martedì 25 marzo 2008

LE PENSIONI MORDONO ANCHE SE FUORI PROGRAMMA DA LIBERO DEL 22 MARZO

La questione previdenziale è stata al centro delle campagne elettorali dall’inizio degli Anni 90. Questa volta, invece, le pensioni sono un “fuori programma”, nel senso che non se ne parla né nelle sette “missioni” del PdL né nel “dodecalogo” del PD né, tanto meno, nelle proposte degli altri partiti. Ciò vuol dire che si è risolto il problema e che del tormentone non dobbiamo preoccuparci più ? Niente affatto. Il “fuori programma” morde – così come mordevano spesso i varietà-caberet che nell’immediato dopoguerra si propinavano agli spettatori tra uno spettacolo e l’altro di film piuttosto noiosi.
Le ultime stime del disavanzo e del debito previdenziale (aggravati dalla legge 247 del 24 dicembre 2007, quella della “controriforma” attuata dal Governo Prodi) ce lo ricordano come un ammonimento. Ancora più inquietante un saggio di Nicholas Misoulis pubblicato sul periodico liberista britannico “Economic Affairs”: se non si farà nulla le tendenze demografiche e previdenziali comporteranno una riduzione progressiva dei rendimenti degli investimenti in capitale fisico e finanziario e, dunque, una lunga fase di stagnazione, ove non di declino. Il circolo vizioso parte dall’alta spesa previdenziale che frena l’economia e rende ancora più difficile mantenere le promesse in materia di assegni pensionistici destinati ad un inevitabile assottigliamento. Ancora più fosco il quadro, basato un modello econometrico costruito per la bisogna, delineato da Martin Werding nella prima parte del CESifo Working Paper No 2207 appena pubblica in Germania.
Come se ne esce? Tra tanti elementi inquietanti, ci sono alcune indicazioni positive sulle quali la politica potrebbe fare leva una volta superate le elezioni e posti i problemi previdenziali al centro della politica legislativa scacchiere , non nel “fuori programma”. Un dato recente è eloquente: un’indagine Harris Interactive (i cui esiti sono stati resi pubblici a metà marzo) indica che gli europei – l’indagine è stata condotta in Francia, Gran Bretagna, Germania, Spagna ed Usa – sono pronti a ritardare l’età effettiva del pensionamento (oggi attorno ai 62 anni, rispetto ai 67 degli americani). Un’inchiesta meno approfondita condotta da Bruegel (in centro di ricerche sulla politiche europee) e pubblicata quasi contemporaneamente a quella di Harris Interactive giunge a conclusioni analoghe. Un numero crescente di europei considera “discriminatorie” contro gli anziani le norme sui massimi di età per la pensione (ad esempio, 65 anni, portabili a 67 su richiesta, per i dipendenti pubblici italiani). Ciò deriva da due determinanti: a) l’allungamento della vita (e specialmente della vita in buone condizioni fisiche e mentali) e b) la crescente consapevolezza che le pensioni sono destinate a diventare sempre più esili in termini reali e rispetto alle retribuzioni di chi lavora. Circa tre lustri fa, la Corte Suprema americana ha dichiarato “incostituzionali” perché discriminatorie nei confronti degli anziani le norme ed i regolamenti che pongono limiti all’età in cui si può lavorare (sempre che si voglia e si sia in grado di svolgere le funzioni richieste dall’impiego). E’ sempre il lavoro citato di Martin Werding a sottolineare come in numerosi Paesi Ocse mantenere al lavoro gli anziani (che vogliono e possono farlo) può indicare positivamente sulla produttività multifattoriale dei sistemi-Paese. Conclusoni analoghe vengono dagli studi di un centro americano specializzato in ricerche su questi campi – si veda il Michigan Retirement Research Center Research Paper No. WP 2007-153. Uno dei primi provvedimenti del Governo Prodi fu quello di abrogare la norma della XIV legislatura con cui , in certe circostanze, consentiva agli statali di restare in servizio sino al compimento dei 70 anni di età. Una misura, quindi, in controtendenza rispetto agli orientamenti del resto del mondo.

Cosa è, al tempo stesso, desiderabile e fattibile? Non certo tornare allo “scalone” (capitolo ormai archiviato), ma rimuovere i limiti di età a chi vuole lavorare ed è in grado di farlo ed applicare il tutto il metodo contributivo per il calcolo delle spettanze (anche nella forma “pro-quota”, ossia mantenendo agganciati al “retributivo” gli anni di iscrizione al sistema previdenziale in cui si era in quel regime). Ripensare, poi, la previdenza complementare. Ma questo è un altro capitolo. Buona Pasqua a tutti.

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