lunedì 31 dicembre 2007

L’IRONIA ANTI-LENINISTA DEL GIOVANE PROKOFIEF

In Italia il nome di Serghei Prokofief è associato principalmente alle sue vaste composizioni degli Anni 40 quali l’”opera demoniaca” “L’Angelo di Fuoco” (che si è ascoltata sia a Roma sia a Milano non molti anni fa), l’opera mastodontica “Guerra e Pace” (vista sia a Spoleto sia alla Scala in allestimenti che prevedevano un lungo intervallo per la cena e contemplavano circa sei ore in teatro), le musiche per i film di Eisenstein e la grandiose sinfonie. Si rappresentano spesso anche il suo balletto “Cenerentola” e la deliziosa favola per bambini “Pierino e il Lupo”. Nei Congressi del PCI veniva spesso intonata la sua enorme “Cantata per la Pace” (di forte afflato militaresco, nonostante il titolo).
Si sa che è stato uno degli artisti più celebrati nell’Unione Sovietica, anche se si sorvola sul fatto che ebbe difficoltà con l’amministrazione stalinista e che sua moglie Lina (di nazionalità spagnola) venne accusata di spionaggio, internata sino alla morte di Stalin quando le venne concesso di tornare nella penisola iberica. Si sorvola anche sull’amarezza negli ultimi anni della sua vita, quando i suoi lavori non venivano quasi più eseguiti in Patria e sul curioso destino che lo fece morire lo stesso giorno di Stalin (con lo conseguenza che il suo decesso passò inosservato nell’Urss ed all’estero).
Molto poco si sa della sua giovinezza (povera dopo la morte del padre), dei suoi studi grazie a lezioni di piano e di piccoli aiuti e soprattutto della sua “fuga” in Occidente allo scoppiare della Rivoluzione d’Ottobre , a 27 anni per vagare in Occidente, soprattutto tra Parigi, New York e Chicago. Specialmente, che io sappia, non è mai stata rappresentata in Italia – ci sono state alcune rare esecuzioni in forma di concerto - la sua opera più importante di quel periodo :”L’amore delle tre melarance” scritta e composta su commissione del Teatro Lirico di Chicago, Ne scrisse il libretto lui stesso basandosi su un adattamento del lavoro di Carlo Gozzi curato da Wsewolod E. Meyerhood, allora (negli Anni 20) uno dei leader della scuola anti-naturalistica europea. La spiegazione che viene offerta è che richiede 14 solisti e numerosi cambiamenti di scena, un impegno pesante per teatri di un Paese dove il nostro dove le favole tra il cubista ed il dadaista non sarebbero gradite al pubblico. E’ tuttavia di repertorio non soltanto in Russia e nei Paesi dell’Europa centrale ma anche in Francia, nella Penisola Iberica e negli Stati Uniti.
Chi va in vacanza in Germania ne può vedere un divertente allestimento alla Komische Oper di Berlino (dove è in scena sino al 27 gennaio, le rappresentazioni sono sempre in tedesco – in traduzione ritmica se l’originale è in un’altra lingua). La Komisce ha la fama di allestimenti trasgressivi con messe in scene portare ai giorni nostri, nudi integrali e rapporti erotici espliciti. Nulla di tutto ciò nella produzione di “L’amore di tre melarance” che è messa in scena proprio come Prokofief avrebbe voluto: allestimento a basso costo ma con un ritmo rapido, intenso e pieno di gags.
Il libretto è una satira agro-dolce, ma pungente, del potere e dei sicofanti (specialmente gli intellettuali) che lo contornano. E’ fin troppo facile individuare una presa in giro della Russia leninista. La fiaba è situato nel Regno del Re di Picche, di cui si prepara la successione. A personaggi consueti nelle fiabe (quali la Fata Morgana, le principesse che sbucano da melarance, i Primi ministri intriganti e le nipoti infedeli) si affiancano le maschere della commedia dell’arte (Pantalone, Truffaldino, Farfarello). Ancora più ironica la partitura in cui Prokofief, con tocchi ben studiati, prende in giro l’opéra lyrique francese il musikdrama wagneriano, nonché i propri contemporanei (specialmente Debussy). Non se le prende con il melodramma verdiano ed il verismo italiano unicamente perché non li considerava neanche degni di ironia. Il lavoro non è però un divertissiment intellettuale per eruditi. Il ritmo è velocissimo. Il jazz, il fox-trot, lo swing , le marce si inseriscono perfettamente in arie, declamato, concertati ed interventi continui del coro. Prokofief si era proposto di creare un teatro in musica basato su fantasia, ironia, azione e divertimento, tale da poter gareggiare (presso il pubblico) con i film di Charlie Chaplin e dei Fratelli Max.
La regia di Andreas Homoki è fedele a questo spirito. Per rendere il ritmo più incalzante, il prologo e i quattro atti sono interrotti da un solo breve intervallo, la scena è unica e molto semplice, i costumi sgargianti ed ai cantanti si richiede di essere non solo attori ma anche atleti. Si ride e ci si diverte pur se non si conosce il tedesco (ma occorre leggere una sintesi del complicato intreccio). Molto buona l’orchestra guidata dal giovane Mathias Foremmy. La Komische è un teatro di repertorio con una compagnia stabile. Nelle voci, dunque, fa premio l’affiatamento tra i numerosi solisti ed il coro, quasi sempre in scena in gruppi di dieci cantanti ( “gli eccentrici”, i “tragici”, i “comici”, i “lirici”, le “teste vuote”, i “diavoletti”, i “medici”) di cui, tranne che nel prologo (interamente corale), soltanto due o tre sono contemporaneamente sul palcoscenico. Mediamente le voci femminili sono migliori di quelli maschili.

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