domenica 16 marzo 2008

ATTENTI LIBERISTI TREMONTI HA RAGIONE

Sono sempre stato un “free trader” (favorevole alla liberalizzazione del commercio internazionale) indefesso. Già nel lontano 1968, in un libro pubblicato al Mulino di Bologna sul “Kennedy Round” (la tornata di negoziati commerciali multilaterali degli Anni Sessanta) sostenevo come, liberalizzato in gran misura il commercio di manufatti tra Paesi Ocse, si doveva passare urgentemente all’apertura degli scambi agricoli ed a quelli di servizi. Qualche tempo dopo su “La Rivista di Politica Economica” proposi una ridefinizione in senso liberista dell’argomento dell’industria nascente (solitamente adottato, ed accettato, per proteggere nuovi settori). Negli Anni Settanta, da Washington, commentavo criticamente su “Il Sole-24Ore” il neoprotezionismo che, sulla scia delle tensioni monetarie, dagli Usa si propagava al resto del mondo. Assiduo frequentatore, da quando ho cominciato a portare i pantaloni lunghi, di Villa le Bocage (sede del GATT) e poi del Centre William Rappart (sede del WTO, Organizzazione Mondiale del Commercio) credo di avere i titoli per essere considerato un “free trader” senza mezze misure.
E’ in questo spirito che occorre non solo esaminare le polemiche suscitate dal saggio “neo-colbertista” (dal nome del Ministro dell’Economia di Luigi XIV che fece arte raffinata dell’intervento pubblico, nonché di dazi e tariffe) di Giulio Tremonti ma anche e soprattutto la situazione dei negoziati commerciali multilaterali iniziati nel novembre 2001 a Doha, nel Qatar- chiamati giornalisticamente Doha develoment agenda, Dda) per il ruolo che l’apertura del commercio dovrebbe dare allo sviluppo dei Paesi a basso reddito pro-capite.
A Ginevra, si teme che la Dda non avrà alcun esito positivo. I tempi sono strettissimi per giungere ad un accordo (pure solo sulle materie meno controverse) ed alla ratifica da parte del Congresso Usa entro gennaio. Una volta che George W. Bush avrà lasciato la Casa Bianca è altamente improbabile che il nuovo inquilino sia in grado di convincere il Con grezzo a ratificare un accordo multilaterale per la liberalizzazione del commercio. I programmi elettorali di Hillary Clinton e BarackObama sono chiarissimi: pur se con qualche sfumatura (più duro il programma della Cliton), ambedue propongono non solo un disimpegno dal negoziato ma anche la modifica, in senso protezionista, della zona di libero scambio nord americana (la Nafta) creata tre lustri fa. Il programma del candidato repubblicano John McCain contrasta debolmente quello dei contendenti alla candidatura del Partito democratico: l’America del dollaro debole di questo primo scorcio di XXI secolo è ancora più protezionista di quella degli Anni Settanta.
In Europa il quadro non è più incoraggiante: Nicolas Sarkozy ha messo sul piatto, in sede Ue, la proposta di “una preferenza comunitaria” per difendere l’agricoltura e l’industria europea da “competizione iniqua” da parte di Paesi a bassi salari ed a bassa protezione sociale. Nel contempo, il Commissario Europeo al commercio, Peter Mandelson, ha prorogato i termini per modificare (in senso liberista) i dazi anti-dumping (quali negoziati anni fa in seno al WTO). Pur se Mandelson ha un ampio mandato per trattare, a nome di 27 dell’Ue, in ambito WTO, la Francia ha organizzato il mese scorso un comitato di 20 Ministri dell’agricoltura (su 27) per metterlo in guardia nei confronti di ulteriori concessioni; in altri termini, se, al tavolo del Dda, ne farà ancora, Mandelson verrà messo in condizione di lasciare la poltrona che occupa a Bruxelles. Dal canto loro, i Paesi in via di sviluppo che più contano nel commercio mondiale (Brasile, Cina ed India) non sono pronti ad accettare neanche una delle richieste (in materia di standard lavoristici ed ambientali) messe sul tavolo da Usa e Ue. Una serie di saggi nell’ultimo fascicolo del “Journal of Common Market Studies”, autorevole rivista britannica, ricorda che l’Ue è il giocatore chiave nella partita del Dda ma che è paralizzata da una contraddizione di fondo: benché liberale in politica commerciale in senso tradizionale è fortemente protezionista rispetto alle dimensioni sociali, vere o presunte, delle implicazioni della politica commerciale. La stessa autonomia della Commissione Europea – affermano i saggi nel fascicolo – è più apparente che reale in quanto l’Esecutivo Ue deve necessariamente rispondere alle pressioni politiche e sociali sugli Stati membri.
André Sapir dell’Université Libre de Bruxelles (a lungo consulente autorevole della Commissione Europea) ammette che il clima generale non è favorevole ad una conclusione positiva della Dda. Gli fa eco in modo ancora più netto Adam Posen del Peterson Institute of International Economics di Washington: quale che sia l’esito delle elezione Usa in Novembre, il Congresso chiederà (per ratificare un eventuale accordo) clausole stringenti in materia di standard lavoristici ed ambientali. Quelle clausole – documenta uno studio della Florida State University – che la “Corporate Asia” (proprio quella più dinamica) non è disposta a concedere. Le tensioni sui mercati finanziari e su quelli delle materie prime fanno il resto; pongono l’apertura del commercio internazionale in un contesto analogo a quello degli Anni Settanta e dei relativi protezionismi.
In questo quadro, occorre davvero chiedersi se si è più “free trader” auspicando la liberalizzazione degli scambi tramite un negoziato multilaterale che ormai tutti danno per fallito oppure sostenendo che l’integrazione economica internazionale va gestita (se necessario con protezionismi temporanei e ben mirati) per impedire un effetto boomerang: un processo di deglobabilizzazione tale da portare alla frammentazione dell’economia mondiale. Dieci anni fa, nella lettera inviata, nella veste di Capo di uno Stato sovrano agli altri Capi di Stato in occasione della giornata della Pace del primo gennaio 1998, Giovanni Paolo II auspicò che la globalizzazione venisse “gestita” , condizione essenziale perché desse frutti positivi. Il messaggio era preveggente. La “globalizzazione gestita” è essenziale per impedire un protezionismo molto più duro di quello su cui si polemizza oggi a proposito del saggio di Tremonti.

2 commenti:

Azimut72 ha detto...

A parte il commento finale su GIOVANNI PAOLO II, mi sembra che il post, a forza di analizzare l'albero, perda di vista la foresta.

C'è un dato di fatto.
La Globalizzazione ha fatto stare meglio (secondo gli standard occidentali) molti milioni di persone.
In questo l'Economist ha ragione.

D'altra parte, se vogliamo evitare di essere egoisti, cosa apporta di più al benessere dell'Umanità? il capofamiglia italiano che passa dall'utilitaria al SUV o qualche centinaio di persone che riescono ad avere l'acqua corrente a casa in qualche sobborgo di Mumbai?

In questo senso, i dubbi suoi e di Tremonti, saranno completamete smentiti e considerati anacronistici se la teoria del Decoupling avrà successo.

Basta aspettare qualche mese...io direi fine anno /inizio 2009.

Su questo, troverà la mia opinione sul mio blog.

Ma tornando su GIOVANNI PAOLO II (e, ancor di più, BENEDETTO XVI), non c'è dubbio che la Chiesa ha avuto ancora una volta ragione.

Prima ancora di essere una crisi economico/finanziaria, quella che stiamo vivendo è una crisi ETICA dell'Occidente.
Un Occidente che, per puri scopi utilitaristici, ha pensato di poter fare a meno dei principi fondanti della sua società (Classicismo, Cristianesimo e Liberalismo) lasciando spazio al mero calcolo economico.

L'esempio CINA è sotto gli occhi di tutti; e con esso l'ipocrisia dell'OCCIDENTE che ha pensato di poter commerciare liberamente prescindendo dalla democrazia. E pensare che ci sentiamo in diritto di criticare i cinesi se appoggiano la repressione in DARFUR!!

Tremonti è un po' tardivo nelle sue reprimende, tenendo conto che in 5 anni di Governo non ha intaccato il Debito Pubblico Italiano...anche questa è etica!! Che diritto ha di parlare contro la Globalizzazione se non si è sentito in dovere di abbassare il Debito Pubblico italiano??

Chi è senza peccato scagli la prima pietra!!

Più complesso è il discorso sull'impatto della Globalizzazione sul pianeta.
E' sostenibile? ...anche qui la Chiesa docet.

azimut72

Libertyfirst ha detto...

Dal post non è chiaro per quale motivo il protezionismo ben intenzionato (si fa per dire) di Tremonti debba essere meno pericoloso di un protezionismo non ben intenzionato di qualcun altro.

Doha fallirà? Probabile: a nessun politico piace la libertà. Ma è anche vero che l'apertura al commercio internazionale non è stata solo una manna per ex-paesi del Terzo Mondo come quelli dell'Estremo Oriente, ma anche per per l'economia USA.

In campagna elettorale si dice ciò che gli elettori vogliono sentire. Poi fatte le elezioni la politica torna ad essere un gioco tra potenti dove gli elettori non contano nulla: gli USA non possono assolutamente permettersi il protezionismo, e non so fino a che punto possa permetterselo l'UE.

Tremonti s'è accorto che c'è un problema: e chi non se n'è accorto? Tutti sanno che qualcosa non va. Le differenze non stanno nella consapevolezza dei sintomi, ma nella diagnosi e nella terapia. E Tremonti non ha nulla da aggiungere nè all'una nè all'altra: vuole solo i voti dell'imprenditoria che si appresta a proteggere. E di demagoghi ne abbiamo a bizzeffe.

La libertà è in declino in tutti i principali paesi, ma è comunque necessaria per tenere in piedi il sistema. I politici sono in cerca di un capro espiatorio ma ne hanno bisogno per non far crollare tutto. Prevedo quindi tante chiacchiere anti-mercato, saltuarie politiche tafazziste anti-globalizzazione e libero mercato quanto basta a conservare il potere della classe politica.

La globalizzazione gestita mi sembra uno slogan come la ownership society e il capitalismo compassionevole di cui parlava Bush quando era stato eletto.

A dar retta a Tremonti come liberali non abbiamo nulla da guadagnare, e daremmo un contributo alla strategia di indicare nel mercato un capro espiatorio.