martedì 18 marzo 2008

PENSIONI: SEI CONSIGLI PER UNA RIFORMA VERA

La parola “p…” è entrata – come ci si aspettava- nel dibattito elettorali. I meno giovani si ricorderanno che negli Anni 50 e 60, la “p…” era considerata una parolaccia tanto che Jean-Paul Sartre intitolò “La p….respecteuse” uno dei suoi drammi di maggior successo. Anche adesso la parola “p….” è vocabolo che nessun politico vorrebbe pronunciare: vuole dire “pensioni” ed evoca ricordi dei veri e propri moti che, utilizzando come stendardo la parola “p….”, nell’inverno 1994-95 venne scalzato un Governo legittimamente eletto e sostituito con un Esecutivo “del Presidente”. Evoca anche una serie di riforme iniziate nel 1993 e conclusesi – si pensava nel 2004- ma in gran parte neutralizzate con la controriforma prevista della legge n. 247 del 24 dicembre 2007 (parte dei cui decreti attuativi sono ancora da emanare).

Per chiunque andrà al Governo, la parola “p….” costituirà un macigno che si aggiungerà al “buco annunciato” – le stime variano tra i 4 ed i 12 miliardi – nei conti pubblici 2008 (sempre che si vogliano conseguire gli obiettivi definiti nella legge finanziaria e concordati con il resto dei Paesi dell’area dell’euro). Secondo stime degli esperti di centro-sinistra, la legge 247/2007 comporta una spesa previdenziale aggiuntiva di 10 miliardi di euro nei prossimi tre anni, rendendo ancora più difficile ad un eventuale Governo PD di far quadrare i conti senza ripudiare l’eredità dello “zio Romano” o quanto meno accettarla “con il beneficio di inventario”. Un più probabile Governo PdL non dovrebbe ripudiare un bel nulla ma cercare di mettere la previdenza su un binario corretto. Il fatto stesso che a Cernobbio se ne sia fatto un cenno ha scatenato le ire di parte dei sindacati.


Esaminiamo i fatti per vedere cosa è auspicabile e cosa fattibile -La legge del 247/ 2007 (con la quale si è data normazione al Protocollo sul Welfare del 23 luglio 2007) prevede in essenza questi punti:
definizione di un nuovo sistema di età pensionabile attraverso l’abrogazione dell’ innalzamento dell’età di pensione a 60 anni dal 1° gennaio 2008 (il cosiddetto “scalone”) e la definizione di un percorso graduale (gli “scalini”);
modifiche della disciplina dei lavori usuranti: individuate le risorse (fondo decennale di 2,5 miliardi di euro) che consentiranno di andare in pensione con tre anni di anticipo ai “lavoratori usuranti” da definirsi sulla base di un decreto legislativo da presentare entro giugno;
modifica dell’impianto del sistema contributivo, applicando dal 2010 (e poi triennalmente) i nuovi coefficienti di trasformazione definiti nel 2005 e costituendo una commissione per verificare e proporre modifiche che tengano conto delle nuove condizioni economiche e del mercato del lavoro, al fine di tutelare le pensioni più basse e le carriere discontinue;
definizione futura di un intervento sulle finestre di uscita per le pensioni di vecchiaia che verranno portate a 4 per i lavoratori che hanno 40 anni di contributi;
miglioramento delle pensioni di molte categorie mediante interventi sulla totalizzazione, sul riscatto della laurea e dei contributi figurativi nel caso di disoccupazione e lavori discontinui;
intervento sui fondi in squilibrio: applicazione di un contributo di solidarietà su quei fondi che provocano squilibri finanziari rilevanti (fondo volo, fondo elettrici e simili);
definizione di alcuni interventi solidaristici (blocco perequazione pensioni alte e aumento delle aliquote contributive per la gestione speciale di coloro che sono già iscritti a forme previdenziali);
mutamento della prestazione pensionistica per i giovani parasubordinati attraverso l’aumento di un punto l’anno fino a tre punti della contribuzione (in quota parte maggiore sui committenti) che dà diritto alla pensione;
riordino e razionalizzazione degli Enti previdenziali;
detassazione parziale per i lavoratori dei premi di risultato da attuarsi con 150 milioni di euro per il 2008.
Oltre a questi dispositivi normativi, il Governo Prodi si è impegnato a permettere il raggiungimento , anche tramite “politiche attive”, di un tasso di sostituzione al netto della fiscalità non inferiore al 60%. Una parte della coalizione di quella che era allora maggioranza avrebbe voluto che tale impegno venisse incluso in un articolo di legge.

Alcuni aspetti della nuova normativa – ad esempio, il miglioramento delle condizioni per “totalizzare” (ossia sommare contributi a differenti regimi ed enti previdenziali) e per facilitare il riscatto di anni dedicati all’accrescimento di capitale umano (quali gli studi universitari) o periodi di assenza di contributi a ragione di disoccupazione involontaria – sono ineccepibili e non pare aggravino in misura significativa il già pesante onere della previdenza sulla finanza pubblica e sulla produzione di beni e servizi. Altri invece rimettono in questione l’essenza stessa del sistema Notional Defined Contributio (Ndc) ; tale sistema postula una corrispondenza tra contributi versati e spettanze previdenziali. Tale corrispondenza viene fortemente incrinata dagli aspetti centrali della nuova normativa:
· in primo luogo il mantenimento di meccanismi per pensioni di anzianità che consentono a tutti di usufruire della prestazioni in età significativamente più giovane di quanto è norma nel resto d’Europa;
· in secondo luogo, tramite la revisione ed il probabile ampliamento (rispetto a quanto già definito nel 1999), delle categorie i cui lavori vengono considerati “usuranti” , categorie che possono continuare ad andare in pensione di anzianità in età relativamente giovane;
· in terzo luogo, tramite il rinvio dell’aggiornamento dei “coefficienti di trasformazione” (per trasformare in vitalizi i montanti figurativi di contributi) che sarebbe dovuti entrare in vigore nel 2005 per tenere conto di andamenti demografici e economici;
· in quarto luogo, tramite una vasta gamma di interventi solidaristici che, se giustificati a favore delle fasce a più basso reddito, dovrebbero essere a carico della fiscalità generale non del sistema previdenziale.

Occorre ricordare che nel 1995 non solo l’Italia ma anche la Svezia introdusse il sistema Ndc (attualmente in vigore in circa 25 Stati e potenzialmente alla base di un sistema previdenziale di base comune all’intera Ue): Mentre la Svezia ha previsto un periodo di transizione triennale (già completato nel 1998), l’Italia aveva programmato un periodo di transizione tra i 18 ed i 25 anni. Ora abolisce alcuni pilastri stessi del Ndc. L’abrogazione sarebbe completa ove venisse soddisfatto l’impegno di raggiungere di un tasso di sostituzione al netto della fiscalità non inferiore al 60%. Queste implicazioni sono più gravi di quelle delineate in stime, peraltro approssimative, degli oneri aggiuntivi innescati da una normativa ispirata essenzialmente da quella parte dello schieramento che mirava ad un ritorno al passato – ossia alla situazione precedente la riforma del 1995 e l’introduzione del Ndc. Ho condotto un raffronto tra la riforma della previdenza in Svezia and in Italia nel saggio “Europe Needs Savings: Defusing the Pension Time Bomb” pubblicato a Londra dallo Stokholm Network nel 2006: il raffronto, già allora negativo per l’Italia, è peggiorato in misura significativa a ragione della 247/2007.

Non che dal 1992 non fossero emersi problemi sociali seri, segnatamente quello della graduale riduzione del potere d’acquisto dei pensionati a ragione di un meccanismo di indicizzazione agganciato non all’andamento dei salari (che tiene conto degli aumenti di produttività dell’intero Paese) ma solamente a quello dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati. Tali problemi si sarebbero potuti risolvere senza intaccare il Ndc ma anzi rafforzandolo, come si delineerà nel paragrafo conclusivo. Un approccio ideologico, sottostante il desiderio di ritorno al passato, ha prevalso su quello che sarebbe stato buon senso.

Come negli principali Paesi in cui è stato introdotto (od è in via di introduzione) un sistema Ndc , la previdenza pubblica viene affiancata da meccanismi previdenziali di stampo privatistico, quali i fondi pensione. Le statistiche più aggiornate sono quelle dell’ultima relazione annuale della Commissione di Vigilanza sui Fondi Pensione (Covip) che fotografa la situazione a fine 2007 ma fornisce anche le prime indicazioni offerte dalla normativa del 2004 sul trasferimento del trattamento di fine rapporto (tfr) ai fondi. Tale trasferimento (ovviamente volontario o semi-volontario) sembrava il toccasana per fare decollare i fondi, il cui impianto di base risale alla “riforma Amato” della previdenza del 1993.

Il quadro non è incoraggiante. Alla fine del 2007, gli aderenti a fondi pensione od a piani previdenziali individuali erano 4.5 milioni pari al 20% circa degli occupati e le risorse (uno stock) 57 miliardi di euro pari a meno 5% del pil (un flusso) ma meno dello 0,3% dello stock di ricchezza degli italiani. Lo dice a tutto tondo un rapporto Ocse : l’Italia è l’ultima in classifica in termini di attività dei fondi : non toccano – come si è detto- il 5% del pil rispetto ad oltre il 120 in Svizzera, Olanda, Islanda, ed ad oltre l’80% in Gran Bretagna e Australia Queste cifre includono un milione circa di aderenti a polizze previdenziali-assicurative individuali con un investimento totale attorno a 5 miliardi di euro.

La relazione Covip è ottimista per quanto riguarda il futuro. Lo è già stata in passato. Tuttavia, un’analisi dei rendimenti non è incoraggiante: Quelli dei fondi negoziali (ossia previsti nella contrattazione collettiva) hanno toccato una punta del 7,5% netto nel 2005 ma sono scesi dal 5% nel 2003 al 3,8% nel 1006. Non vanno meglio i fondi aperti: dal 5,7% nel 2003 al 2,4% nel 2005. Possiamo consolarci poiché la situazione non è migliore nella vicina Spagna: l’ultimo rapporto dell’istituzione di controllo dei fondi spagnoli rivela che dal 2001 al 2006 il tasso di rendimento è stato il 2,9% l’anno, inferiore a quello d’inflazione (3,2% l’anno)

Per il futuro a medio termine le prospettive non sono esaltanti. Sono soprattutto i lavoratori giovani a guardare a questi indicatori e a non correre verso i fondi. Il britannico “Financial Analists Journal” parla addirittura di insolvenze di alcuni fondi del Regno Unito. Di converso, il consuntivo 2006 del fondo pensione dei dipendenti della Banca mondiale espone un tasso di rendimento del 14,1% per l’anno di riferimento e una media del 8,5% per il periodo 1997-2006. Quindi, fondo pensione non equivalente sempre a rendimenti risicati. Possono essere elevati se la consistenza è elevata e la professionalità dei gestori molto alta.

Il vero nodo italiano è che i 57 miliardi di euro sono frantumati su circa 600 fondi ed un milione di polizze individuali . I fondi di nuova istituzione (in base alle normative degli ultimi anni) sono 146; gli altri pre-esistenti. I fondi negoziali sono 42, interessano ormai tutti i settori dell’economia ma non raggiungono 1,3 milioni di iscritti, nonostante gli sforzi per incoraggiarli Pensare che la destinazione del tfr/tfs risolva il problema equivale a credere che l’aspirina risolva malattie oncologiche. Occorre affrontare la polverizzazione del settore che ha dato vita ad una miriade di fondi lillipuziani che rischiano di essere fortemente penalizzati alla prima tensione sui mercati finanziari e spazzati via al primo temporale azionario o monetario. In Cile, quando un quarto di secolo fa, la previdenza venne articolata prevalentemente su fondi pensione, loro numero venne limitato a sei proprio per assicurare che fossero sufficientemente robusti. Quando venne varata la “riforma Amato”, non mancarono suggerimenti in tal senso, ma vinse la teoria dei cento fiori – di consentire ad una pluralità di soggetti interessati di dare vita a fondi pensioni o gestiti direttamente o da affidare in gestione a specialisti. La Covip, approdo principalmente per ex-sindacalisti, ha mancato al suo compito principali e, secondo alcune esperti, sarebbe stata addirittura dannosa. Nella riforma delle Authority presentata in Parlamento oltre un anno fa, se ne prevedeva la soppressione – dato che i suoi esiti hanno convinto pure il centro-sinistra.

In questo quadro preoccupante, c’è un elemento recente che può essere di grande utilità nel plasmare la politica legislativa della XVI legislatura: un’indagine Harris Interactive (i cui esiti sono stati resi pubblici il 14 marzo) indica che gli europei – l’indagine è stata condotta in Francia, Gran Bretagna, Germania, Spagna ed Usa – sono pronti a ritardare l’età effettiva del pensionamento (oggi attorno ai 62 anni, rispetto ai 67 degli americani). Un’inchiesta più semplice condotta da Bruegel (in centro di ricerche sulla politiche europee) e pubblicata il fine settimana del 15-16 marzo giunge a conclusioni analoghe. Un punto importante è che un numero crescente di europei considera “discriminatorie” contro gli anziani le norme sui massimi di età per la pensione (ad esempio, 65 anni, portabili a 67 su richiesta, per i dipendenti pubblici italiani). Ciò deriva da due determinanti: a) l’allungamento della vita (e specialmente della vita in buone condizioni fisiche e mentali) e b) la crescente consapevolezza che le pensioni sono destinate ad assottigliarsi.


La prima indicazione di politica legislativa che è occorre tornare al Ndc ed accelerarne la completa entrata in vigore, prendendo al tempo stesso misure a favore dei più deboli tali da essere compatibili con la sostenibilità complessiva del sistema. Ciò non può dire tornare al cosiddetto “scalone” della riforma del 2004; sarebbe una misura poco utile e che susciterebbe un’opposizione agguerrita. Si dovrebbero, però, premdere queste misure simultanee e parallele per la previdenza pubblica :a) aumento dell’età della pensione (con eccezioni per i lavori davvero usuranti); b) estensione a tutti le tecniche di computo pro-quota previste dal Ndc; c) applicazione dei coefficienti di trasformazione (proposti dal Nucleo di valutazione della spesa previdenziale nel 2005 per tenere conto dell’allungamento delle aspettative di vita); d) incremento delle pensioni minime ed aggancio della loro evoluzione all’ andamento dei salari (come prima del 1993); e) un indicizzazione più forte per gli ultra 75enni (a ragione delle pi alte spese per la cura della persona in cui si incorre in tarda età. I risparmi sulle voci a), b) e c) di cui beneficiano, di norma, coloro con redditi alti o medio alti, sarebbe serviti a finanziare le voci d) ed e) , dirette invece a chi è in condizioni di vero disagio. Per la previdenza complementare è urgente favorire l’accorpamento di fondi pensione ed abolire la Covip o affidarla a effettivi esperti di previdenza, anche comparata. La possibile riorganizzazione degli istituti previdenziali deve essere vista in questa ottica e portata avanti solamente se comporta risparmi certi e dopo l’integrazione dei rispettivi sistemi informatici.

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