domenica 10 febbraio 2008

DOPO 50 ANNI DI ANTIFASCISMO ALFANO VA IN SCENA ALLA SCALA da L'Occidentale

Dopo circa 50 anni di epurazione ritorna sui palcoscenici italiani uno dei nostri maggiori musicisti del Novecento: Franco Alfano. E’ alla Scala sino al 15 settembre la versione originale integrale del suo “Cyrano de Bergerac”. Alfano è noto da decenni come colui che completò “Turandot” di Giacomo Puccini. Ha pesato su di lui per almeno cinque decenni una maledizione (e l’oblio) in quanto firmatario nel 1925 del “Manifesto degli Intellettuali Fascisti” e molto legato al regime sino al 1945. Napoletano, ma di cultura musicale tedesca e francese, ha una scrittura elegante sia orchestrale (interessante l’impiego del contrappunto) sia vocale (il declamato scivola in arie e numeri a più voci). Due anni fa, in Italia la maledizione è stata rotta da Gianluigi Gelmetti che ne ha ripreso, a Roma, il suo capolavoro (“La leggenda di Sakùntala”); l’esito è stato ottimo –l’opera verrà ripresa all’estero e .- si spera- pure da qualche coraggiosa e non conformista fondazione lirica italiana. “Cyrano de Bergerac”, grande successo negli Anni 30 e 40, è riapparsa oltre un lustro fa – prima in Germania e successivamente negli Usa, in Gran Bretagna ed in Francia. E’in repertorio al Metropolitan, al Covent Garden ed in teatri francesi e tedeschi. L’allestimento alla Scala è stato prodotto a New York (Metropolitan ) e Londra (Covent Garden) e sta viaggiando (con la stessa messa scena ed i medesimi protagonisti) verso la Staatsoper di Vienna.

L’oblio caduto su Alfano (ed altri) è degno della “Entartete Musik”- “musica degenerata”, il nome che la Germania nazista diede a gran parte dell’innovazione musicale che tra il 1920 ed il 1942 si sviluppò al di là delle Alpi e del Reno. Una mostra sulla “Entertete Musik” venne addirittura organizzata a Düsserdolf nel maggio 1938 quando quasi tutti i musicisti “degenerati” erano riparati all’estero e qualcuno di loro (ad esempio, Walter Baunfels) inviato al confino Si possono individuare due filoni distinti: uno principalmente austriaco che ebbe sbocco nella dodecafonia (Schömberg, Berg, Zemliksky) ed uno di stampo più prettamente tedesco (Korngold, Schreker, Krenek, Weill) in cui l’esperienza post-romantica si fondeva con l’espressionismo, la musica popolare ed il jazz . La “Entarteke Musik” non è mai stata considerata “degenerata” in Italia. In piena guerra, nel novembre 1942, al Teatro dell’Opera di Roma è stato rappresentato “Wozzek” di Alban Berg (opera vietatissima in Germania) in versione ritmica italiana (secondo l’uso dell’epoca), con Tito Gobbi nella veste di protagonista e Tullio Serafin alla guida dell’orchestra . Inoltre, oltre a Berg, un altro “degenerato”, Krenek, era tra gli ospiti abituale del Festival internazionale di Musica Contemporanea di Venezia, lanciato per decisione specifica di Palazzo Venezia come concorrente del Festival di Salisburgo.
C’è però anche una “Entartete Musik” italiana che per parafrasare il titolo del lavoro di Schreker, è rimasta “bollata” per decenni dall’accusa di essere “musica fascista”. Benito Mussolini, violinista dilettante (di pessima qualità), aveva un notevole interesse nella musica, e nella politica musicale, ed era appassionato di lirica. Considerava l’opera come espressione di italianità con un forte appello popolare. In effetti, nel ventennio, nonostante l’avanzata del cinema come forma di spettacolo e la crisi finanziaria dei teatri d’opera, la lirica era ancora di grande richiamo. Nascevano gli enti lirico- sinfonici ed i teatri di tradizione , sovvenzionati in varia misura dallo Stato; tutte le città, anche le più piccole, avevano stagioni d’opera; la mano pubblica sosteneva artisticamente i palcoscenici di provincia con iniziative itineranti , quali il “carro di Tespi”. Il Governo (Mussolini trattava in prima persona molte di queste questioni) doveva barcamenarsi tra due scuole contrapposte: i tradizionalisti (Mascagni, Cilea, Giordano, Montemezzi) e gli innovatori (Casella, Malipiero, Pizzetti, Dallapiccola, Russolo, Pratella). Con rare eccezioni (quali le opere più popolari di Mascagni, Cilea e Giordano), tutti i loro titoli sono spariti dai nostri cartelloni, mentre alcuni (si pensi a “L’amore dei tre Re” di Italo Montemezzi ed “I capricci di Callot” di Gian Francesco Malipiero) sono nella programmazione ordinaria dei maggiori teatri americani, tedeschi e britannici. E’ stata accusata di fascismo pure la musica di Dallapiccola nonostante il compositore sia stato uno dei rari professori universitari a dare le dimissioni dalla cattedra al varo delle leggi razziali.

Sarebbe uno sbaglio sostenere che si tratta di lavori che meritano di essere indiscriminatamente riproposti anche perché alcuni come il “Nerone” di Pietro Mascagni (al cui libretto pare abbia collaborato Mussolini in persona), “La Nave” di Italo Montemezzi o “L’Orfeide” di Gian Francesco Malipiero richiedono uno sforzo produttivo che pochi teatri sarebbero in grado di sostenere.
Molti, però, come alcune opere di Alfano o “I capricci di Caillot” di Malipiero meritano attenzione e, al bando in Italia, sono sempre state nei cartelloni stranieri.

Veniamo al “Cyrano” scaligero. Affascinante, pur se tradizionale, la messa in scena di Francesca Zambello (regista che vorremo vedere più spesso in Italia). Di grande livello le voci. Deludente, però, la più attesa: quella di Placido Domingo. Poco adatta a mettere in luce la raffinata delicatezza della partitura la bacchetta di Patrick Fourniller. Questo, telegraficamente, il giudizio.

Il libretto, in francese, ricalca la “commedia eroica” di Edmond Rostand di cui si sono viste di recente produzioni sia in teatro sia in cinema. Ha una partitura elegante, ispirata allo “stile francese” dell’epoca: l’orchestra ha un ruolo cruciale nel soffondere con un lirismo malinconico l’azione scenica. Patrick Fourniller concerta in modo puntuale ma specialmente nei finali dei cinque atti calca eccessivamente, accentuando un’enfasi “eroica” ad Alfano piuttosto distante. L’opera richiede 19 solisti, coro e mini. Quattro i protagonisti: due tenori, una rarità dai tempi di Rossini – un “lirico spinto” (Cyrano), un “lirico puro” (Christian), un soprano “lirico puro” (Roxane), un baritono (il comandante De Guiche). Pietro Spagnoli conferma di essere uno dei migliori baritoni italiani su piazza: morbido, delicatissimo nei “legato”. Sondra Radvanosky è una Roxana quasi drammatica (la voleva così Alfano che non gradiva la pupattola di Rostand): ha un temperamento forte che la renderebbe perfetta nel “Rosenkavalier” di Strauss. Germain Villar è una vera scoperta: timbro chiarissimo, capace di ascendere a tonalità elevate senza il minor sforzo. Il circa 70nne Placido Domingo non ha mai avuto la tessitura prevista da Alfano per Cyrano (ruolo pensato per Gigli) poiché anche venti anni fa raramente saliva oltre il “sì naturale”; gli è scurita la voce (è quasi baritonale, come lo era all’inizio della sua carriera), ha una grande presenza scenica ed una recitazione intesa ma, nonostante siano state abbassate le tonalità, ha avuto, alla “prima”, difficoltà di emissione proprio nell’aria di apertura.

Un elogio a Francesca Zambello ed alla sua squadra di scenografi e costumisti: la messa in scena è al tempo stesso spettacolare ed elegante, con cura nei particolari ed attenzione a realizzare un allestimento che possa essere adattato a palcoscenici differenti. Come, giovanissima, fece 20 anni fa con un “Billy Bud” di Britten che si è visto nei maggiori teatri di Usa, Europa e Giappone

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