domenica 2 dicembre 2007

Roma - Teatro dell'Opera: Mosé in Egitto

In premessa di questa recensione dove ammettere la mia spiccata preferenza per “Mosè in Egitto”, rispetto al rifacimento per le scene francesi “Moïse et Pharaon”, che inaugurò una stagione della Scala agli Arcimboldi nel 2002. “Moïse” mostra una vena stanca rispetto al di gran lunga superiore, sotto il profilo sia drammaturgico sia musicale, partenopeo “Mosé in Egitto”. Ai tempi della versione parigina, Rossini aveva 35 anni, ma era già affaticato da una vita artistica troppo veloce, afflitto dalla morte della madre (a cui aveva un attaccamento morboso), in preda ai prodromi dell’ipocondria che lo avrebbe tormentato per almeno due lustri, alla ricerca di nuovi percorsi. Per decenni, occorre ricordare, in Europa ed anche in Italia, si sono viste contaminazioni (spesso in versione ritmica italiana) tra i due lavori: tali contaminazioni (la stessa edizione di Sawallisch con i complessi Rai ed un cast vocale di primo ordine) sono, inoltre, inferiori ai due originali.Il “Mosé” appartiene al periodo “napoletano”: Rossini aveva 26 anni e compose un’”azione tragico-sacra” da mettersi in scena al San Carlo in periodo quaresimale. Era all’epoca del rapporto più intenso con Isabella Colbran, come traspare nei passionali (al limite dell’erotico) duetti d’amore tra Osiride (figlio del Faraone) e l’ebrea Elcia, pur nell’ambito di un lavoro a metà strada tra l’oratorio e l’opera.Il libretto essenziale di Tottola (su cui tanto si ironizzò nell’Ottocento) ha una sua forza drammatica grazie a due atti simmetrici (il breve terzo atto è quasi un epilogo) aperti con la grande intuizione della scene delle tenebre con soltanto pochi accordi mentre si alza il sipario. Racchiude in una sola giornata, ed in gran misura in un sol luogo (il Palazzo del Faraone) il confronto tra Mosé ed il Re degli Egizi, le piaghe, la fuga degli ebrei dall’Egitto, l’apertura delle acque del Mar Rosso, che travolge l’armata lanciata ad inseguirli. Vi è un intreccio amoroso (seguendo l’uso dell’epoca). La scena finale affascinò Wagner che se ne ispirò nella conclusione de “L’Anello del Nibelungo”. Di rilievo una caratteristica del lavoro: il confronto è tra due bassi (o baritoni-bassi) non tra tenori (sette in “Armide”, tre in “Otello”) come in molte opere rossiniane del periodo napoletano.L’allestimento scenico si presta ad “effetti speciali”. Scene e costumi (Alessandro Ciammarughi) e regia (Marco Spada) vengono da Sassari, teatro per circa 700 spettatori e con palcoscenici molto semplici (soprattutto poco profondo), dato che l’intenzione iniziale di riprendere un allestimento di Pizzi non si è potuto attuare. Spada e Ciammarughi fanno il possibile per creare gli “effetti essenziali”, con una scena fissa e proiezioni ma non tentano neanche di gareggiare con il film di Cecil B. De Mille i “I Dieci Comandamenti”. Uno spettacolo decoroso, ma tutto sommato da teatro di tradizione più che primaria fondazione lirica.Sotto il profilo musicale, la direzione di Antonino Fogliani, giovane direttore d’orchestra in crescita, è disciplinata ma dovrebbe essere più leggero con la bacchetta onde evitare effetti pompieristici, specialmente nella prima parte. Occorre dire che la seconda parte è stata concertata meglio della prima e il terzo atto è stato di ottimo livello. Ottimo il coro (che ha un ruolo da protagonista) guidato con perizia da Andrea Giorgi.Per una settimana Michele Pertusi ha indossato, con disinvoltura, una sera i panni di Tell all’Accademia di Santa Cecilia e la seguente quelli di Faraone al Teatro dell’Opera. Un tour-de-force che pochi riescono a sostenere. Dall’aria iniziale “Mano ultrice di un Dio!” è chiaro che è il Re, non “Mosé”, il protagonista. Pertusi è un Faraone autorevole e denso di sfumature. Ben calibrato il Mosé di Alessandro Guerzoni a cui Rossini, però, non riserva grandi momenti tranne il Dal tuo stellato soglio nel finale. Tanto “Celeste man placata” quanto “Tu di ceppi mi aggravi la mano?” sono arie di maniera, ben cantate da Guerzoni ma in cui Rossini non dà il meglio di sé.Vibrante invece la musica della vicenda d’amore (che dovrebbe essere secondaria ma assume grande rilievo). Lawrence Brownlee è un giovane tenore di agilità con un timbro piuttosto scuro, volume non molto grande ma che evidenzia un’estrema sicurezza nelle agilità e nel registro acuto.Anna Rita Taliento sfoggia la sua vasta estensione nel ruolo di Elcia. Ottimo il duetto Ah se puoi così lasciami e l’aria di Elcia Tormenti, affanni, smanie.Paula Almerares è un’Amaltea (moglie del Faraone) imperiosa. Francesco Piccoli un buon Aronne. Adeguati Irene Bottaio e Federico Lepre nei ruoli minori.Il pubblico ha risposto bene con applausi a scena aperta (in particolare al concertato Mi manca la voce) e al finale.
Giuseppe Pennisi

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