mercoledì 14 novembre 2007

L'Italia non è competitiva. Lo sapevano tutti, tranne TPS

Ci dobbiamo rassegnare ad una crescita economica rasoterra quale quella che caratterizza l’Italia dall’inizio degli anni '90 (e che, secondo le più recenti stime della Commissione Europea, del Fmi e dell’Ocse, continuerà a travagliarci nel prossimo futuro). Sembra essersene accorto perfino il ministro dell'Econimia, Tommaso Padoa Schioppa, che proprio ieri, dopo la riunione dell'Eurogruppo, ha riepilogato le ragioni di preoccupazione per la perdita di competitività del nostro paese. Ma tutto era già scritto nei numeri.
Le previsioni del Fmi e dell’Ocse sono state presentate alcune settimane fa; quelle della Commissione Europea venerdì 9 novembre. I dettagli sono scaricabili dai siti web delle tra istituzioni. Tutte e tre hanno un tema di fondo: l’economia dell’area dell’euro sta subendo una fase di rallentamento (una crescita del pil del 2,6% nel 2007 e del 2,2% nel 2008 e nel 2009), ma l’Italia ne è il fanalino di coda (una crescita del pil dell’1,9% nel 2007, dell’1,4% nel 2008 e dell’1,6% nel 2009) con il risultato, tra l’altro, che il rapporto indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni e pil resterà al 2,3 nei tre anni della previsione e, di conseguenza, non si azzererà nel 2010 (come sostiene imperturbabile il Ministro dell’Economia e delle Finanze, Tommaso Padoa-Schioppa).
Chi pensasse che dietro i calcoli di Commissione Europea, Fmi e Ocse ci siano quegli “gnomi di Zurigo” che secondo il Presidente Usa dell’epoca (Richard Nixon) ce la hanno contro questo e contro quello (ed ora se la sarebbero presa con il Professore e la sua variegata comitiva) , dia un’occhiata alle stime del consensus (20 istituti econometrici privati internazionali) diramate (a chi vi è abbonato) il 7 novembre: sono analoghe a quelle degli organismi internazionali (anzi ancora meno ottimistiche per l’Italia di cui evidenziano un marcato rallentamento rispetto alle stime diffuse dal “consensus” all’inizio di ottobre?
E’ colpa del “destino cinico e baro”, per evocare un’espressione degli Anni '60 o più semplicemente del malgoverno che caratterizza il Paese? L’aumento della spesa e del carico fiscale con la finanziaria del 2006 sul 2007 avrà un effetto frenante (dicono i modelli econometrici) per almeno tre anni, le lenzuolate “Bersani” avvolgono la morte delle liberalizzazioni, la privatizzazione Alitalia è ormai una pochade degna di quelle che Sacha Guitry metteva in scena nei palconoscenici boulevardiers parigini degli Anni 30, di privatizzazioni Rai e Poste non si parla più, si crea un nuovo Iri attorno alla Cassa Depositi e Prestiti, viene azzerata la riforma previdenziale che porta il nome del Sen Lamberto Dini: questi non sono che alcuni aspetti di una politica che non soltanto non promuove la crescita ma non governa neanche quel declino di cui, in varia misura, soffrono vari Paesi dell’Ue a ragione dell’integrazione economica internazionale e delle implicazioni che essa comporta per chi non riesce a riconvertire la propria economia verso attività ad alto valore aggiunto. L’Occidentale commenta con frequenza i singoli aspetti della politica economica della sinistra di malgoverno, sottolineandone principalmente le dimensioni macro-economiche.
Le ultime stime tanto di istituzioni internazionali quanto di centri privati di analisi econometrica inducono a mettere l’accento su elemento distintivo (se ci raffrontiamo con il resto dell’area dell’euro): il marcato rallentamento dalla produttività del lavoro. Secondo i dati Eurostat e Bce (anche essi scaricabili dai siti delle rispettive organizzazioni), nel 2001-2005, nell’area dell’euro, la produttività del lavoro è aumentata appena dello 0,5% l’anno (rispetto all’1,7% l’anno negli Usa) ma in Italia è diminuita dello 0,8% l’anno. Non molto meglio nei cinque anni precedenti: un incremento del 2,1% l’anno negli Usa, dell’1,2% nell’unione monetaria europea e dello 0,9% in Italia. Nel nostro Paese c’è stata una leggera ripresa nel 2006 (un aumento dello 0,5%), inferiore però alla media di Eurolandia (1,2%) e dell’aumento negli Usa (1,4%), pur in fase di rallentamento.
Gran parte degli studi sino ad ora condotti attribuiscono tale scoraggiante andamento alla specializzazione produttiva italiana (in settori a bassa tecnologia), alla modesta dimensione delle imprese, alla mancanza di adeguati investimenti in ricerca e sviluppo. Tutte determinanti che lasciano poco spazio alla speranza. Un’analisi empirica dell’Isae (il pensatoio economico del Ministero dell’Economia e delle Finanze), guidata da Sergio De Nardis, contiene, però, interessanti segnali positivi: sotto la superficie, ci sono situazioni aziendali molto differenti poiché molte imprese hanno condotto, dalla metà degli Anni 90, profonde ristrutturazioni di cui si cominciano già, in alcuni casi, a vedere i frutti. Tali segnali positivi possono essere messi in relazione con misure adottate nella precedente legislatura (dalle legge Biagi, alla normativa per facilitare l’aumento delle dimensioni di impresa, all’inizio della strategia di riduzione del peso fiscale) ma adesso sulla via dell’abrogazione o della sterilizzazione.
Ancora più positivo uno studio (anch’esso empirico) condotto, con metodo econometrico innovativo, in seno al servizio strategie e studi di UniCredito ed in corso di pubblicazione sulla “Rivista di Politica Economica”. I due ricercatori, Andrea Brasili e Loredana Federico, esaminano la distribuzione settoriale del “capitale imprenditoriale” (ossia la capacità di cogliere le opportunità, scegliere le tecniche di produzione e porsi alla frontiera delle tecnologia). In un primo approccio, lo studiano sulla base degli indicatori di natalità e di mortalità di imprese , utilizzando la banca dati Monvimprese, tenuto dalla Camera di Commercio di Milano. Modellizzano, poi, la capacità imprenditoriale per venti settori ed applicano la strumentazione ad osservazioni statistiche per il periodo 1981-2005 , un campione abbastanza vasto , nonché per una serie abbastanza lunga di anni, da fornire indicazioni credibili in termini di efficienza dei settori (e di “capitale imprenditoriale” ad essa connesso). Dal modello emerge la conferma secondo cui c’è stato una marcata riduzione nell’efficienza media a partire dal 2000. L’efficienza media è, però, elevata: sorprendentemente i settori dove è più alta sono quelli del commercio (tanto all’ingrosso quanto al dettaglio), alberghi e ristoranti ed attrezzature elettriche ed ottiche. La spiegazione è che questi sarebbero anche i campi dove meglio è stata recepita la trasformazione tecnologica derivante dalle nuove tecnologie della comunicazione e dell’innovazione. La conclusione è che l’Italia non manca di “capitale imprenditoriale”: “occorre -conclude lo studio- promuovere un contesto che sia il più appropriato possibile allo sviluppo di tale capitale imprenditoriale e , dunque, dare la priorità ad iniziative rivolte a facilitare la nascita di imprese e rimuovere ostacoli burocratici”. Perché l’Italia riprenda a crescere, perciò, Pantalone deve fare diversi passi indietro. Ma Prodi, TPS e VVV (Viceministro Vincenzo Visco) fanno di tutto per farlo avanzare in modo tentacolare.
RiferimentiBrasili A. e Federico L. Recent developments in productivity and the role of entrepreneurship in Italy –An Industry View in corso di pubblicazione su La Rivista di Politica Economica
De Nardis S. (2007) Ristrutturazione industriale italiana nei primi anni duemila: occupazione, specializzazione, imprese” Relazione per l’incontro Trasformazione dell’Industria Italia,Isae.

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