggio 2008

IL PROJECT FINANCING VADA OLTRE PARCHEGGI E CIMITERI, Libero 27 maggio

Il programma triennale di riassetto di finanza pubblica delineato dal Ministro dell’Economia e delle Finanze Giulio Tremonti pone l’accento, tra l’altro, sull’apporto di privati al finanziamento d’opere pubbliche al fine sia d’alleggerire l’onere complessivo sull’erario sia di progettare e realizzare con maggiore efficienza ed efficacia. In Italia esiste una normativa apposita da circa dieci anni. Un’Unità tecnica di finanza di progetto (Utfp) è adesso collocata in Presidenza del Consiglio (ma sito www.utfp.it si trovano dati soltanto sino al 2006). Un’analisi del Fondo monetario rivela che già negli Anni Novanta il 20% delle infrastrutture in Paesi in via di sviluppo è realizzato con l’apporto del project financing , o , nel nostro lessico, finanza di progetto.
L’Italia è stata uno dei precursori in materia, con il finanziamento della ferrovia Napoli-Portici prima ancora dell’Unità. Numerose “ferrovie in concessione” nel XIX e nel XX secolo sono state realizzate con strumenti che oggi verrebbero chiamati finanza di progetto. La cultura, quindi, non dovrebbe mancare ma essere radicata. Decenni d’intervento pubblico hanno probabilmente fatto dimenticare il ruolo che il nostro Paese ha avuto in questo campo. La lettura delle relazioni annuali dell’Utpf dovrebbe frenare gli entusiasmi di Giulio Tremonti: trattano più d’iniziative promozionali e di tentativi che di realizzazioni effettive. Nonostante il lavoro dell’Utfp sia affiancato da programmi di formazioni curati dalla Scuola superiore della pubblica amministrazione (Sspa) e dal Formez , i risultati sono (sino ad ora modesti): le stazioni appaltanti sono quasi sempre i comuni (l’85,5% del totale), specialmente quelli di piccole e medie dimensioni, e le priorità riflettono quindi quelle di infrastruttura comunale (specialmente, parcheggi, cimiteri, impianti sportivi e riqualificazione urbana). Quindi, progetti di piccole dimensioni (l’importo medio è sceso dagli 8 ai 5,5 milioni d’euro, mentre analisi internazionali affermano che l’efficienza e l’efficacia si ha per progetti il cui costo supera i 20 milioni d’euro). Si prediligono, quindi, i settori semplici e meno rischiosi.
E le grandi opere? Appena due anni fa un interessante volume dell’Istat (con un’accurata analisi a livello provinciale) ci ha ricordato che siamo in ritardo rispetto a gran parte degli altri Paesi europei di grandi e medie dimensioni; gli aggiornamenti periodici (e studi della Confindustria ed altri) indicano che da allora la situazione non è migliorata, ma peggiorata. E’ una delle componenti della scarsa produttività multifattoriale ed uno dei freni a fare “rialzare l’Italia”. Una ricerca ancora in corso condotta sotto l’egida della Fondazione Iri sottolinea, in base in gran misura dell’esperienza della Gran Bretagna e della Francia, come ci sia molto spazio e come lo strumento della finanza di progetto non sia utilizzato al pieno della sua potenzialità. L’esperienza britannica non consente di nutrire eccessive illusioni sul volume di capitale privato (che potrà essere veicolato verso opere pubbliche) ma fornisce indicazioni concrete di come la partnership pubblico-privato è un metodo efficace per migliorare l’efficienza. Secondo gli organi di controllo del Regno Unito, il 76% delle operazione attuate facendo ricorso alla finanza di progetto viene completato nei tempi previsti nei rispettivi programmi lavoro (rispetto al 30% dei progetti finanziati unicamente con risorse pubbliche); appena il 22% delle operazioni di finanza di progetto sono rinegoziate (per aumenti dei costi) rispetto al 73% dei progetti a carico interamente di Pantalone. Ciò suggerisce che lo strumento meriterebbe di essere utilizzato con maggiore frequenza (e per progetti di maggiore consistenza) anche se l’apporto di risorse finanziarie fosse modesto e i benefici riguardassero quali esclusivamente l’efficienza della realizzazione delle opere pubbliche interessate.
Ci sono verosimilmente aspetti normativi che vanno corretti. Occorre anche operare sulla qualità del lavoro delle stazioni appaltanti (perciò la formazione). Nel 2006 l’Italia è stata il Paese Ue che ha bandito più gare per finanza di progetto (41) ma solamente una è andata in porto. A titolo di raffronto, la Spagna ha bandito 26 gare; l’esisto è stato buono con 16 progetti già in fase di realizzazione. Non mancano proposte per cambiare questa situazione (una “blueprint” interessante è stata presentata dall’Abi). Vanno valutate con attenzione. Non si può eludere il problema.

QUANDO CONOSCEREMO L’ANALISI DI RISCHIO SUL PONTE DI MESSINA?


Gran parte del dibattito sulla finanza di progetto in corso in Italia riguarda la ripartizione del rischio tra partner pubblico e partners privati. Tale dibattito, a mio avviso, è poco utile se non è preceduto da un’intesa sulle metodiche d’analisi di rischio attinenti al progetto (preliminare a dibattiti sulla sua ripartizione). Nel 1968 da 26enne neo assunto in Banca mondiale sono stato iniziato alla finanza di progetto lavorato su un complicato progetto multi-scopo (idroelettrico ma anche di irrigazione, riforma agraria e viabilià) : El Chocon in Argentina . Le analisi di rischio, innovative per l’epoca, sono state pubblicate nel Technical Paper n. 325 della Banca Mondiale ed in saggio apparso, nel 1975, nel periodico “Management Science” n. 12 dell’Università di Harvard). I partners privati erano molteplici e la Banca Mondiale entrava non solo con un prestito ma anche con partecipazione al capitale. Allora, 40 anni fa, l’analisi di rischio è stata effettuata con la tecnica statistica chiamata “Simulazioni di Montecarlo”, ancora impiegata (ovviamente aggiornata) dai maggiori organismi internazionali. La tecnica fu molto utile nella ripartizione del rischio tra i finanziatori. Quanto è utilizzata in Italia? Con quale frequenza? Quando saranno rese pubbliche, ad esempio, le “Simulazioni di Montecarlo” per il Ponte sullo Stretto?

lunedì 26 maggio 2008

CI PUO' SALVARE SOLO UNA FINANZIARIA SMILZA Il Tempo 26 maggio

Il Ministro dell’Economia e delle Finanze Giulio Tremonti non ha promesso una finanziaria “leggera”. Non avrebbe potuto farlo data la situazione dei conti pubblici – e del “buco annunciato” di cui Il Tempo è stato attento “chroniqueur” – e data una crescita vicina allo zero dell’economia reale, eredità, in varia misura, dell’aumento del carico fiscale e contributivo attuato dal Governo Prodi e delle conseguenze negative su consumi ed investimenti.
Venerdì 23 maggio, le stime del “consensus” (i 20 maggiori istituti econometrici , tutti privati e nessun italiano) davano come quadro probabile per l’Italia del 2008 un incremento del pil dello 0,6% ed un tasso d’inflazione prossimo al 3%; per il 2009 il pil aumenterebbe appena dell’1% ed i prezzi al consumo dello 2,5%. Al di sotto della media dell’area dell’euro, la crescita reale (1,6% l’anno in corso; 1,5% il prossimo), ma leggermente al di sopra il tasso d’inflazione. Un risultato di cui il centro-sinistra non dovrebbe essere fiero.
In questo quadro, l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni (ossia il disavanzo dei conti pubblici) per il 2008 è attorno al 2,5%, mentre il rapporto tra stock di debito e pil (1.650 miliardi d’euro) si aggira sul 104% del pil ed è aumentato del 10% negli ultimi 12 mesi (ancora una volta a causa, in parte, della gestione del precedente Esecutivo). Tremonti si è impegnato a giungere all’azzeramento del disavanzo nell’arco di tre anni, ossia entro il 2011, come convenuto con gli altri Paesi dell’area dell’euro. Ha anche indicato che ciò comporta un aggiustamento dei conti pubblici di 30 miliardi d’euro, sui prossimi tre esercizi finanziari, principalmente tramite riduzioni di spesa. Non ha precisato come la manovra sarà articolata, ossia se più “pesante” il primo anno e meno quelli successivi oppure di pari portata in ciascun esercizio. Ha fatto intendere che la legge finanziaria sarà verosimilmente anticipata di alcuni mesi.
Cosa suggerire? In primo luogo, una finanziaria smilza di un solo articolo (sui saldi) preceduta da un unico documento (che incorpori tanto il Dpef di giugno e la Rpp di settembre) snello, privo di riferimenti accademici e tale da far sì che il Parlamento si concentri sui temi fondamentali. In secondo luogo, poiché non c’è ancora una norma sulla “non emendabilità” del ddl, la disciplina della maggioranza nel non farlo diventare un carro di Tespi durante l’iter parlamentare. In terzo luogo, un ddl collegato alla finanziaria rivolto a i) facilitare l’avvio di un nuovo processo di privatizzazioni e de-nazionalizzazioni (il solo veicolo per ridurre lo stock di debito) e ii) introdurre nell’ordinamento italiano la “sunset legislation”, normativa “del tramonto” ossia dell’abrogazione automatica, dopo un certo numero di anni, di norme di ogni sorta (l’unico veicolo contro quello che in un saggio d’alcuni anni fa Tremonti in persona chiamò “Lo Stato Criminogeno”).
Sono poche misure. Avrebbero un impatto positivo per l’Italia di domani e di dopodomani.

sabato 24 maggio 2008

IL TAGLIO DELLA SPESA PUBBLICA DEVE PARTIRE DAI DIPENDENTI, Libero 24 maggio

Colpire l’avversario all’improvviso è una tattica utilizzata sin dai tempi degli Ittiti e codificata nei manuali di guerra dei generali egiziani. Come ha scritto a tutto tondo Libero Mercato del 21 maggio, il Ministro dell’Economia e delle Finanze Giulio Tremonti ha colto tutti di sorpresa presentando i lineamenti della programmazione economica e finanziaria per i prossimi tre anni il 20 maggio, mentre l’attenzione di tutto il mondo politico ed economico era rivolta all’allora imminente sessione del Consiglio dei Ministri a Napoli ed ai temi della sicurezza e delle discariche.
Sotto il profilo quantitativo, il programma triennale delineato da Tremonti non è sostanzialmente differente da quanto anticipato da alcuni mesi in questa rubrica e su questo giornale: il Governo Prodi ha lasciato una pesante eredità (è un modo elegante per parlare della “cronaca del buco annunciato” tracciata sin dalla metà del 2007) che il Ministro dell’Economia e delle Finanze propone di ammortizzare su tre anni allo scopo di mantenere immutato l’obiettivo, concordato con gli altri Paesi dell’area dell’euro, di giungere al pareggio di bilancio entro il 2011. Le risorse necessarie, sull’arco triennale, vengono quantizzate dal Ministro dell’Economia e delle Finanze in 20-30 miliardi di euro. Le nostre stime propendono più per la cifra più elevata che per quella più bassa delle due indicate. Inoltre, l’aggiustamento – viene annunciato – sarà in gran misura dal lato della spesa piuttosto che da quello delle entrate (che sarebbero in effetti soggette a ritocchi specifici su alcuni settori che hanno fruito di utili considerati eccezionali, oltre che ad uno sforzo aggiuntivo di recupero dell’evasione e dell’elusione tributaria ). In tal modo, si bloccano immediatamente eventuali richieste dei dicasteri di spesa. Una manovra dal lato prevalentemente della spesa richiede, però, la definizione di criteri chiari e precisi specialmente se si vuole il consenso non soltanto delle parti sociali ma anche e soprattutto delle pubbliche amministrazioni, il cui apporto è, in ogni caso, essenziale per realizzarla.
A mio avviso, un primo criterio, per grossolano che può sembrare, dovrebbe essere quello di salvaguardare la spesa in conto capitale con elevati saggi di rendimento all’economia. E’ meno rozzo di quel che sembra se si pensa che nel 1996-2001, l’aggiustamento dal lato della spesa è stato fatto quasi interamento riducendo l’investimento pubblico o ritardano i pertinenti pagamenti; un’analisi della Banca d’Italia dimostra che in quel periodo la spesa pubblica per investimenti è stata più che dimezzata (rispetto alla percentuale del pil riportata nei dieci anni precedenti) E’ stata una tattica miope di cui ancora oggi si avvertono le conseguenze in termini d’effetti negativi sul sistema produttivo a ragione delle carenze delle infrastrutture. Una tattica analoga (nonostante il forte aumento della pressione fiscale attuato con la finanziaria del 2006) è stata seguita negli ultimi due anni; l’Osservatorio Ance lamenta che le opere pubbliche sono rimaste al palo (specialmente Anas e Ferrovie dello Stato) a causa dei ritardi nei pagamenti. Gli effetti potranno essere ancora maggiori se le riduzioni ed i rinvii riguarderanno quelle infrastrutture tecnologiche da cui dipende il miglioramento della produttività dei fattori produttivi- settore in cui l’Italia è il fanalino di coda dell’Ocse.
Non è una sindrome unicamente italiana. Roel M. W. J. Beetsma della Università di Amesterdam e Rick van Der Ploeg dell’Università di Oxford hanno appena pubblicato un saggio sulla “political economy” (nel senso di interazione tra politica ed economia) degli investimenti pubblici. Nel lavoro, si mette in rilievo come restrizioni alla spesa – ci si riferisce in particolare a quelle del “Patto di Stabilità”- possono essere un setaccio per salvaguardare da investimenti pubblici a basso rendimento sociale e che si è riusciti ad intrufolare nei programmi dietro pressioni particolaristiche. Il criterio indicato è che restrizioni al finanziamento (ed anche allo stesso indebitamento pubblico) non sono necessarie se ad un’analisi costi benefici rigorosa i progetti mostrano di avere elevati rendimenti. In questi casi, anzi, è anche possibile, ed auspicabile, fare ricorso alla finanza di progetto con l’apporto di capitali privati. Da circa dieci anni, la normativa prevede che ogni amministrazione pubblica sia dotata di un nucleo di valutazione delle proprie proposte d’investimento pubblico. Esiste anche regole specifiche relative ai contenuti degli studi di fattibilità. Le tecniche possono essere agevolmente estese ai trasferimenti alle imprese ed a comparti di spesa pubblica di parte corrente (istruzione, sanità). E costituire , quindi, un primo insieme di criteri per come scegliere e cosa “tagliare”.
Un altro insieme di criteri può riguardare gli acquisti di beni e servizi da parte delle pubbliche amministrazioni. L’esperienza della centralizzazione degli acquisti, tramite la Consip, sembra avere dato risultati positivi e suggerisce una strada da continuare a perseguire.
Dove è più difficile individuare criteri è la vasta area dei trasferimenti alle famiglie (in gran misura pensioni) e delle spere per il personale. I primi (specialmente quelli attinenti alle pensioni) si riferiscono ad una materia che, almeno per il momento, nessuno sembra avere voglia di sfiorare se non altro perché non si possono legiferare riforme previdenziali ogni due-tre anni. Le seconde riguardano un’area dove le carenze non attengono ai criteri normativi per incentivare chi produce e sanzionare chi tenta di lavorare il meno possibile, ma alla loro applicazione da parte di alcuni strati della dirigenza della pubblica amministrazione. Soltanto una migliore formazione e sensibilizzazione di quest’ultima potrà gradualmente portare ad una riduzione di spese di dubbia utilità per la collettività.

venerdì 23 maggio 2008

BOLOGNA SUONA JOPLIN, Milano Finanza 23 maggio

La borghesia bolognese è notoriamente discreta: i magnifici giardini e gli eleganti cortili barocchi sono nascosti dietro mura spoglie delle strade del vasto settore orientale del centro –rimasto essenzialmente immutato dal Settecento. La discrezione contraddistingue anche il Bologna Festival. Nato nel 1982 grazie ad un’associazione di persone di cultura e d’imprese (le sovvenzioni pubbliche totali non superano il 25% delle entrate), è gradualmente diventato una delle manifestazioni italiane più importanti e, pur senza clamori pubblicitari, attira pubblica non solo dal Nord d’Italia ma anche dall’estero.
Oltre all’apporto finanziario privato, il Biologa Festival ha un’altra caratteristica: si estende su diversi mesi dell’anno – nel 2008 è iniziato l’11 marzo con un concerto delle Mahler Chamber Orchestra diretta da Daniel Harding e termina il 25 ottobre con un concerto di Claudio Abbado alla guida dell’orchestra Mozart. E’ diviso in tre sezioni: la prima “grandi interpreti” è dedicata alla sinfonica od ai solisti già noti a livello internazionale (dall’11 marzo al 10 giugno), la seconda “talenti” è rivolta alla scoperta delle promesse giovani (25 marzo-25 maggio), la terza “il nuovo e l’antico” (24 settembre-29 ottobre) coniuga Palestrina ed il barocco con il Novecento “storico” e la contemporaneità. I prezzi sono specialmente contenuti per i giovani: l’abbonamento alla prima ed alla terza sezione è di € 50 per sezione –meno di € 6 a concerto. Il programma dell’anno in corso si svolge in varie sedi: dal Teatro Manzoni (un gioiello Liberty di recente rimesso a nuovo), a Chiese ed ad Oratori, a Palazzo Albergati (per i dettagli www.bolognafestival.it).
Il Festival 2008 è giunto a metà strada. Quindi, si possono ricordare alcuni eventi particolarmente interessanti dei mesi scorsi ed alcuni appuntamenti stimolanti del prossimo futuro (oltre al concerto di Abbado). In aggiunta al concerto iniziale guidato da Harding, due eventi sono stati degni di nota: il 29 marzo, il concerto dell’Orchestra Sinfonica Rai diretta da Tugan Sokhiev (e con Martha Argerich al piano) con un programma di Prokofiev e Ciacovkij ed il 23 aprile il concerto di Mario Brunello, al violoncello, e del complesso l’Opera Stravagante dedicato a rarità di Vivaldi. Per i prossimi mesi, in primo luogo, la serata dedicata, il 10 giugno, al mondo di Scott Joplin , quindi ai “piano rags” (stupende improvvisazioni, prima di essere codificate in composizioni, dell’America degli Anni 30 che ripropongono le radici di una cultura etnica meritevole di essere conosciuta, soprattutto dai giovani, perché la sua evoluzione è, da alcuni anni, molto diffusa anche in Italia). In secondo luogo, il 6 ottobre, il “Mare Nostrum” del prolifico compositore argentino Mauricio Kagel , “un’azione scenica” per controtenore, baritono, flauto, oboe, chitarra, arpa, violoncello e percussioni in cui viene rappresentata la scoperta e pacificazione del Bacino del Mediterraneo da parte di una tribù amazzonica. E’ un lavoro surreale che coniuga teatro, jazz e classico-contemporaneo; nel gennaio 2005 è stato ascoltato Milano ed a Roma in forma di concerto. E’ l’occasione di vederne la messa in scena teatrale nella sala dei Bibiena del Teatro Comunale – un accostamento prezioso d’antico e di contemporaneità multimediale. Per gli appassionati di questo genere eclettico, vale un viaggio a Bologna. Kagel, in persona, nel raccolto Oratorio San Filippo Neri, eseguirà, l’8 ottobre, la suite “Variété” per baritono e strumenti, un teatro del suono che lascia con il fiato in sospeso e da molti considerato come il suo capolavoro.

mercoledì 21 maggio 2008

LA CRISI FINANZIARIA VA PER LE LUNGHE MEGLIO INTERVENIRE SUI REGOLAMENTI Libero 21 maggio

Alla fine lo ha dovuto ammettere il notoriamente ottimista Ben Bernanke, Presidente del Federal Reserve Board ( in gergo giornalistico italiano la Fed), l’autorità monetaria americana. Nella conferenza stampa via satellite con giornalisti dei quattro angoli del mondo, martedì 13 maggio ha affermato che la situazione dei mercati finanziari è ancora “molto lontana dal normale”. La Fed – occorre ammetterlo – ce la ha messa tutta: non solamente ha abbassato i tassi d’interesse (oggi il tasso direttore Usa è appena il 2% l’anno) ma ha anche fatto interventi diretti (peraltro discutibili) a favore di banche commerciali e per garantire con titoli di stato la liquidità e la solvibilità di gestori in difficoltà. Tutto ciò ha accelerato la perdita di valore internazionale del dollaro, il cui saggio di cambio ponderato è diminuito del 7% ( e ben del 13% rispetto all’euro) dall’inizio d’agosto. Ha accentuato l’aumento dei corsi delle materie prime: la teoria delle opzioni reali insegna che quando i tassi d’interesse diminuiscono, i produttori di prodotti di base non hanno alcun interesse a vendere e preferiscono tenere il petrolio sotto terra e le granaglie nei silos. Non ha, però, avuto alcun effetto apprezzabile sul mercato americano dei mutui; inoltre, secondo un’indagine dell’Office of Federal Housing Enterprise Oversight, l’agenzia di vigilanza sugli andamenti dell’edilizia residenziale Usa, i prezzi medi delle case saranno ancora per diversi mesi in caduta libera. Con ripercussioni negative sull’economia reale.
Sul mercato dell’area dell’euro, la Banca centrale europea (Bce) non ha seguito la Fed sulla strada del ribasso dei tassi (il tasso d’interesse direttore è rimasto al 4% l’anno) a motivo delle pressioni inflazionistiche, provenienti, in certa misura, dai corsi delle materie prime (a loro volta in parte indotte dalla politica monetaria Usa). Un’indagine condotta in Aprile dalla Bce tra i principali istituti di credito europei ha indicato che, da un lato, le condizioni poste dalle banche stanno diventando più restrittive e, dall’altro, che la domanda di finanziamenti (specialmente da parte delle imprese) sta diminuendo. Dato che in Europa, il credito bancario rappresenta l’85% del finanziamento delle imprese (in aggiunta al ricorso a risorse proprie), ciò rappresenta una minaccia: il rischio che le restrizioni creditizie aggiungendosi ad un rallentamento del ciclo scatenino una prolungata crescita zero od anche una recessione. Le stime econometriche dei 20 maggiori istituti privati internazionali, elaborate due settimane fa, prevedono che il tasso di crescita nell’area dell’euro resti, nel 2009, all’1,6 stimato per il 2008e che quello dell’Italia aumenti leggermente dallo 0,8% previsto per l’anno in corso ad un debole 1,1%. Tuttavia questo quadro pare oggi ottimista. Un’analisi di Barclays Capital di Londra indica che di norma c’è un differenziale temporale di un anno e mezzo perché gli operativi d’istituti di credito assorbano, e smaltiscono, l’aumento dell’avversione al rischio; ciò vuol dire una contrazione dei finanziamenti (e la virtuale essiccazione di fonti come il private equity e le titolaralizzazioni) ancora per diversi mesi. Con conseguenze pesanti per le economie reali.
Charles Goodhart della London School of Economics lo ha illustrato alcune settimane fa in un saggio (CESifo Working Paper Series No. 2257) in cui individua un miglioramento della regolamentazione europea (e nazionale) sui mercati finanziari come risposta ad una crisi che si presenta prolungata. Il saggio (si può richiedere all’autore caegoodhart@aol.com) presenta anche indicazioni dettagliate su cosa fare. Anche se non sembra che mercoledì sera, nella riunione dei Ministri Economici e Finanziari dell’Eurogruppo, il nodo sia stato specificatamente affrontato, è verosimile che il protrarsi del difficile quadro internazionale porti ad un’accelerazione di quel riassetto delle authority (non solo in campo finanziario) per il quale sono stati preparati, negli ultimi cinque anni, schemi di provvedimenti restati ancora lettera morta. Un quadro ancora più fosco, anche se riferito principalmente agli Stati Uniti, è presentato da Atif Mian e Amir Sufi dell’Università di Chicago nelNBER Working Paper No. W13936, diramato a metà maggio.
Questo quadro internazionale non può non avere implicazioni sull’azione di governo dell’Esecutivo appena entrato in carica in Italia. La strategia sarà indicata nel Documento di Programmazione Economica e Finanziaria (Dpef), ancora in fase di redazione. Il percorso per rialzare l’Italia tramite sette missioni specifiche si presenta, però, più arduo di quanto non sembrava lo scorso gennaio quando è iniziata la crisi che ha portato alle elezioni. Allora , i 20 maggiori istituti econometrici prevedevano, per l’Italia, una crescita dell’1,5% per il 2009; oggi è verosimile che in una delle prossime tornate mensile , la stima vada al di sotto dell’1%, con un aggravio, dei conti pubblici, e serie difficoltà a non avere cadute nei livelli occupazionali. E’importante tenere presente che la cinghia di trasmissione tra le difficoltà finanziarie internazionali e l’economia reale italiana è la caduta di fiducia tra banche ed intermediari finanziari in genere. In questo senso, la risposta proposta da Goodhart potrebbe avere un effetto positivo: tirare fuori dai cassetti una buona riforma delle authority (eliminando duplicazioni e sovrapposizione) potrebbe fornire un’iniezione di fiducia di cui c’è urgente esigenza. Non basterebbe da sola a dare lo sprint necessario. Ma potrebbe essenziale. Anche se non sufficiente.

martedì 20 maggio 2008

FANNULLONI IO CE LA HO FATTA NE HO LICENZIATI DUE, Il Tempo 20 maggio

Sì, si può fare, come ci ricorda il Ministro della Funzione Pubbica Renato Brunetta. Licenziare gli statali fannulloni è possibilissimo, in base alla normativa vigente. Sempre che il dirigente abbia gli elementi e la tenacia nel perseguire l’obiettivo (sulla base di motivazioni fondate).
Ho licenziato due statali nelle mie visitazioni ministeriali. La priva volta ero direttore generale al Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica , appena giunto in Italia dopo 15 anni in Banca mondiale, allo scopo di creare e gestire il nucleo di valutazione della spesa pubblica ed i progetti a valere sul Fondo Investimenti ed Occupazine. Si era nel lontano 1982. Non avevo alcuna contezza di amministrazione, di diritto del lavoro e simili. Mi venne affidato (o meglio appioppato) un dipendente ; dopo avermi detto che non voleva stare nel mio ufficio “perché si lavora”, la persona in questione cominciò ad inviare ogni venti giorni certificati medici per esaurimento nervoso, influenza, stanchezza e simili. In pratica, in ufficio non era mai presente. L’”establishment” del Ministero alzava le braccia, suggerendo che questo era l’andazzo consolidato ed occorreva pazientare. Fortunatamente, una collega del Ministero dei Beni Culturali mi suggerì una strada: chiedere visita collegiale da parte dell’autorità militare (pare che tale misura sia stata successivamente abrogata). Non fu facile convincere l’”establishment” ministeriale; gli altri dirigenti intonarono all’unisono il mottetto “siamo tutti una famiglia anche perché il dicastero ha soltanto 250 addetti” ed a rischio di chiusura. Insistetti. I carabinieri andarono all’abitazione del dipendente, il quale non era in casa ma alle prese con un secondo lavoro. Scattò licenziamento in tronco ed un procedimento penale.
Nuovo caso nel 1998-90 al Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale dove guidavo il gruppo incaricato della valutazione dei progetti a valere sul fondo per il rientro dalla disoccupazione. Un bel giorno arrivò un nuovo dipendente ; non avevo richiesto incrementi di personale, ma mi venne detto che “nessuno voleva la persona” in oggetto. Oltre tuttoi non apparteneva neanche ai ruoli dell’amministrazione ma vi stazionava da 26 anni tramite vari comandi e distacch ottenuti grazie a rapporti particolaristici. Non ci volle molto a comprendere perché non il dipendente era desiderato: nelle 2-3 ore al giorno in ufficio, faceva di tutto (con terzi) da cartomanzia ad intermediazione immobiliare. Ciò disturbava il resto del gruppo. Scattarono immediatamente il senso di appartenenza, l’orgoglio dell’ufficio, il capitale sociale che si era costruito lavorando insieme: la messa a punto di un dossier per provare quanto avveniva. Naturalmente quando l’individuo si accorse della trappola, arrivarono certificati medici “a go go”. Una denuncia alla Procura comportò l’allontanamento della persona dalla Pa e mise nei guai un troppo leggero medico di base.
In ambedue i casi, ci fu una certa dose di fatica. E’ l’onere della dirigenza.

domenica 18 maggio 2008

LA NORMA CON CUI RIAPRIRA' IL PETRUZZELLI

Al Teatro Comunale di Bologna si sono appena concluse le repliche di un allestimento di “Norma” di Vincenzo Bellini che ha ottenuto enorme successo e presenta notevoli motivi di interesse. In primo luogo, questo allestimento verrà utilizzato, tra qualche mese, per l’inaugurazione del Petruzzelli di Bari quando, dopo anni di lavori (e di polemiche) il teatro verrà riaperto al pubblico in occasione dell’inizio della nuova stagione lirica. In secondo luogo, debuttano nei ruoli dei due protagonisti Daniela Dessì e Fabio Armiliato. Dopo Bari, questa edizione del capolavoro belliniano si vedrà ed ascolterà a Trieste ed altrove.
“Norma” era in scena a Bari quando il teatro si incendiò; le scene vennero distrutte; si trattava non di un impianto di maniera ma di grandi tele di un pittore di rango (Mario Schifano). Sono state riprodotte per questo allestimento non soltanto perché molto belle ma anche per sottolineare il nesso tra la “Norma” che chiuse una stagione del Petruzzelli e quella che ne inizia una nuova. L’allestimento è rigorosamente ne-classico: il mondo romano come poteva essere visto nel 1831 quando l’epoca napoleonica era terminata ma non lo era lo stile “impero”, ancora dominante nei salotti e nei palazzi. La regia è di Federico Tiezzi. Si distingue nettamente da altre edizioni recenti (ad esempio quella di Walter Pagliaro che a Catania, Palermo e Giappone ha portato una “Norma” stile “film storici” Anni 50 o quella di Massimo Gasparon che a Macerata ha trasferito la vicenda in un improbabile Tibet occupato dai cinesi). “E’ un allestimento efficace ed in cui si recita e si canta agevolmente”, ci dice Fabio Armiliato che, nelle vesti di Pollione, deve dare prova non solo di abilità vocali ma anche di grande presenza scenica.
L’attenzione è tuttavia puntata su Daniela Dessì, al debutto nel ruolo (una parte scritta per Giuditta Pasta e ritenuta di enormi difficoltà) dopo anni in cui ha cantato soprattutto musica del Novecento. La sera della prima, il 29 aprile, ha ricevuto sette minuti di applausi al termine dell’aria “Casta Diva”. “E’ un ritorno al futuro. Ho iniziato la mia carriera con il Settecento ed il “bel canto” ma ho voluto affrontare “Norma”, l’opera delle opere; solamente dopo avere raggiunto la piena maturità vocale e stilistica e dopo un lungo periodo di studio”. Su “Norma” aleggiano “fantasmi del passato” – grandi interpreti (oltre alla Pasta ed alla Malibran nell’Ottocento, la Callas, la Caballé e la Verrett in anni più vicini a noi) – che incutono quasi un timore reverenziale.”Norma ha momenti aulici e momenti intimi, collegati da recitativi che richiedono un fraseggio perfetto, anche perché gli spettatori seguano ogni parola del libretto. In quanto privilegio i momenti intimi, quali il rapporto con i figli rispetto, a quelli aulici”. Una “Norma” donna e madre (alla Caballè) più che una “Norma” sacerdotessa gelosa ed alla ricerca di vendetta (alla Callas ed alla Verrett).


BOX
L’intrecccio ed il ruolo di Norma nel teatro in musica


Nella Gallia sotto il gioco romano, la sacerdotessa Norma, figlia del re Oroverso, ha avuto segretamente due figli dal suo amante, il condottiero Pollione. Quest’ultimo cerca di tradirla con la più giovane Adalgisa, a cui Norma rivela la propria vicenda con il romano. Quando Norma comprende che Pollione tenta di rapire Adalgisa dal tempio, chiama i Galli alla guerra e si autodenuncia: finisce, con Pollione, sul rogo.
L’opera è del 1831: pulsioni nazional- risorgimentali si fondono con l’intreccio passionale e con l’amicizia tra le due protagoniste femminili. “Norma”, il capolavoro di Bellini, è una delle tappe importanti per traghettare il teatro in musica verso il melodramma ottocentesco. E’ anche l’apoteosi del canto nella sua espressione sia lirica sia tragica. Ad un’orchestrazione semplice (quasi elementare) si giustappone una solennità statica ed un canto puro e lineare, caratterizzato da una ricca vena melodica tanto che lo stesso Richard Wagner la paragonò alla tragedia greca. Le difficoltà di esecuzione sono, quindi, principalmente vocali.

sabato 17 maggio 2008

Un'orchestra italiana celebra la musica contemporanea cinese Il Velino 17 maggio

Roma, 17 maggio (Velino) - Un’unica orchestra europea è stata scelta, l’Orl, Orchestra di Roma e del Lazio per partecipare al maggior festival di teatro in musica cinese organizzato in Italia, “Cina Vicina”, che dal 23 maggio all’8 giugno presenterà, nel Parco della Musica della Capitale, circa 40 spettacoli (per programma e prenotazioni www.auditorium.com/eventi). Negli ultimi mesi, l’Orl ha attraversato serie difficoltà a ragione della riduzione dei contributi (nell’esercizio 2008) da parte della Regione e del Comune (ma questi ultimi dovrebbero essere re-integrati). Come mai l’Orl è stata selezionata per il “grande concerto” a chiusura del Festival? L’orchestra ha avuto per diversi anni un musicista cinese come direttore artistico, Lü Jia, ora direttore musicale all’Arena di Verona. Considerato il direttore d’orchestra favorito da Papa Woytila, Jia, giunto a soli 26 anni alla direzione musicale del Teatro Verdi di Trieste, ha guidato l’Orl per dieci anni (1995-2005) e l’ha fatta diventare una delle sinfoniche importanti poiché ha abilmente coniugato repertorio tradizionale con musica del Novecento, musica contemporanea (ogni stagione esegue almeno due “prime mondiali” di giovani compositori) e anche musica orientale. Ha sempre praticato, poi, una politica di prezzi molto bassi ed attira molti giovani.
Il nesso con la Cina (Jia ha studiato a Pechino e Berlino, dove campava facendo il cameriere) è sempre stato forte. Ad esempio, l’11 maggio l’Orl ha portato al Parco della Musica di Roma il giovane violinista Feng Ning, 26 anni, nato a Chengdu, nel Sichuan e aggiudicatosi nel 2006 il prestigioso Premio Paganini e il premio speciale offerto dalla provincia di Genova per la migliore interpretazione dei “Capricci” di Paganini. Feng Ning ha travolto l’Auditorium intitolato a Giuseppe Sinopoli con una smagliante esecuzione del concerto in re maggiore op. 61 per violino e orchestra di Beethoven; un altro asiatico, il tailandese Bundit Ungrangsee, di casa all’Orl (dove ha tenuto concerti nel 2006 e nel 2007) guidava l’orchestra. Dal 16 al 18 maggio, un altro solista cinese (il violoncellista Wenn-Sing Yang) suona con l’Orl. L’aspetto più interessante del concerto in calendario per l’8 giugno è che l’Orl, diretta da Tan Li Hua, maestro concertatore cinese ormai di fama mondiale, eseguirà opere di tre dei più importanti compositori contemporanei cinesi: He Xuntian, Guo Wenjing e Wang Xi-Lin. Una vera e propria rarità nel panorama musicale italiano.
Il festival inizia con un tributo a uno dei poeti più amati dell’antica dinastia Tang, Li Bai. L’orchestra e il coro della Shanghai Opera House si esibiranno in un’opera, composta da Guo Wenjing, che ricreerà il desolato scenario dell’esilio di Li Bai. Nei giorni della manifestazione presso le sale dell’Auditorium si potrà sperimentare l’antica tecnica dei massaggi orientali, si potranno assaggiare piatti della gastronomia cinese e ci saranno workshop di Tai Chi e Kung Fu con i monaci Shaolin. Tra gli spettacoli di teatro in musica opere tradizionali (a mezza strada tra il farsesco ed il melodrammatico) e balletto contemporaneo. La Danza del Leone, antica arte del Guangdong, porta acrobati asiatici a riproporre i movimenti del Leone nascosti sotto una maschera sgargiante presso la Cavea dell’Auditorium. Alla fine dello spettacolo un’esplosione di coloratissimi fuochi d’artificio illuminerà la Cavea dell’Auditorium per spaventare e scacciare gli spiriti maligni.

TROPPO PERSONALE E CANONE VITALE. COSI' LA RAI RISCHIA DI IMITARE ALITALIA, Libero 17 maggio

Il 14 maggio il CdA della Rai ha approvato il consuntivo per il 2007. Tanto la capogruppo Raspa quanto il gruppo chiudono l’esercizio “con un sostanziale pareggio”: un disavanzo di 4,9 milioni d’euro a fronte di un preventivo che prevedeva una perdita di 47 milioni d’euro; il margine operativo lordo è di 832 milioni d’euro. Sul versante dei costi, sta dando risultati positivi il programma di contenimento: non sono aumentati rispetto al 2006. Su quello dei ricavi, hanno dato un contributo importante e l’aumento della platea degli abbonati (ormai circa 16 milioni) e l’incremento del canone da 99,6 a 104 euro.
Un quadro, quindi, rassicurante (di cui abbiamo fornito i dettagli il 15 maggio). Molto differente da quello a cui “Il Corriere della Sera” ha dedicato due pagine il 12 maggio – alla vigilia quasi della riunione del CdA. Leggendo con attenzione le due pagine ci si accorge che, a torto od a ragione, esse facevano da cassa di risonanza ad uno studio dello Slc-Cgil (Sindacato lavori comunicazione della Cgil) le cui conclusioni sono che l’azienda è destinata al declino, anzi ad un futuro analogo a quello di Alitalia: “non ad un tracollo violento” (simile a quello di Az) ma ad “un cedimento lento, inesorabile”. Secondo l’analisi Slc-Cgil, che sembra condivisa da “Il Corriere della Sera”, la determinante principale di tale triste destino sarebbero la forte componente di “outsourcing” ad aziende esterne specializzate in produzione e fornitura di contenuti , tra cui aziende controllate dal principale concorrente (privato) di quello che si fregia essere “servizio pubblico”. Vite parallele (o quasi), quindi, per Rai ed Alitalia. La cura consisterebbe nell’aumentare la proporzione di produzione interna, grazie agli 11.500 dipendenti e 43.000 collaboratori di vario ordine e grado a cui fornisce lavoro Mamma Rai.
Chi ha ragione? Chi ha torto? Occorre chiederselo perché il canone è salato, il CdA Rai in scadenza, il progresso tecnologico nel settore molto rapido e nessuno desidera un’agonia lenta come quella di Alitalia, paventata nel lavoro Slc-Cgil e rimbalzata, con un pregevole “blow up” (ingrandimento), dal “Corriere della Sera”.
Nel breve periodo, i dati del consuntivo (e soprattutto la relazione che lo accompagna) sono incoraggianti, specialmente poiché i dettagli evidenziano che il programma di contenimento dei costi è stato attuato con rigore e con fermezza. Meno entusiasmante l’incidenza del canone sui ricavi totali. Negli ultimi quattro anni, il canone è stato complessivamente pari al 75% degli introiti pubblicitari; senza fare ricorso è quella che, secondo quanto si insegna nei corsi di base di scienza delle finanze, è “una tassa di scopo”, la Rai non starebbe in piedi. Dato che con la diffusione d’Internet e delle Tv locali, la giustificazione del canone (“fornire un servizio pubblico”) è sempre più debole , prima o poi la giurisprudenza italiana od europea (nel contesto del programma Ue “Televisione Senza Frontiere” o simili) ci costringerà ad abolirlo. Ed allora saranno guai seri.
La fragilità strutturale della Rai non è, però, la ripartizione delle entrate (tra “tassa di scopo” e mercato). C’è un aspetto più profondo, non toccato né nell’analisi Slc-Cgil né nell’ingrandimento fattone dal “Corriere della Sera”. Sotto il profilo aziendale in un’economia internazione sempre più integrata ed in un quadro di progresso tecnologico sempre più rapido, sulla Rai grava la stessa maledizione che minaccia il tracollo dell’Alitalia: con le sue schiere di dipendenti e collaboratori ed il 46% della produzione affidato all’esterno, la Rai è troppo grande per il mercato italiano (un mercato la cui popolazione si sta riducendo) e troppo piccola per competere sul mercato internazionale (tanto più che gran parte della produzione, sia esterna sia in outsourcing è cucita su misura per il pubblico italiano).
La prova di questa maledizione si tocca con mano con il digitale terrestre. In primo luogo, quando, grazie al digitale terrestre, ogni famiglia avrà accesso a 200-300 canali, come si potrà giustificare la “tassa di scopo” pro-Rai? L’unica giustificazione potrebbe darla “la legge di Baumol” (dal nome dell’economista che la ha formulata): fornire esclusivamente cultura e notiziari. A questo fine, un solo canale sarebbe più che sufficiente; gli addetti dovrebbero raggiungere le 500 unità ed i collaboratori un paio di centinaia. Un dimagrimento, quindi, molto più severo di quello che si prospetta per Alitalia. Si potrebbe naturalmente mantenere la “tassa di scopo” a favore di tutto il settore delle telecomunicazioni (per rendere il digitale terrestre sostenibile sotto il profilo finanziario) ma i proventi dovrebbero essere suddivisi sull’intera filiera nell’ambito di un quadro regolatorio ben preciso: lo suggerisce uno dei casi di studio analizzati in Bezzi e altri “Valutazione in azione” Franco Angeli 2006. E’ ipotizzabile che a ciò si debba, in ogni caso, arrivare (riducendo drasticamente il flusso del canone alla volta della Rai) a ragione della fragilità finanziaria (dimostrata nel libro citato) del digitale terrestre in Italia. Sempre che – ipotesi poco verosimile nel breve e medio termine - la Pubblica Amministrazione non supporti alla grande il settore rivoluzionando l’interazione tra uffici (specialmente dei comuni) ed i cittadini tramite servizi a pagamento da erogare con il digitale terrestre.
In secondo luogo – e su questo punto lo studio Slc-Cgil è condivisibile - i programmi Rai predisposti apposta per il digitale terrestre (specialmente “Rai Utile”) mostrano il ritardo tecnologico se raffrontati con quelli di altre aziende (più piccole e più flessibili) del comparto. “Rai Utile, ad esempio, è inguardabili; a quel che si sa, non li guarda nessuno.
E’ le possibilità di rendere la Rai davvero competitiva a livello internazionale? Il treno – temo – è passato da tanto tempo. E non ritorna indietro.

LA RIFORMA DISPARICIDA MA NECESSARIA DELLA AUTHORITY Il Domenicale 17 maggio

Dovrebbe essere in cima ai programmi del Governo poiché nel 2001-2006 si era lavorato ad uno schema di disegno di legge e nel febbraio 2007 l’Esecutivo guidato, per così dire, da Romano Prodi ha licenziato 22 articoli, in seguito, però, mai usciti dalla Commissione pertinente del Senato. Si tratta della riforma “disparicida”, quella delle autorità di regolazione e vigilanza. L’obiettivo era, ed è, colmare vuoti di regolazione (principalmente nel campo di servizi a rete), semplificare l’architettura specialmente in materia di vigilanza finanziaria, adeguare ordinamenti, numero dei componenti e metodi di nomina. Attendendo tale riordino (si guardi il pur benevolo rapporto Ocse “Italia- assicurare la qualità della regolazione a tutti i livelli di governo”), autorità grandi e piccole a livello regionale (ed in certi casi comunale) si stanno accavallando a quelle nazionali ed europee. Secondo alcune stime (approssimate per difetto) il solo costo alle imprese di fornire informazioni alla selva delle autorithies raggiunge € 40 miliardi l’anno. A tale costo non corrisponde efficienza ed efficacia – meno che meno una vera tutela dei mercati e di chi vi opera.
Sul “Dom” del (prego cercare data esatta) marzo/aprile 2007 commentammo il ddl Prodi facendo riferimento ad saggio di Simon Deakin della Università di Cambridge (Regno Unito) pubblicato sull’European Law Journal ( Vol. 12, No. 4, pp. 440-454). Da un lato, c’è il modello anglossassone di federalismo competitivo : lo Stato che ha le authorities più efficienti (e meno ingombranti) è quello che cresce meglio e di più. Da un altro, c’è il modello dell’Europa continentale “d’armonizzazione riflessiva”, un lessico comunitario che sembra cinese ma indica mutuo riconoscimento di regolazione e d’authorities. Ciò comporta un processo, d’apprendimento e miglioramento graduale che consente di evitare alcune rozzezze dell’authorities singoli Stati dell’Unione (negli Usa). Il nostro sistema rispecchia il “modello europeo”; il ddl Prodi lo avrebbe rafforzato ulteriormente. Uno studio fresco di stampa (Antonio La Spina, Sabina Cavatorto “Le autorità indipendenti”, Il Mulino 2008 pp. 400 € 30) da parte di due esperti non certo vicini al centro-destra (La Spina ha fatto parte della Segreteria Ds della Regione Siciliana) conduce una puntuale analisi empirica di quattro casi – Consob, Antitrust, Autorità per l’Energia, Autorità per le Comunicazioni. Pur evidenziando alcuni aspetti innovativi, il libro conclude che “il sistema italiano delle autorità indipendenti è lungi dall’essere compiuto”. Aree importantissime sono “sguarnite” ed in altre ci sono duplicazioni ed accavallamenti.
Negli ultimi mesi, le tensioni sui mercati finanziari e le difficoltà del decollo della previdenza complementare hanno mostrato a tutto tondo come la debolezza del sistema di regolazione e di vigilanza possa fare correre a tutti più rischi del dovuto. Non è questa un’occasione per fare uscire presto dal dimenticatoio una buona proposta di riforma, più orientata verso il modello anglossassone (di quanto non fosse il ddl Prodi), e porla tra gli elementi centrali di confronto politico?

martedì 13 maggio 2008

IL CENTRALISMO PRODIANO HA BLOCCATO IL SUD. L'UNICA VIA E' IL FEDERALISMOl Libero 13 maggio

Uno dei punti centrali del programma di governo – il federalismo fiscale- è compatibile o incompatibile con la crescita del Mezzogiorno se non accompagnato da un incremento dei trasferimenti pubblici complessivi (dal resto dell’Italia e dall’Ue, poiché quelli extra-europei sono insignificanti)? E’ utile ricordare che, secondo uno studio pubblicato da Alberto Quadro Curzio su “Il Mulino” nel 1990, venti anni fa i trasferimenti al Mezzogiorno erano pari al 70% del pil prodotto in loco, il 24% del pil prodotto in loco serviva a pagare stipendi del pubblico impiego. il 60% dei lavoratori dipendenti erano o nelle pubbliche amministrazioni, o nelle partecipazioni statali o in imprese private altamente sovvenzionate- in breve una situazione analoga a quella dell’Ucraina. Il percorso verso l’euro ha comportato drastici cambiamenti.
Dopo una fase in cui le regioni del Sud e le Isole sono cresciute a tassi leggermente superiori della media italiana, da un paio d’anni hanno ripreso ad accusare tassi d’aumento del pil mediamente inferiori del 30% a quello dell’intero Paese. A pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca. Non è da escludere che il centralismo attuato dal Governo Prodi e la stangata tributaria del 2006 abbiano contribuito sia al rallentamento del Mezzogiorno sia al nuovo fenomeno d’emigrazione, specialmente di giovani laureati, verso il Centro ed il Nord – una perdita netta di capitale umano che minaccia di essere un’ipoteca a lungo termine sulla vasta area della Nazione.
Il mio cognome indica chiaramente che non provengo dalla Padania. Sono originario del catanese (Acireale) da dieci generazione; c’è un filo nordico, ma normanno, nel mio sangue poiché gli ascendenti di mia nonna s’insediarono a Palermo attorno all’Anno Mille. Sono, però, un convinto federalista fiscale. Oltre dieci anni fa, in un’altra sede, ne ho riportato la giustificazione economica più cogente – quella proposta da Yingyi Qian e Barry Weingast nel saggio “Federalism as commitment to preserving market incentives” (“Il federalismo visto come impegno a mantenere gli incentivi di mercato”) nel “Journal of Economic Perspectives” n. 4, 1997. Il vero federalismo costringe a mantenere gli incentivi di mercato anche a chi ciò non vuole. Lo dimostrano le analisi empiriche della storia economica degli Usa che hanno meritato il Premio Nobel per l’Economia a Robert Fogel e a Douglas North; il federalismo fiscale è stato la molla dello sviluppo degli States del Sud degli Stati Uniti, devastati dalla guerra di secessione della metà dell’Ottocento ed il cui reddito pro-capite (a livelli analoghi a quelli degli States del Nord prima del conflitto) aveva subito un crollo del 60% a ragione delle distruzioni durante gli scontri e nel periodo immediatamente successivo. Fogel, North, Qian, Weingast e più di recente Chancal Numar Sharma in un lavoro pubblicato dall’università di Monaco nel novembre 2007 (tutti distinti e distanti dalle nostre beghe) dimostrano che la potestà di avere sistemi fiscali (e lavoristici) differenti – per utilizzare il lessico nostrano una fiscalità di vantaggio ed una contrattazione decentrata-, ma mantenendo un’infrastruttura federale (per strade, ferrovie e trasporto aereo), hanno permesso al Sud degli Usa di raggiungere e superare il Nord; si è fatto leva sugli “spiriti animali” e sulla disciplina del mercato.
Per essere efficace, quale che sia il modello specifico, il federalismo deve essere, al tempo stesso, politico, economico e burocratico. Il federalismo politico richiede che le decisioni sono prese a livello locale in gran parte delle materie che toccano la vita dei cittadini. Non è necessario concentrare la funzione decisionale in solo livello; di solito ce ne sono numerosi (ad esempio, nel federalismo Usa, lo Stato dell’Unione, la Contea ed il Municipio). E’ essenziale, però, che ci sia chiarezza su quale livello è responsabile di cosa; senza tale chiarezza, non è possibile esercitare alcun controllo democratico. Il programma con il quale il Pdl, la Lega Nord e le forze politiche a loro collegate hanno vinto le elezioni presenta una versione moderata e limitata di federalismo politico: essenzialmente correttivi di quanto definito nel nuovo Titolo V della Costituzionen che si è rivelato, alla luce di sette anni d’esperienza, un pasticciaccio barocco che ingolfa i processi decisionali invece di semplificarli. Il programma non parla di federalismo o devoluzione della magistratura- un tassello necessario poiché ci dovranno, prima o poi, essere giudici specializzati nell’interpretare la normativa prodotta dalle Regioni. Lo sottolinea uno studio in cui si valutano i primi anni di “devoluzione” in Granb Bretagna. Lo hanno condotto da Mahmoud Ezzamel (Cardiff Business School), Noel Hyndham (Queen’s University di Belfast), Irvine Lapsey e Aage Johnsen (ambedue dell’Università di Edimburgo) e June Pallott (University of Canterbury) e pubblicato nel fascicolo di giugno 2004 di “Public Money & Management”; è disponibile sul web. Lo studio affronta un tema, a metà strada tra economia e politica: in che misura la “devoluzione” ha aumentato la “democratic accountability” (ossia la responsabilizzazione di politici e burocrati nei confronti degli elettori). La devoluzione – lo studio afferma - ha portato maggiore “apertura”, “trasparenza”, “consultazioni” e “verifica” specialmente per quanto riguarda fisco, finanza e politiche pubbliche; ha anche messo in moto un “information overload”, un “sovraccarico da informazioni”. Di conseguenza, chi fa politica dipende oggi più di ieri da “tecnici, consiglieri parlamentari e consulenti in generale che sappiano filtrare l’informazione”. Decide, però, in base ad analisi più ricche.
Il federalismo fiscale non vuole solamente dire come dividere le fonti di gettito tributario tra centro e periferie (Regioni, Province, Comuni) ma di definire il “nucleo duro” di competenze economiche essenziali da mantenere al centro e di “devolvere” il resto alle periferie. Non si può avere federalismo fiscale e pretendere “uniformità” di servizi ai cittadini su tutto il territorio nazionale. Tale “uniformità” impedirebbe le scelte delle periferie su priorità e livelli di tassazione; quindi, renderebbe o impossibile o finto il federalismo politico. Non raggiungerebbe, poi, lo scopo di favorire le aree più deboli. Non si mette a repentaglio l’unità nazionale differenziando i servizi in base alla disponibilità a pagare e favorendo la crescita accelerata delle aree più povere. Al contrario, la si rafforza.
Il federalismo burocratico è quello degli uffici: ci devono essere burocrazie che rispondano ai responsabili del federalismo politico ed economico ed agli elettori. Purtroppo in Italia, nell’ultimo scorcio della XIII legislatura, si è dato vita ad una riforma della Costituzione che contiene molto federalismo burocratico (peraltro incompiuto) e poco o nulla di federalismo politico ed economico. Anzi, è un vero e proprio monumento al federalismo burocratico. Nel 2004, Hongbin Cai e Daniel Treisman (ambedue dell’Università della California a Los Angeles) hanno pubblicato sul “Journal of Public Economics” un saggio che documenta, con analisi teoriche e riferimenti empirici, come il federalismo burocratico corroda istituzioni ed economia se non è nell’ambito di un ben articolato federalismo politico ed economico. Il federalismo burocratico è la trappola in cui dobbiamo evitare di cadere.

lunedì 12 maggio 2008

PARTONO DOMANI I DIECI GIORNI PIU' IMPORTANTI PER ALITALIA

L’atmosfera non è esattamente quella del celebre libro di John Reed sulla rivoluzione bolscevica (più volte immortalato in film e serial televisivi). Alla Magliana, però, si respira un’aria che assomiglia a quella che aleggiava a Mosca quando si avvertiva che erano nell’aria grandi eventi e si viveva all’insegna de: “o la va o la spacca”.
I dieci giorni che cambieranno (in un modo o nell’altro) l’Alitalia sono le giornate tra il 13 ed il 23 maggio. Domani martedì si riunisce quel che è rimasto del CdA (dopo varie dimissioni) per approvare la relazione trimestrale per il gennaio-marzo 2008:i dati (afferma che li ha letti e studiati) sono particolarmente pesanti non tanto perché segnano ancora un profondo rosso (alla Magliana ci si è fatta l’abitudine) ma poiché il disavanzo avrebbe adesso intaccato il patrimonio sotto i livelli di guardia (le stime variano tra i 350 ed i 400 milioni di euro rispetto ad un capitale sociale di circa 1.300 milioni di euro). Venerdì 23 maggio (data che gli scaramantici non considerano poco propizia) è invece il giorno in cui il CdA dovrò assumersi la piena responsabilità dell’approvazione del bilancio consuntivo per il 2007. E’ una responsabilità senza se e senza ma.
Tra una data e l’altra si possono verificare varie ipotesi. Potrebbe spuntare la cordata a cui sta lavorando l’esorcista Bruno Ermolli a cui è stato affidato il compito di togliere all’Alitalia il malocchio strutturale che la affligge da 15 anni (ossia da quando è avvenuta la rivoluzione del trasporto aereo internazionale): essere. al tempo stesso, troppo piccola per gareggiare sui mercati mondiali e troppo grande per fare il vettore soltanto in Italia e nei Paesi vicini. In effetti, Ermolli ha chiesto di avere i dati per approfondire la situazione finanziaria. Per il CdA ciò comporta un problema serio: se risponde positivamente può essere tacciato di non seguire regole di mercato (poiché non è in corso una gara), ma se risponde negativamente può fare chiudere l’unica porta per ora socchiusa, neanche aperta.
Tra il 13 ed il 23 maggio (prima, comunque, di approvare il consuntivo 2007), gli scampoli del CdA potrebbero decidere che la partita è ormai andata e non volersi assumere responsabilità che potrebbero coinvolgerli personalmente e matrimonialmente. In tal caso, il “grido di dolore” partirebbe dalla Magliana e sarebbe accompagnata da una richiesta di commissariamento, dall’apertura di una procedura fallimentare o di percorsi analoghi.
Tra queste due ipotesi estreme non se ne vedono intermedie. Almeno ai piani alti della Magliana. Tuttavia, c’è chi nutre due soldi di speranza, tanto per rievocare il titolo del film di Castellani con cui nel 1951 si aprì la serie delle commedie all’italiana. Una volta insediato il nuovo Governo a pieni ranghi (Vice Ministri e Sottosegretari compresi), si potrebbe riprendere la partita per realizzare, in un arco di tempo breve, un accordo tra imprenditori italiani, banche (italiane e straniere) e Lufthansa. E “il terzo incomodo” con cui i tedeschi non vorrebbero avere a che fare (Vedi “L’Occidentale” del 30 aprile)? C’è un prezzo per tutto, si dice alla Magliana. E la moneta di pagamento sarebbero gli slots.

UNA FINANZIARIA PER RESTARE IN EUROPA, Il Tempo 12 maggio

Il Tempo ha aperto un dibattito su come riformare la finanziaria e la legge di bilancio perché non siano solo “correttive” degli andamenti tendenziali ma efficaci strumenti di bilancio. A mio parere, le ipotesi di riforma devono ipotizzare che l’Italia resterà una democrazia parlamentare inserita nell’area dell’euro. Da un lato, quindi, non si può seguire il modello Usa dove la finanziaria e legge di bilancio non sono frutto di un documento d’indirizzo della Casa Bianca ma emergono dal Congresso (la prima bozza è redatta dalla Commissione Finanze e Tesoro della Camera) ed il Presidente ha il potere di accettarla o respingerla in blocco (ma deve accettarla se, in seconda lettura, la legge ha due terzi del voto del Congresso). Da un altro, la tempistica deve restare in linea con quella di ddl analoghi di Francia, Germania, Spagna, Portogallo, Austria e Benelux (come si orchestrò alla fine degli Anni 80; si veda Giuliano Amato “Due Anni al Tesoro”, Il Mulino 1990) altrimenti la politica economica europea andrebbe a gambe all’aria.
Dall’esperienza Usa si può, però, mutuare la “non emendabilità” del ddl (tranne che non a maggioranza qualificata, ossia le Camere potrebbero accettare o respingere in blocco la proposta del Governo ma potrebbe apportare emendamenti unicamente a maggioranza dei due terzi). Dalle modifiche apportate alla fine degli Anni 80 alla finanziaria– ma nella prassi abbandonate nel 1993 – si deve tornare ad una finanziaria che operi unicamente sui saldi di bilancio in funzione degli obiettivi di politica economica (descritte nel volume di Giuliano Amato e ribadite di recente da Franco Reviglio in “Per restare in Europa”, Utet 2006). Ciò eviterebbe leggi “omnibus”, “assalti alla diligenza”, scambi di favori clientelari e la concentrazione dei lavori parlamentari nella sessione di bilancio. Ne guadagnerebbe l’attenzione ai nodi fondamentali della politica economica.
Ciò comporta anche una modifica della tempistica e dei contenuti dei documenti di politica economica. Oggi sono tre, Dpef (Documento di programmazione economica e finanziaria), Rpp (Relazione previsionale e programmatica), e Rge (Relazione generale sull’economia del Paese); vengono pubblicati in tempi differenti (il primo in estate, il secondo in autunno, il terzo in primavera). Ne basterebbe uno solo (come in Francia, Germania., Spagna, Austria e Benelux), poche settimane prima della finanziaria. Dovrebbe tornare ad essere snello (eliminando gli abbellimenti e i riquadri “accademikish” apportati nel 1996) al fine di permettere un efficace dibattito parlamentare sulle scelte del Paese. Per fare sì che tali scelte siano informate non sarebbe male se venisse integrato da documenti di lavoro su singoli temi quali quelli elaborati in Francia nel “programme de rationalitation des choix budgetaires” e nel definiti da Matthew Adler e Eric Posner in “New Foundations of Cost Benefit Analysis” (Harvard University Press, 2007).

domenica 11 maggio 2008

VIAGGIO ALLA FINE DEL MILLENNIO, operaclick 11 maggio

Roma/ Teatro dell’Opera
VIAGGIO ALLA FINE DEL MILLENNIO
Opera in due atti e dieci scene
Libretto di A.B. Yehoshua, Musica di Josef Bardanashvili


E’ una notizia bella ma imbarazzante. Israele ci ricorda che l’opera non è un genere da museo, ma un’arte viva e vitale. Ci mette a disagio che lo rammenti proprio in Italia dove l’opera è nata e cresciuta.
L’8 maggio, al Teatro dell’Opera di Roma, addobbato per le grandi occasioni, al fine di iniziare una serie di celebrazioni per i 60 anni dalla nascita dello Stato d’Israele, è stata messa in scena (purtroppo per un’unica sera) “Viaggio alla Fine del Millennio” opera in due parti e dieci quadri di Josef Bardanasvili su libretto di A.B. Yehoshua (autore del romanzo da cui è tratta). Il lavoro è stato commissionato dall’Israeli Opera di Tel Aviv dove ha debuttato il 21 maggio 2005 ed è da allora in repertorio a Tel Aviv.La recita romana è stata la prima al di fuori dello Stato d’Israele. Per chi ama la cultura in generale ed il teatro in musica in particolare rappresentare un’opera contemporanea (d’autori viventi) in occasione di un evento celebrativo è un’eccellente idea. Dovremmo riprenderla e replicarla. In Italia, invece, in situazioni analoghe si ripescano opere del Settecento ed è raro vedere sui nostri palcoscenici lavori contemporanei, anche quelli d’autori americani che hanno grandi risultati di biglietteria tanto negli Usa quanto in numerosi Paesi europei (Gran Bretagna, Germania ed ora anche Francia) dove sono regolarmente messi in scena,
A.B. Yehoshua è uno dei più noti scrittori israeliani. Il libretto è tratto da un suo romanzo dallo stesso titolo – non necessariamente il suo capolavoro (io considero tale “L’Amante”). E’ ambientato attorno all’anno Mille tra Tangeri, la Spagna, Parigi, Worms e la Foresta Nera. La trama è complessa poiché comprende un vasto numero di personaggi ed anche intrecci secondari. Può essere, però, riassunta in poche righe al fine di comunicare il significato del lavoro. Il mercante ebreo marocchino Ben Atar va in Europa per potersi riconciliare con il nipote Abulafia, ma finisce processato e scomunicato per la sua bigamia; gli ebrei del Nord Africa avevano adottato tale costume dalle prassi arabe. Non per nulla il miglior amico di Ben Atar è il suo socio in affari mussulmano Abu Lufti. Gli ebrei insediatesi nel Nord Europa, legati ai precetti religiosi tradizionali, vietavano la bigamia. Il messaggio essenziale è la ricerca della tolleranza tra diverse visioni della vita all’interno della medesima religione. L’opera contiene anche una scena “osèe” (ovviamente velata) di sesso a tre. Il dramma esplode quando una delle due mogli di Ben Atar, pur soddisfatta dalla bigamia, vorrebbe estendere, per ragioni di pari opportunità, la prassi alla poliandria (ciascuna moglie potrebbe avere più mariti). La condanna da parte dell’intera società diventa inevitabile. La donna muore suicida nelle paludi della Foresta Nera. Solamente dopo il suo sacrificio, innalzando preci a Dio, si può superare l’anatema. Il libretto è efficace sotto il profilo drammaturgico; traduce bene in versione scenica l’amaro contenuto del romanzo – il cui tema non riguarda solamente differenti interpretazioni della parola di Dio nell’ambito della stessa religione ma ha una valenza universale. Semplice l’apparato scenico basato su tendaggi e giochi di luce anche al fine di fare meglio risaltare l’interpretazione dei solisti ed i movimenti delle masse.
Joseph Bardanashvili è un compositore georgiano, emigrato nel 1995 in Israele dove è molto noto; ha firmato molti balletti, sinfonie e colonne sonore. I critici presenti alla rappresentazione romana lo hanno definito “eclettico”. Non sono interamente d’accordo. Ci sono echi di Stravinskij e pure un recitativo secco accompagnato da basso continuo. A mio parere, la struttura musicale è chiaramente ispirata ad uno dei maggiori compositori russi contemporanei, Alfred Alfred Schnittke (poco noto al grande pubblico italiano). A sua volta, Schnittke ha molti punti in comune con i compositori tedeschi della prima metà del Novecento, la cosiddetta “Entartete Musik”: enorme organico, scrittura vocale in cui il declamato scivola in ariosi, grandi interventi del coro, concertati nei finali. A mio avviso, l’opera di Bardanashvili ricorda molto il capolavoro di Franz Schreker “Die Gezeichneten” che, credo, è stato messo in scena in Italia un’unica volta, anche a ragione delle complessità dell’allestimento scenico che comporta scene d’orgia con nudi integrali. In un impianto musicale alla Schreker (il quale a sua volta recepisce molto da Alexander von Zemlisky, i cui lavori sono stati eseguiti in Russia anche durante i momenti più oscuri dello stalinismo e venivano studiati nei conservatori georgiani) s’innescano elementi tradizionali di musica ebraica ( quali il Bukkhara di cui nel maggio 2007 si è avuto un eccellente concerto a Parma). L’enfasi della vocalità è, quindi, su tessiture alte: tra i protagonisti maschili, un controtenore Yaniv d’Or, un tenore “di grazia” Yosef Aridan ed un baritenore Gaby Sadeh. Nel comparto femminile, invece, due soprani drammatici, Ira Bertman e Larissa Tutuev ed un mezzo soprano, Edna Prochnick. Meno importanti i ruoli del basso Vladimir Braun e del baritono Noha Briger. La direzione musicale della Israel Simphony Orchestra Eishon LeZion è affidata a Asher Fish, noto in Italia poiché ha diretto il “Parsifal” inaugurale al Teatro San Carlo di Napoli lo scorso dicembre.
La compagnia è ineccepibile: tanto i solisti quanto il coro e l’orchestra hanno dato una prova della loro capacità. Non mi soffermo sulle singole voci poiché i loro nomi non sono conosciuti dal pubblico italiano ed è difficile pensare che lo diventino – tranne che non abbraccino carriere al di fuori d’Israele. Lo spettacolo è stato molto applaudito nonostante si trattasse di un’occasione celebrativa ed il linguaggio musicale non è proprio quello a cui il pubblico romano è avvezzo. Forse è il meglio che la compagnia può dare - un meglio, però, che molti nostri teatri dovrebbero invidiare.


Teatro dell’Opera di Roma, 8 maggio
LA LOCANDINA

VIAGGIO ALLA FINE DEL MILLENNIO
Opera in due atti e dieci scene
Libretto di A.B. Yehoshua, Musica di Josef Bardanashvili

Regia Omri Nitzan
Scene e Costumi Ruth Dar
Coreografia Daniel Michaeli

Ben Attar Gaby Sadeh
Abu Lufti Vladimir Baum
La Seconda Moglie Ira Bertman
La Prima Moglie Edna Prochnik
Abulafia Yosef Aridan
Elbaz………………….Yaniv d’Or
Levinas Noah Briger
Ester Minna…………..Larissa Tetuev
Il giudice……………. Ela Rosner

Coro dell’Israeli Opera diretto da Yishai Steckler

Orchestra The Israel Simphony Orchestra Rishon Le Zion

Direzione Musicale Asher Fisch

ROMA CELEBRA ISRAELE CON UN TUTTO ESAURITO D’ECCEZIONE, L'Occidentale 11 maggio

Nella stampa della Parigi degli Anni 50, si parlava di “Tout Paris” quando “the best and the beautiful” si davano appuntamento per una “prémière” a teatro, o – come usava allora – anche al cinema. La sera dell’8 maggio il “Tout Rome” si è dato convegno al Teatro dell’Opera per la “prima” italiana di “Viaggio alla Fine del Millennio” opera in due parti e dieci quadri di Josef Bardanasvili su libretto di A.B. Yehoshua (autore del romanzo da cui è tratta). Dalla platea, si vedevano nel palco reale il Capo dello Stato Napoletano, il Sindaco Alemanno, il Presidente della Camera dei Deputati Fini (tutti con le rispettive Signore), oltre che il Sen. Cossiga . In sala, una folla di politici (tra cui Letta, Frattini e Fassino nonché numerosi aspiranti Vice Ministri e Sottosegretari, provenienti da varie parti d’Italia a Roma probabilmente anche poiché speravano che la loro nomina fosse stata formalizzata da un Consiglio dei Ministri inizialmente in cantiere per le 18 ma, poi, spostato a lunedì 12 maggio). Molto presente il mondo della cultura, della finanza e dell’industria, non solo romano ma anche milanese. La platea, tutti gli ordini dei palchi ed anche le gallerie stracolme.
La serata era in occasione dell’inizio delle celebrazioni il 60simo anniversario dello Stato d’Israele. Per chi ama la cultura in generale ed il teatro in musica in particolare è un’eccellente idea rappresentare un’opera contemporanea (d’autori viventi) per un evento celebrativo di questa portata. In Italia, invece, in casi analoghi si ripescano opere del Settecento ed è raro vedere sui nostri palcoscenici lavori contemporanei, anche quelli d’autori americani che hanno grandi risultati di biglietteria.
Il lavoro in scena a Roma è stato commissionato dall’Israeli Opera di Tel Aviv dove ha debuttato il 21 maggio 2005. A.B. Yehoshua ha ricavato il libretto dal romanzo ambientato attorno all’anno Mille tra Tangeri, la Spagna, Parigi, Worms e la Foresta Nera. Il mercante ebreo marocchino Ben Atar, socio di un commerciante mussulmano, va in Europa per potersi riconciliare con il nipote Abulafia, ma finisce processato e scomunicato per la sua bigamia; gli ebrei del Nord Africa avevano adottato dalle prassi arabe, mentre gli ebrei insediatesi nel Nord Europa, legati ai precetti religiosi tradizionali, la vietavano. Il tema chiave è la ricerca della tolleranza tra diverse visioni della vita all’interno della medesima religione. Interessante notare come l’opera contenga anche una scena “osèe” (ovviamente velata) di sesso a tre. Il dramma esplode quando una delle due mogli di Ben Atar, pur soddisfatta dalla bigamia, vorrebbe estendere, per ragioni di pari opportunità, la prassi alla poliandria (ciascuna moglie potrebbe avere più mariti); ciò innesca la scomunica.
Joseph Bardanashvili, compositore georgiano, emigrato nel ’95 in Israele, ha firmato molti balletti, sinfonie e colonne sonore. La Israel Simphony Orchestra Eishon LeZion era concertata da Asher Fish, che ha diretto quest’anno il “Parsifal” inaugurale al Teatro San Carlo di Napoli. La regia è di Omri Nitzan. Scenografie e costumi sono curati da Ruth Dar. Disegno luci di Felice Ross e Yehiel Orgal. Coreografia di Daniela Michaeli. Direttore del Coro è Yishai Steckler. Tra gli interpreti, nel ruolo del mercante di Tangeri si esibisce Gaby Sadeh. La prima e la seconda moglie sono Edna Prochnik e Ira Bertman. Il nipote di Ben Attar è Yosef Aridan. L’opera è stata presentata in ebraico, con sovratitoli in italiano.
In una sede tecnica specializzata in opera lirica riferirò sugli aspetti specificatamente musicali dello spettacolo. In sintesi, il libretto è efficace sotto il profilo drammaturgico; traduce bene in versione scenica l’amaro contenuto del romanzo – i cui temi non riguardano solamente differenti interpretazioni della parola di Dio nell’ambito della medesima religione ma hanno una valenza universale. La struttura musicale sembra ispirata ad uno dei maggiori compositori russi contemporanei, Alfred Schnittke, il quale, a sua volta, ha molti punti in comune con i compositori tedeschi della prima metà del Novecento: enorme organico, scrittura vocale in cui il declamato scivola in ariosi, grandi interventi del coro, concertati nei finali. In tale impianto s’inseriscono elementi tradizionali di musica ebraica ( quali il Bukkhara di cui nel maggio 2007 si è avuto un eccellente concerto a Parma). L’enfasi vocale è su tessiture alte: tra i protagonisti maschili, un controtenore, un tenore “di grazia” ed un baritenore. Ineceppibile, la prova data da tutta la compagnia. Applauditissima dal “Tout Rome”.

sabato 10 maggio 2008

"NORMA" DA GUARDARE, Milano Finanza 9 maggio

Il nuovo allestimento di “Norma” di Vincenzo Bellini è basato su quello andato in fiamme nel rogo del Petruzzelli nel 1991 e dopo Bologna (dove è in scena sino al 10 maggio) inaugurerà la ri-apertura del teatro di Bari e la prossima stagione del Verdi di Trieste. L’opera rappresenta una proficua collaborazione tra arti visive e teatro in musica e vede il debutto di Daniela Dessì in uno dei ruoli più ardui del “bel canto”.
L’opera è del 1831: pulsioni nazional- risorgimentali si fondono con l’intreccio passionale e con il tema dell’amicizia tra le due protagoniste femminili. “Norma” è l’apoteosi del canto puro nella sua espressione sia lirica sia tragica. Ad un’orchestrazione semplice (quasi elementare) si giustappongono una solennità statica ed un canto lineare, caratterizzato da una ricca vena melodica; Richard Wagner la paragonò alla tragedia greca.
Nell’ultimo anno si sono visti allestimenti che echeggiavano i film storici Anni 50; a Macerata, la vicenda era trasferita nel Tibet occupato dai cinesi. Questa nuova edizione curata con eleganza da Federico Tiezzi si ispira al neoclassicismo del periodo in cui visse Bellini ed utilizza riproduzioni dei magnifici fondali dipinti da Mario Schifano per l’allestimento distrutto nell’incendio del Petruzzelli. Essenziali le scene di Pier Paolo Bisleri; efficaci i costumi di Giovanna Buzzi. E’ una vera festa per gli occhi: dominano il grigio ed il bianco su cui si stagliano i costumi della protagonista (blu nel primo atto, rosso Bordeaux nel finale) ed i colori sgargianti delle tele e dei sipari di Schifano. Il visivo si integra perfettamente con la partitura.
Di grande livello i tre protagonisti. Daniela Dessì torna al “bel canto” (con cui ha iniziato giovanissiama la carriera) dopo tre lustri in cui si è dedicata principalmente al Novecento. E’ un soprano lirico puro che sfoggia agilità e “coloratura”. La sua “Norma” ha un contenuto intimista, simile più a quella di Monserrat Caballé che a quelle, drammatiche e con il timbro brunito, di Maria Callas e Shierly Verret. Ha ricevuto ovazioni a scena aperta. Molto applauditi Fabio Armiliato (un Pollione vigoroso) e Kate Aldirch (un’Adalgisa commovente). Rafal Siwek (Oroveso) ha tutti i pregi ed i difetti dei bassi dell’Europa orientale. Efficace il coro guidato da Paolo Vero.
Lo spettacolo potrebbe ambire al “Premio Abbiati” (l’Oscar della lirica) con una migliore direzione d’orchestra. La concertazione di Evelino Pidò è mediocre; in certi momenti- ad esempio in “Casta Diva” e nel terzetto con cui si chiude il primo atto- sono i cantanti, non il maestro concertatore, a dare i tempi; gli ottoni ed i fiati hanno a volte un colore da banda popolare; la bella sinfonia passa inosservata.

PROKOFIEV, “CAPRICCIOSO” DOPPIO GIOCO, IL Domenicale 10 maggio

Come si sono assuefatti gli intellettuali russi ai regimi autoritari? E’ un tema che il “Dom” sta affrontando da un paio d’anni. All’inizio del 2006 (nel n. 3 del 21 gennaio) abbiamo ricordato “il centenario dimenticato” , quello di Dmitri Šostakovič, comunista convinto, ma la cui opera principale (“La lady Macbeth del distretto di Mensk”) venne messa al bando da un editoriale della Pravda ispirato (e secondo alcuni scritto) da Stalin in persona , e costretto a lunghi anni di isolamento. Nell’estate 2006 abbiamo tracciato una panoramica degli intellettuali di San Pietroburgo (Matteo, penso fosse luglio). Più di recente (nel “Dom” del 12 aprile) abbiamo trattato della ribellione, non tanto segreta, di Nicolai Rimski-Korsakov all’autoritarismo di un regime zarista, ormai moribondo. Per una coincidenza del caso, in giugno di potrà vedere ed ascoltare al Maggio Musicale Fiorentino la ripresa di una bellissima edizione (del 1998) de “La lady Macbeth del distretto di Mensk” di Šostakovič ed alla Scala la nuova produzione, in coproduzione con la Staatsoper di Berlino, de “Il giocatore” di Sergej Prokofiev , un’opera composta nel 1915-16 (quando l’autore era giovanissimo) ma la cui “prima” avvenne a Bruxelles nel 1929 – poco messa in scena in Russia ed ancora più raramente in Italia (ne ricordo un’esecuzione alla Scala nel gennaio del 1996 nell’ambito di una tournée del Teatro Marinskj di San Pietroburgo.
Rimandano per Šostakovič a quanto scritto sul “Dom” del 2006, è utile soffermarsi su Prokofiev, noto in Italia principalmente per la sua produzione concertistica, per i suoi balletti, per le sue musiche da film (“Alexandr Nevsky” e “Ivan il Terribile”, ambedue di Sergej Eisestein) e per tre opere, peraltro molto differenti, “L’amore delle tre melarance”, “L’angelo di fuoco” e “Guerra e Pace” . nonché ovviamente per il delizioso “Pierino e il lupo”. Su Prokofiev è stato pubblicato alcuni anni fa un libro esauriente di Piero Rattalino (“Sergej Prokofiev- La vita, la poetica, lo stile”, Zecchini Editore 2003), la cui lettura può essere una buona premessa per meglio godere “Il giocatore”.
In questa sede, tuttavia, gli aspetti della poetica musicale ci interessano meno del rapporto difficile che questo “figlio geniale ma capriccioso” (la definizione è di Tommaso Manera) ebbe con il regime autoritario della propria Patria e soprattutto il camino che fece, dopo avere lasciato la Russia all’inizio di una “rivoluzione proletaria” che per lui – lo ammettono anche i musicologi schierati a sinistra- per lui era almeno “problematica” – vi ritornò (gradualmente) mentre stava cominciando il periodo peggiore del terrore staliniano, ebbe la propria prima moglie deportata nel gulag nel 1948 (e successivamente costretta all’espatrio), cantò non solo le gesta della Russia in guerra contro la Germania , compose nel 1950 l’oratorio più celebrato dal comunismo internazionale (“Siate vigili per la Pace”), e morì quasi alla stessa ora di Stalin tanto che del suo decesso diede notizia un giornale americano quattro giorni dopo e la “Pravda” ben sei giorni più tardi.
Prokofief è stato un “enfant prodige”- già a 11 anni ha composto il testo e la musica di una cantata. Nel clima di una Russia che si avvicinava alla Rivoluzione d’Ottobre, oltre a sfornare una produzione sorprendente, per quantità e per qualità, di cameristica e di avvicinarsi al teatro in musica (con la prima versione de “Il giocatore”, le cui prove furono interrotte dalla Rivoluzione del Febbraio 1917) si appassionò alle espressioni più moderne – dal neobarocco, al futurismo, al dadaismo – tutte molto distanti dal post-wagnerismo della musica tedesca o dal verismo che allora permeava la musica italiana ed, in parte, quella francese e che sarebbe diventato “realismo socialista” nella poetica leninista e stalinista. Pianista di eccezionale qualità, venne accolto a braccia aperte in Occidente quando nel 1918 lascia (in compagnia della madre) la Russia alla volta di Parigi (che aveva già conosciuto ed apprezzato nel 1911, a 20 anni), Londra e Chicago dove, dopo molte peripezie, trionfa “L’amore delle tre melarance”, opera tratta da una commedia di Carlo Gozzi con un ritmo sincopato futurista, una vera e propria di personaggi , un organico orchestrale contenuto ma soprattutto un’ironia sferzante contro gli autoritarismi di ogni genere e specie, i falsi intellettuali, gli utili idioti e via discorrendo. Si è vista al “Carlo Felice” di Genova nel febbraio 2007 ed ho avuto modo di gustare un’edizione godibilissima lo scorso dicembre alla Komische Oper di Berlino. Curiosamente, l’opera ebbe un’accoglienza trionfale a Leningrado (nuovo nome di San Pietroburgo) quando venne ivi rappresentata nel 1927; i burocrati sovietici non si accorsero del suo potenziale rivoluzionario.
Nonostante il carattere vagamente laicista (che sarebbe potuto piacere alla nomenklatura ed alla Commissione per l’Ateismo) un altro capolavoro per il teatro in musica (“L’angelo di fuoco”) , commissionato inizialmente dal Metropolitan (dove non andò mai in scena), restò un manoscritto nella sua casa di Parigi (dove alcune parti vennero eseguite in forma di concerto); la prima rappresentazione scenica fu postuma, ed in traduzione ritmica italiana, al Festival di Musica Contemporanea di Venezia nel febbraio 1955. In effetti, l’insolitamente lungo periodo di composizione del lavoro, coincise per molti aspetti con la sua graduale decisione di ritornare in Russia. Accettò, in primo luogo, di comporre le musiche per un film brillante (che sarebbe stato di grande successo) , “Il luogotenente Kijé”, poi di un balletto, “Romeo e Giulietta”, e di avvicinarsi sempre più ad uno stile che sarebbe stato accattivante per il pubblico russo (ad esempio, il “Primo concerto per violino ed orchestra”), quindi sempre più distante sia dalle esperienze dadaiste e futuriste di pochi anni prima sia dal nuovo linguaggio che prendeva piedi in Germania, in Francia ed in Italia e che avrebbe avvicinato lo stesso Stravinsky (émigré come lui al tempo della Rivoluzione d’Ottobre) alla dodecafonia.
Nell’Unione Sovietica, la vita dei musicisti era severamente regolamentata: suo moglie- si è detto- finì in campo di concentramento prima di essere deportata (si spense a Londra nel 1989), uno dei suoi migliori amici Vsevolod Mejerchol'd, librettista dell’opera “Seimon Kotko”, fu condannato a morte nel corso delle purghe staliniane, si legò ad una donna di giovane età, compose addirittura una “Cantata per il ventennale dalla Rivoluzione d’Ottobre” (da cui se la era data a gambe levate) ed un’altra per il sessantesimo compleanno di Stalin, oltre a lavori più noti (“Guerra e pace”, le musiche per i film di Eisenstein), molti con un forte contenuto patriottico.
Un opportunista, come considerato per anni da certa critica di destra? Un irrimediabile tradizionalista, incapace di prendere atto della crisi del sistema tonale, e di meditare sulla serialità e sulla dodecafonia, come scritto per decenni dalla critica italiana e tedesca di sinistra?
Difficile dare una risposta: il beffardo dadaista e futurista dalla cultura internazionale è forse semplicemente rientrato in Russia sui 45 anni per amore e nostalgia di Patria, pagando il prezzo di venire a patti con il sistema politico imperante. Lo suggeriva nel 1940 in “Seimon Kokto” (curiosa opera comica sulla campagna ucraina ai tempi della prima guerra mondiale) ed ancor meglio un’opera minore del 1948 , singolarmente intitolata “La storia di un vero uomo” ( mai rappresentata in Occidente) in cui si tenta, senza riuscirci, di mostrare cosa è il “vero uomo sovietico”..