mercoledì 18 aprile 2007

PRIVATIZZAZIONI: ESPERIENZA DEL PASSATO, LEZIONI PER L'AVVENIRE

1. Premessa

Il processo di privatizzazioni in Italia è iniziato negli Anni Novanta. L’avvio è stato arduo (a ragione, principalmente, delle difficoltà di trovare un’adeguata impalcatura giuridico istituzionale) sia i notevoli successi in termini di esiti finanziari ottenuti da cessioni e da collocamenti (Pennisi, Zecchini, 2001). Tali successi, in gran misura attribuibili alla fase di “esuberanza irrazionale” che ha caratterizzato i mercati finanziari negli Anni Novanta (soprattutto nella seconda metà del decennio , Schiller 2005) , non sono stati , però, accompagnati da risultati paragonabili in materia di liberalizzazioni effettive; sovente i monopoli pubblici sono stati sostituiti da conglomerati privati in posizione dominante in un fase in cui pure le stesse Autorità di regolazione, peraltro di recente istituzione erano in condizioni di non facile decollo. Alla fine del 20simo secolo, il sistema produttivo italiano appariva in gran misura privatizzato ma anche ingessato; questa si è rivelata una determinante della perdita di competitività progressivamente avvertitasi nei primi anni del 21simo secolo (Istituto del Commercio per l’Estero, 2005; Ministero delle Attività Produttive, 2003,Visco, Toniolo 2004) Nella primo anno della legislatura iniziata nel giugno 2001 (Pennisi, Zecchini 2002), da un lato, veniva accentuata la centralità delle privatizzazioni nei programmi di governo (Ministero dell’Economia e delle Finanze, 2001). Da un altro, però, dalla primavera del 2000 i mercati finanziari erano entrati in un periodo di difficoltà che si sarebbe esacerbato dopo l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001; le Borse segnavano marcate perdite di valorizzazione che rendevano difficili o poco appetibili collocamenti sul mercato. Il quadro generale non incoraggiava neanche le cessioni dirette.
E’ rimasta, però, una la mancanza di chiarezza sugli obiettivi e sul loro peso relativo: a) le esigenze di “fare cassa” per ridurre il fardello dello stock del debito pubblico, a cui sono destinati i proventi delle privatizzazione; b) la riduzione dell’intervento pubblico per favorire il mercato, c) la necessità di migliorare l’efficienza delle imprese sia private sia di recente privatizzazione sia ancora controllate dalla mano pubblica ; d) la liberalizzazione dell’economia italiana nell’ambito di più vaste riforme di cui le privatizzazioni sono unicamente una delle componenti. Ciò si è verificato anche negli altri ai principali Paesi dell’Unione Europea (Belke, Baugmärtner, Schneider, Setzer, 2005). Senza chiarezza sugli obiettivi e sul loro peso quantitativo è virtualmente impossibile effettuare una valutazione economica tanto della politica e strategia di privatizzazioni quanto delle singole operazioni di denazionalizzazione. Si può solamente fare un’analisi finanziaria dal punto di vista delle aziende acquirenti e degli introiti che le privatizzazioni comportano per l’erario.
L’obiettivo che è prevalso, e prevale, nelle classificate pubblicate periodicamente da parte dell’Ocse, del Fondo Monetario e da istituti privati (quali quelli che curano il sito web www.privatization.org, sempre molto aggiornato ).è stato, in pratica, quello di fare cassa. Ove fossero state messe in atto procedure di valutazione, si sarebbe forzato un chiarimento degli obiettivi e delle priorità (Pennisi-Scandizzo, 2003; Pennisi-Scandizzo, 2006).
Questo lavoro esamina le privatizzazioni nella XIV legislatura e nel primo scorcio delle XV legislatura e delinea come la mancanza di trasparenti metodi di valutazione sia alla base del rientro in forza, sulla scena italiana, dell’intervento pubblico anche in settori privatizzati (come le telecomunicazioni, comparto di grande rilievo per il benessere sociale del Paese, Ho Lee, 2006) od in corso di privatizzazione (come il trasporto aereo) – temi all’ordine del giorno delle cronache di queste settimane.

2 Le privatizzazioni nella XIV legislatura . Orientamenti generali.

Nel 2001, per la prima volta dalla costituzione del Regno d’Italia è risultata vincente alle elezioni politiche una coalizione il cui programma di governo faceva perno sulla liberalizzazione dell’economia ( e quindi anche sulle privatizzazioni.). Al tempo stesso, però, l’economia europea, è entrata in una fase di rallentamento con tendenza alla stagnazione. Ciò ha avuto un effetto immediato: i ricavi di privatizzazione in Europa sono crollati da 650 miliardi di dollari tra il 1990 al 2000, ad appena 38 milioni di dollari nel 2001. Sono rimasti attorno a tale livello nel 2002 e nel 2003 per sfiorare di nuovo i 50 miliardi di dollari nel 2004[1] Tra privatizzazioni e andamento dei mercati finanziari sussiste un nesso molto forte: da un lato, le privatizzazioni sono un veicolo essenziale per ampliare ed irrobustire la capacità dei mercati finanziari, nonché la capitalizzazione stessa dei mercati azionari; dall’altro lato, uno dei primi effetti dei ribassi generalizzati delle quotazioni è la minore propensione al rischio, e, dunque, la ridotta disponibilità degli operatori ad investire in imprese in via di privatizzazione. Ciò vale specialmente in un contesto di “incertezza valutativa regolatoria” in cui non sono chiare importanti implicazioni (in termini di metodi per la selezione del management, vincoli relativi ai livelli occupazionali, strategie di prezzi e tariffe, mercati di sbocco, concorrenza interna ed internazionale) Nel Dpef per il periodo 2002-2006 venivano tracciati gli obiettivi dell’azione da sviluppare nell’intera legislatura e si fissano alcuni criteri per il loro raggiungimento. L’obiettivo a cui si dava preminenza era realizzare introiti per il bilancio pubblico; questi sono quantificati in circa € 62 miliardi. Vi si affiancavano due esigenze di politica industriale: “rafforzare gli assetti produttivi nazionali e migliorarne l’efficienza”. Tali obiettivi di politica industriale sono rimasti immutati nel corso della legislatura (Ministero delle Attività Produttive 2003, Pennisi 2005a e 2005b) . Il Dpef dava per la prima volta risalto all’esigenza di privatizzare e liberalizzare servizi pubblici e di pubblica utilità a livello locale. Rispetto all’obiettivo di proventi da privatizzazione di 62 miliardi proposto sono stati realizzati introiti per circa 45 miliardi (includendo un 5-6 miliardi di introiti da dismissioni del patrimonio immobiliare ed i ricavi da cessioni del Gruppo Iri/Fintecna)[2]. L’avvio è stata molto lento: pochi introiti nel 2002 (quando tuttavia è stata effettuata un’operazione di importanza strategica, la vendita della residua partecipazione dello Stato nella Telecom), un’impennata significativa nel 2003 quanto raggiunsero i 16.6 miliardi di euro (grazie principalmente alla vendita dell’Ente tabacchi italiano, di cessione di quote del capitale Enel ed Eni alla Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) ed alle vendita di parte del capitale della Cdp alle Fondazioni bancarie), un livello complessivo circa 8 miliardi di euro nel 2004 (da imputarsi in gran misura alla vendita della terza tranche Enel) ed una stima di circa 15-17 miliardi di euro (di cui 12 miliardi di euro proveniente dalla quarta tranche della privatizzazione dell’Enel ed il resto da dismissioni immobiliari) nel 2005.
Nella seconda metà degli Anni Novanta, l’entità quantitativa (misurata in dollari Usa) dei ricavi da privatizzazioni in Italia sul totale mondiale è stata attorno al 10% l’anno (con un’impennata al 17% nel 1997[3]); nei primi quattro anni del 21simo secolo, tale indicatore si è posto sul 15% l’anno mediamente ed ha toccato il 34% nel 2003 e nel 2004. Questo indicatore suggerisce che verosimilmente le condizioni del mercato non consentivano di ottenere risultati significativamente maggiori. Per questa ragione, l’incidenza delle privatizzazione sul rapporto tra stock di debito pubblico e pil è stata, tutto sommato, abbastanza modesta. E’ importante sottolineare che l’aumento della quota dei profitti sul valore aggiunto registrata negli Anni Novanta e nel primo lustro del nuovo secolo riguarda in gran misura il settore privato non manifatturiero ; è, quindi, plausibile l’ipotesi che sia imputabili alle privatizzazioni ed alla ristrutturazioni aziendali che le hanno precedute (Torrini, 2005), nonché a rendite di posizione mantenute da imprese de-nazionalizzate. In effetti, appare evidente che la grande industria italiana non ha colto la finestra di opportunità aperta delle privatizzazioni: invece, di ampliare la propria base ha chiaramente rincorso il sedersi sulla rendita. Senza, peraltro, raggiungere risultati duraturi- come mostrato dalle vicende della Telecom di questi ultimi anni. E settimane.
A questo aspetto finanziario, si aggiunge il cambiamento di atteggiamento da parte degli investitori; la delusione, ove non il vero e proprio scetticismo nei confronti delle imprese di recente denazionalizzazione (in particolare le banche ed alcuni servizi pubblici, le cui valorizzazioni azionarie sono diminuite quasi poche settimane dopo l’euforia dei collocamenti), nonché il crescente favore nei riguardi di nuove forme di parteniarato pubblico-privato , specialmente in comparti o settori, come l’energia, ritenuti, a torto od a ragione, di importanza strategica. Non è fenomeno solo italiano od unicamente europeo (per una rassegna di metodologie ed esperienze, Stern and Seligman , 2004) anche se nel nostro Paese si è pure meditato seriamente sull’assetto giuridico-normativo (Chiti, 2005) che assicuri governance efficiente ed efficace anche nel rispetto di obiettivi di politica pubblica. Alcune esperienze di partenariato pubblico-privato promuovano la liberalizzazione dell’economia e della società anche più di quanto non riescano a fare le privatizzazioni (Rennebogg L., Simons T, 2005; Yaya, 2005) .


3. Le caratteristiche salienti delle privatizzazioni nella XIV legislatura

Gli aspetti salienti delle privatizzazioni si colgono nelle pagine 37-39 dedicate all’argomento nel Dpef del 2004 (Ministero dell’Economia e delle Finanze, 2004), il penultimo della legislatura. Vengono specificati quattro criteri di valutazione: finanziario – ossia tanto fare cassa quanto redditività di lungo periodo-, sostenibilità, equità, attenzione alle attività strategiche. Non viene precisato, però, il peso relativo di ciascuno dei quattro criteri: è più importante la redditività o l’equità, oppure ancora la sostenibilità ovvero l’attenzione alle attività strategiche? Unicamente precisando pesi relativi si può ricavare quella che gli economisti chiamano la “funzione obiettivo” del policy maker e da essa derivare un sistema cogente di prezzi ombra (Pennisi, Scandizzo, 2003).. Non è mera questione di lessico o di eleganza accademica; senza tale “funzione” è difficile valutare, sia ex ante sia soprattutto ex post, se siamo alle prese con privatizzazioni effettive e realmente inserite in un quadro di liberalizzazioni tale da favorire accumulazione di capitale e crescita (Mendez, Glom 2005; Tabellini, 2005). Inoltre, occorreva dare corpo (ossia specificità e valutabilità) a ciascuno degli obiettivi: cosa si intende, ad esempio, per “attenzione alle attività strategiche” affinché con il termine non si intenda dire “privatizzazioni recalcitranti” come è suggestivamente intitolato un lavoro della Fondazione Eni Enrico Mattei (Bortolotti, Faccio 2004) sulla struttura di controllo di un vasto campione di imprese privatizzate nei Paesi Ocse negli Anni Novanta: al 2000, nel 62,4% di queste imprese la mano pubblica esercitava ancora il controllo (tramite golden share od altre forme). Ancora una volta ciò suggerisce che se le politiche pubbliche sono state carenti in materia di valutazione
A questo proposito interviene l’altro aspetto fondante: la “corporate governance”. Mark J. Roe (2004) pone il problema a tutto tondo: le public companies all’anglosassone (a cui si dice di mirare nei programmi di privatizzazione) sono realisticamente possibili in socialdemocrazie all’europea (di cui l’Italia è un esempio) in cui attenzione dei manager è rivolta più all’espansione (ed ai “lavoratori marginali”) che al profitto (ed agli “azionisti marginali”)? Tre aziendalisti della Università Erasmus a Rotterdam (Brounen, de Jogn, e Koedijk, 2004) confermano, sotto il profilo della struttura finanziaria di 313 imprese europee, le conclusioni di Roe. In parallelo, la “nuova” teoria giuridica della natura dell’impresa (Stout, 2004) che smussa le paratie tra public company e “nocciolo duro” e, quindi, le diatribe che hanno accompagnato gran parte delle privatizzazioni degli Anni Novanta. A questo riguardo occorre sottolineare che negli ultimi anni è stato fatto notevole progresso in materia di “corporate governance” con il complesso di norme che va sotto il nome di “Legge Vietti” ed i cui effetti si avvertiranno solo gradualmente e nel medio e lungo periodo.
. Già nell’estate 2004 , tuttavia, si dubitava sulla capacità dei mercati finanziari, tanto italiani quanto stranieri, di mettere a disposizione 100 miliardi euro nel quadriennio per privatizzazioni in Italia (e, soprattutto, una prima tranche di 20 miliardi entro la fine dell’anno). Appariva già allora a maggior ragione essenziale precisare cosa si intendesse per “attività strategiche” e quale è il peso relativo nella funzione obiettivo del policy maker in materia di privatizzazioni. Tanto più che da un’analisi empirica condotta dalla Banca d’Italia (Committeri, 2004) si ricavava che per attirare investimenti stranieri in Italia occorre rimuovere “barriere ambientali” (quali le “arretratezze istituzionali e strutturali). La conclusione è confermata anche da un lavoro più recente (Basile ., Benfratello ., Castellani . ,2005)
Alla fine della XIV legislatura, restavano molti altri nodi. In primo luogo, la mancata liberalizzazione dei servizi pubblici locali. Quasi all’inizio della legislatura, una raccolta di saggi, frutto di una importante conferenza scientifica internazionale, curata dalla Banca d’Italia indicava quanto si potesse, e si dovesse, fare per migliorare, con privatizzazioni e soprattutto liberalizzazioni , l’efficienze nei servizi pubblici locali (Banca d’Italia, 2002). Tre anni dopo una ricerca supportata dal Cnr ed a cui hanno contribuito specialisti interdisciplinari, sottolineava il divario tra il progresso effettuato dalle discipline sia giuridiche sia economiche sia organizzative in questo campo e “la dura realtà”: “attuare per legge processi di riforma così delicati che coinvolgono rapporti economici ed istituzionali così radicati, come l’esperienza delle municipalizzazioni ci ha mostrato, richiede una sensibilità politica capace di interpretare con efficacia le esigenze di mediazione economica e sociale che si presentano nella realtà territoriale, che gli orientamenti normativi devono saper recepire (Termini, 2004, p. 22). Progressi concreti si sarebbero potuti fare stabilendo obiettivi puntuali economici e finanziari e programmi specifici per i servizi pubblici (Boyne, Law, 2005) ma si sono fatti addirittura passi indietro, prevedendo come normale l’utilizzazione di società di capitali equiparate ad un servizio interno dell’ente territoriale (De Vincenti, Termini, Vigneti, 2005).
In secondo luogo, la ristrutturazione del sistema finanziario, non solo la riforma della tutela del risparmio. Le fondazioni bancarie restano al cuore del sistema finanziario italiano, anche se sono soggetti né propriamente pubblici né veramente privati, pur se protagoniste di una importante operazione, ovvero il passaggio di proprietà del 30 per cento della Cassa depositi e prestiti (Cdp), una privatizzazione limitata ove non spuria (Scarpa, 2004) In terzo luogo, l’Alitalia è un'impresa tecnicamente fallita, da tempo tenuta in vita, tramite garanzie pubbliche ed ora (come si vedrà al para.6 in corso di denazionalizzazione.
Tracciando un bilancio in poche righe, il processo di privatizzazioni e liberalizzazioni in Italia nella XIV legislatura appare avere avuto risultati finanziari maggiori di quelli riscontrati nello stesso periodo nel resto d’Europa, ed in particolare negli altri Paesi dell’area dell’euro, ma di essere impattato in difficoltà analoghe a quelle con cui si sono scontrati gli altri Paesi europei in materia di riforme (Pennisi, 2005b). Ancora una volta, è mancato un metodo di valutazione e della strategia e delle singole operazione che non fosse quello delle entrate apportate all’erario e del rispetto di alcuni vincoli a carattere sociale (come il mantenimento dei livelli occupazionali).

4 La tematica delle privatizzazioni all’inizio della XV legislatura . Orientamenti generali.

La coalizione di centro-sinistra ha vinto le elezioni del 2006 per pochi voti, è fortemente divisa tra le sue varie componenti e non ha le privatizzazioni tra le sue priorità. Il Dpef, 2006-2011 del luglio 2006 (Ministero dell’Economia e delle Finanze, 2006) dedica unicamente poche righe alle privatizzazioni , affermando, essenzialmente, che l’Esecutivo appena giunto in carica non può “fornire una quantificazione, perché in assenza di operazioni già pianificane dal precedente Governo occorre prima procedere ad una valutazione delle opzioni strategiche relative alle dismissioni del patrimonio residuo dello Stato (Dpef, 2006, p. 161)”.
Tale giustificazione è di per se stessa fragile. Occorre esaminarla sia dal lato della capacità del mercato di assorbire nuove denazionalizzazioni sia dal lato della consistenza del “patrimonio residuo dello Stato” da potere essere offerto sul mercato. La liquidità è in rapida espansione: a livello mondiale nel 2003-2005 risulta aumentata del 20% - il tasso di incremento più alto rilevato dal 1974-75. Inoltre, nonostante la bassa crescita economica, gli utili delle s.p.a. sono pingui: nel 2006, in Italia sono stati erogati dividendi per quasi 30 miliardi di euro con un tasso di rendimento contabile spesso superiore al 3% (Torrini 2005) . Nel 2006, le Borse hanno segnato risultati eccellenti anche in Paesi dove la crescita reale è stata lenta: aumenti degli indici, se computati in dollari del 30% nell’area dell’euro (di oltre il 18% se calcolati in moneta unica europea), ossia quasi il doppio circa di quelli derivati nel 2005[4]. Quindi non fa difetto la potenziale domanda di acquisto di cespiti che si decida di denazionalizzare (Kelooharju M., Knüpfer S. Torsytila S.,2007).
Per quanto attiene il “patrimonio residuo dello Stato” , il Dpef 2006-2009 e la legge finanziaria del 2005 prevedevano un’accelerazione del programma di dismissioni; l’accento era sulla cessione di ulteriore quote di Enel, di Eni e di Finmeccanica con la prospettiva di ottenere proventi per 30 milioni di euro nel 2006 e di mettere sul mercato, in una seconda fase (ma non troppo lontana nel tempo), anche la Rai e le Poste. La differenziazione temporale veniva spiegata con il fatto che Enel ed Eni sono già quotate in Borsa e, quindi, il collocamento di ulteriori quote è più agevole; è stata esclusa l’ulteriore impiego di “transiti” o “parcheggi” più o meno lunghi presso la Cdp. La privatizzazione di Rai e Poste ha anche delicati aspetti politici come documentato da un’analisi effettuata dalla Banca Mondiale (Kenny, 2005).
In effetti, la sequenza (Pennisi, Scandizzo, 2006) della politica economica del Governo Prodi prevedeva una fase orientata al risanamento dei conti pubblici seguita da una fase di riforme atte ad accelerare la crescita economica; le privatizzazioni e le liberalizzazioni sarebbero state elemento di tale seconda fase. Un anticipo di tale fase di riforme veniva dato in estate con il cosiddetto “decreto Bersani” (Decreto Legge del 4 luglio 2006) che riguardava alcune misure davvero minute . Nel Dpef del luglio 2006, le riforme su cui veniva posta enfasi (ma di cui non si specificavano i contenuti) riguardavano la previdenza, la sanità, il pubblico impiego e l’ammodernamento delle infrastrutture, non ulteriori privatizzazioni. Nell’ultima fase della precedente legislatura, tuttavia, si era provveduto ad una ricognizione del valore delle attività dello Stato valutate a prezzi di mercato. Tale ricognizione evidenziava un “valore residuo” pari a circa il 130-140% del pil, rispetto ad uno stock di debito pubblico pari al 106% del pil. (Camera dei Deputati, 2005). Una parte consistente di queste attività veniva detta “valorizzazione di medio periodo” in grado, pertanto, di essere collocata sul mercato per un controvalore di 400 miliardi di euro. All’inizio della XV legislatura c’era ampio spazio, quindi, per una politica attiva di privatizzazioni. Ciò avrebbe consentito di poter, nel medio termine, abbattere in misura significativa il peso dello stock del debito pubblico sull’andamento dell’economia dell’Italia, anche nell’ipotesi che la riduzione del debito pubblico fosse l’unico obiettivo delle privatizzazione ed il solo criterio implicito per la loro valutazione. Non avere voluto perseguire questa strada rappresenta, pertanto, una scelta precisa di politica economica che sta ponendo nuovi freni all’economia italiana (Barca, 2006; Bortolotti, Perotti, 2005).

5. Le liberalizzazioni e le privatizzazioni dei servizi pubblici locali.

Le liberalizzazioni sono state sino ad ora così modeste da non incidere, al margine, sull’economia italiana e sul suo andamento [5] La parte più importante dovrebbe riguarda i servizi pubblici locali. Il ddl 772/66– che va sotto il nome di “legge Lanzillotta” dal nome del Ministro che ne ha predisposto il testo – prevede la privatizzazione di trasporti, gas, acqua, nettezza urbana e via discorrendo ed indica procedure d’asta perché tale privatizzazione avvenga in modo efficiente e trasparente. Tuttavia, è stato praticamente accantonato il programma di liberalizzazione (prima ancora che di privatizzazione) nel settore delle acque: è amaro constatare che, mentre gli acquedotti italiani restavano di modeste proporzioni e scarsa efficienza Francia, Germania e Gran Bretagna hanno creato colossi del settore (Comelli, 2007).
Nel resto del settore dei servizi pubblici locali che c’è ampio spazio per privatizzare e liberalizzare. Dalla seconda metà degli Anni Novanta, la “gestione diretta” da parte degli enti locali è stata sostituita da una progressiva trasformazione di municipalizzate dotate di personalità giuridica e spesso organizzate in quanto s.p.a. (Banca d’Italia, 2002; Termini, 2005). Secondo Conservizi (Conservizi 2004), nel 1997 solo 57 loro affiliate erano s.p.a., mentre ne erano 448 alla fine del 2002, 650 alla fine del 2003 e 710 nel 2004. Appena 24 di tale totale era passata sotto controllo di privati, nel 24% delle municipalizzate il capitale privato e presente ma minoritario e nel 73% l’ente locale mantiene il controllo totale. Molti enti locali sono restii a privatizzare: gli utili delle municipalizzate (risultato di posizioni dominanti ove non di monopoli) sono una fonte di finanziamento (pure di spese di parte corrente, come gli stipendi) a cui ricorrono per contro-equilibrare le riduzioni dei trasferimenti dallo Stato (Barocci, Pierobon, 2006).
Nelle consultazioni tra Governo centrale ed autonomie locali, nessuno ha sollevato due temi di rilievo: a) l’interazione tra privatizzazioni e liberalizzazioni e b) il quadro europeo. In primo luogo, occorre evitare di ripetere l’errore degli Anni Novanta quando le privatizzazioni di grandi gruppi a partecipazione statale venne effettuata prima di un quadro ben definito di liberalizzazioni, innescando la sequela di problemi che ha condotto, ad esempio, alle vicende Telecom di questi giorni. Liberalizzare i servizi pubblici locali è ancora più arduo (come si è indicato), ma è fattibile, come provano, da anni studi di Banca mondiale; specialmente nel settore dei trasporti si possono mettere in concorrenza varie modalità e varie tipologie di servizio nell’ambito della medesima modalità. Un piccolo tentativo in questo senso iniziato[6] a Roma nel 2000 è terminato dopo pochi anni a ragione della ostilità della municipalizzata. In secondo luogo, si devono portare i sussidi (specialmente nel comparto trasporti) alla media europea. Altrimenti non solo avremmo censure nell’Ue, ma salterebbe il patto di stabilità interno (Reviglio 2006). Mai , come nel settore dei servizi pubblici e dalla loro privatizzazione, sarebbe auspicabile un’attenta valutazione dei costi e dei benefici economici e finanziari estesa alle opzioni reali degli stakeholder coinvolti sul tipo del metodo seguito dalla Fondazione Ugo Bordoni , per conto del Ministero delle Comunicazioni, ai fini della valutazione finanziaria ed economica della transizione da televisione analogica a digitale terrestre (Cioffi, Palambini, Pennisi, 2006).

6. La vendita dell’Alitalia

Dato che la denazionalizzazione della Rai e delle Poste (nonché ulteriori collocamenti sul mercato di azioni dell’Enel e dell’Eni e la vendita della residua quota dei Finmeccanica in mano allo Stato) sembrano accantonate, la vendita dell’Alitalia (in cantiere da tempo) è la maggiore privatizzazione attualmente in campo e l’atto di politica industriale (e del manifatturiero ad alta tecnologia) che caratterizzerà la XV legislatura. L’atmosfera non è molto differente da quella che aleggiava ai tempi del “gioco dell’Opa” in cui era in palio il controllo della Telecom – il principale evento di politica industriale del Governo D’Alema. Molti i punti in comune: posizione dominante in numerosi segmenti del mercato, alta tecnologia, possibilità di convergenza con altri comparti. La differenza principale è che i conti Telecom apparivano in buono stato (nonostante la forte leva finanziaria) mentre l’Alitalia è ,secondo alcuni economisti e giuristi, avrebbe dovuto, da tempo, portare i libri in tribunale (Scarpa, 2004) ed iniziare una procedura formare di fallimento.
L’essenza del parallelismo sta in un aspetto tecnico-procedurale della gara Una lettura attenta del bando relativo alla richiesta di intenzione di acquisto mostra che è in corso non un’asta (come più volte annunciato dallo stesso Presidente del Consiglio) ma un beauty contest (Dimitri, Piga, Spagnolo, 2006) – il termine tecnico con il quale vengono definite le gare per commesse pubbliche o vendite a privati di beni sotto il controllo dello Stato quando vengono effettuate tramite una procedura di spogli successivi. La procedura è mirata ad individuare , tra gli aspiranti acquirenti, quello con i requisiti e la proposta (sia tecnica sia finanziaria) che più si avvicinano all’idea che la stazione appaltante ha di quanto sia da considerarsi ottimale. La “bellezza” in palio viene definita a poco a poco, specialmente quando si ha a che fare con un bene o servizio di cui è difficile descrivere le caratteristiche. Ciò è frequente nel caso di beni o servizi con una forte componente immateriale (come l’umts e la telefonia mobile) dove è difficile stendere un capitolato dettagliato dotato di un computo metrico puntuale. Per l’Alitalia, si è scelto il beauty contest ,invece che l’asta, o per la difficoltà di redigere un capitolato dettagliato o per la volontà di dare un ampio margine di manovra alla commissione di aggiudicazione oppure ancora per varie combinazioni di queste determinanti . Viste le cordate che si profilano, ed il ruolo di banche e finanziarie collaterali a questo o a quel gruppo politico , non occorre essere maligni per ritenere che il desiderio di avere un ampio margine di scelta sia entrato nella decisione di effettuare un beauty contest invece di una vera e propria asta. La prima fase del beauty contest per l’Alitalia si è svolta con una clausola inconsueta nelle gare internazionali di appalti e commesse: si poteva esprimere interesse (ed entrare in lizza) senza sborsare un solo euro. In breve, in queste condizioni 11 offerenti non rappresentano un successo, ma uno smacco.
La partecipazione era ancora più attraente in quanto non è affatto certo che la privatizzazione sarà completa e totale. Anzi, sino a risanamento compiuto, è probabile che lo Stato resti azionista e garantisca la liquidità per risanare e ristrutturare (mantenendo la pace sindacale). Nella procedura del beauty contest si annida, in effetti, un Iri con le ali, molto più insidioso dell’Iri per le opere pubbliche che potrebbe essere sotto il mantello di F2i (di cui al paragrafo successivo). In effetti, quando si tratterà di mettere sul piatto i 3 miliardi di euro che servirebbero per acquistare Alitalia si vedrà quanti degli 11 saranno ancora in gara. Probabilmente tra due e quattro
Il Presidente del Consiglio Romano Prodi e il Ministro dell’Economie e delle Finanze dovrebbe dare una sferzata al beauty contest. Dovrebbero annunciare, in breve, che si è trattato unicamente di una procedura per individuare candidati potenziali da fare seguire , prima, da una prequalificazione vera e propria (con una “fee” cospicua per acquistarne il bando e la dimostrazione di capacità tecniche e finanziarie per poter rilanciare, senza un euro dei contribuenti, la malconcia compagnia) e, poi, da un’asta alla Vickrey (il primo aggiudicato deve pagare il prezzo del secondo- ) con un dettagliato capitolato tecnico e finanziario, l’unica in grado di massimizzare efficienza e minimizzare collusione (Vickrey, 1961 ) .Anche una valutazione economica elementare avrebbe portato a queste conclusioni. Esse sembrano, però, lontane dal percorso che pare si intenda seguire.

7. La Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) ed il nuovo Fondo per le Infrastrutture (F2i).

Le preoccupazioni che la Cdp perdesse la propria finalità di raccolta del risparmio postale per il finanziamento di infrastrutture a livello locale (specialmente di competenza dei Comuni) per diventare un nuovo ente analogo alle partecipazioni statali del passato sono aumentate con l’istituzione di nuovo fondo per finanziare infrastrutture pubbliche facendo ricorso a capitali pubblici e privati: si chiama F2i. I suoi soci iniziali sono la Cdp, UniCredit, le Fondazioni bancarie, il Fondo dei Geometri; sono entrati anche soci esteri di qualità e di livello. Si tratterà, si chiedono in molti, di una nuova Iri? Questo interrogativo è innescato dalle perplessità, anche europee, in materia di partecipazioni della Cdp in società di recente privatizzazione nel ramo elettrico? Oppure, sarà lo strumento per dare finalmente corpo alla finanza di progetto (Boyne, Law, 2005; Chiti, 2005; Mendez-Gloon, 2005; Renneboog L, Simons T. 2005; Stern S. , Seligman S. ,2004) ?. E’ difficile dare una risposta puntuale . Le prime interviste dell’Amministratore Delegato (espressione del mondo delle partecipazioni statali degli Anni Ottanta) inducono a propendere che F2i rappresenti un nuovo tentativo di resuscitare, alla grande, l’intervento pubblico nell’economia tramite l’investimento pubblico in infrastrutture. Viene appropriatamente sottolineato il rischio che conflitti di interessi si producano al momento di selezionare gli investimenti. Se gli investimenti rispondono a logiche e convenienze di mercato, il Governo impegna inutilmente risorse. In caso contrario, la scelta, per gli altri soci, risulta subottimale: ed essi esigeranno di essere ripagati, in altro modo (Debenedetti, 2007). Le infrastrutture sono sovente monopoli naturali, regolati da contratti di concessione, con Authority indipendenti (Auriol, Picard, 2007) Lo Stato ha comunque ampi poteri regolatori e autorizzatori , mentre come concessionario diventa un soggetto regolato e autorizzato. Se fa prevalere il ruolo di regolatore, danneggia se stesso in quanto investitore; in caso contrario danneggia i consumatori. “Più si approfondisce l’analisi – afferma Debenedetti - e più viene da chiedersi quale sia il vero obbiettivo che spinge le due parti, quella pubblica e quella privata, a stare insieme in una partita che entrambi potrebbero giocare in trasparenza, senza vincoli reciproci, ciascuno facendo il suo mestiere. Viene il dubbio che qui ci sia qualcosa di più che non il solito scambio di favori reciproci, nel solito mondo in cui le azioni si pesano e a contare sono le relazioni. E si fa strada l’idea che la posta in gioco sia molto più alta: consentire a poche banche italiane, a portata di telefonata dai Palazzi di Roma, di esercitare il controllo su tutti i flussi finanziari in Italia, occupando anche il settore del credito non bancario. Con il che la costruzione di un capitalismo senza mercato sarebbe completata. Se così fosse, dovremmo riconoscere che erano sbagliati i paragoni al passato dell’Iri e delle partecipazioni statali. Sbagliati alla grande: per difetto”. Inoltre, F2i ha dimensioni tali da potere incidere su scelte di politica pubblica, ad esempio, in materia tariffaria (Carabini, 2007) come facevano l’Iri e le sue finanziarie. Esercitando, quindi, una vera e propria “cattura” in numerosi comparti.
In primo luogo, occorre chiedersi di quali infrastrutture si prenderà carico – se di quelle della “legge obiettivo” o di altre. In secondo luogo, non è chiaro se si utilizzeranno Special Purpose Vehicles (Spv), uno strumento finanziario ad hoc, per ciascuna iniziativa oppure per ciascun comparto e se la tecnica utilizzata sarà il BOO (Build, Own, Operate) o il BOOT (Build. Own, Operate, Transfer): le implicazioni sono molto differenti in materia di regolazione e di terminazione di tariffe, pedaggi e simili in quanto, nella seconda ipotesi, dopo un lasso di tempo concordato l’opera viene trasferita all’amministrazione pubblica. Dalla risposta a queste dipende quali tecniche finanziarie ed economiche adottare. Potrebbe essere utile che F2i segua l’esempio dei cugini francesi, tedeschi e britannici con la pubblicazione di un manuale.
Infine, perché la Cdp è in F21? Per dare una garanzia pubblica? Per orientare le scelte operative presso obiettivi di politica economica? Per catturare utili e dividendi (se sono elevati)? Per incidere sull’allestimento dei progetti? Un’altra scuola di pensiero (Pennisi a), 2007) sottolinea che il nuovo Fondo, se ben gestito, potrebbe rappresentare una svolta nella finanza di progetto. In materia, è stata varata una normativa apposita (aggiornata di recente) ed una unità tecnica presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef), nel cui ambito è stata creata (alcuni anni fa) Ispa (ossia Infrastrutture Spa), i cui esiti sono stati molto inferiori alle attese. La Scuola superiore della pubblica amministrazione (Sspa) sta realizzando 48 corsi specialistici in queste materie per le Pa, specialmente di quelle a livello locale (Regioni, Province, Comuni) dove le restrizioni ai trasferimenti di finanza pubblica sta suscitando un forte interesse in forme di partnership con il settore privato.
Esistono indubbiamente rischi che il nuovo strumento possa venire distorto per finalità di salvataggio di aziende decotte tramite la loro partecipazione, con la garanzia dello Stato o di enti locali, alla realizzazione e gestione di infrastrutture di modesta utilità per la collettività (quindi, discorsive). Tuttavia, se operano efficacemente, i fondi chiusi per le infrastrutture rendono bene anche sotto il profilo strettamente privatistico; ossia, portano dividendi di tutto rispetto a chi li sottoscrive. Ad esempio, il bilancio consuntivo 2006 del Tata Infrastructure Fund di Mumbai espone un utile lordo (prima di tasse, dividenti ed ammortamenti) del 62% e il Sundaran Bnp Paribas Select MidCap Fund uno addirittura del 92%. Indubbiamente si è alle prese con economie emergenti a rapida crescita (come quella dell’India). Un’analisi del servizio studi della Banca centrale europea suggerisce che in economia mature (come quella dell’Italia), i rendimenti saranno molto più contenuti. Ci si dovrebbe accontentare di un Saggio di rendimento interno (Sir) finanziario superiore al 10% - da assumere come livello di soglia.
Gli italiani sono stati tra i precursori della finanza di progetto – basti pensare alla ferrovia Napoli-Portici finanziata da banche belghe quando il Re delle Due Sicilie in persona mise bocca sul tracciato. Si possono, poi, trarre lezioni utili dalle attività della Banca mondiale dalla sua creazione nel 1944 alla fine degli Anni Ottanta (quando l’enfasi passò dal finanziamento di progetti alla lotta alla povertà). La provvista della Banca proviene interamente dal mercato dei capitali. Le sue obbligazioni hanno la classificazione più alta (da parte delle agenzie di rating) a ragione della qualità dei progetti e del rigore con cui venivano valutati. F2i potrebbe trarre utili indicazioni dalle sperimentazioni di analisi di progetti con la tecnica delle opzioni reali effettuate , in Italia, dal Mef, dal Ministero delle Comunicazioni , già introdotta in fondi analoghi di altri Paesi europei.
Inoltre, F2i deve equilibrare prudenza con innovazione. In Australia ed ora negli Usa (nonché in Argentina e Bolivia), fondi analoghi hanno concluso, o stanno concludendo contratti di acquisto o di leasing a lungo termine di infrastrutture pubbliche di grande rilievo (tra cui il Pennsylvania “turnpike” presentata, quando nel lontano 1940 venne inaugurata, coma la superautostrada più avanzata al mondo ed ora in esigenza di ammodernamento), in effetti privatizzandole. Sono iniziative che hanno attratto pure gruppi di private equity ma che richiedono un’analisi finanziaria molto accurata.Molto dipende, quindi, dalle scelte manageriali e regolatorie che verranno effettuate (Guthrie, 2006).

8. Il riordino delle Authority

Nel febbraio 2007, il Governo ha varato un disegno di legge per il riordino delle Authority. Il disegno di legge , in sintesi, interviene in materia di Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità, di vigilanza sui mercati finanziari e di adeguamento degli ordinamenti delle Autorità. Per quanto concerne i servizi di pubblica utilità, si rafforzano i poteri di regolazione al fine di rendere effettiva l’introduzione della concorrenza e di tutelare anche con misure urgenti gli utenti e i consumatori. Con riguardo ai singoli settori, si dispone che le funzioni di autorità nazionale di regolamentazione previste dalla disciplina comunitaria siano affidate all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, ferme restando tutte le altre competenze del Ministro delle comunicazioni. Il ddl prevede che le funzioni di regolazione dell’erogazione dei servizi idrici ai cittadini siano affidate all’Autorità per l’energia elettrica e il gas, ferme restando le scelte in materia di pubblicità delle risorse idriche e delle relative gestioni e le competenze di tutela ambientale del Ministero dell’ambiente. Viene , infine, istituita l’Autorità dei trasporti con competenze di regolazione economica, in materia di tariffe, prezzi, standard qualitativi, condizioni di accesso alle infrastrutture, estese ai settori aereo, autostradale, ferroviario e marittimo. Restano fermi i poteri di indirizzo e di programmazione nel settore, le scelte in materia di investimento delle risorse pubbliche, le prerogative di stipula di convenzioni e contratti, e le funzioni di tutela della sicurezza dei Ministri dei trasporti e delle infrastrutture. Per quanto riguarda il riordino delle autorità del settore finanziario, si supera l’attuale modello fondato sulla divisione delle competenze in ragione della materia e dei soggetti vigilati. A questo sistema, il disegno di legge intende sostituire un modello di vigilanza per finalità, più razionale ed efficiente. Secondo il nuovo disegno, la Banca d’Italia diventa il soggetto regolatore e vigilante unico in materia di stabilità degli operatori (bancari, assicurativi, finanziari), mentre la Consob è regolatore unico in materia di trasparenza e di informazione al mercato (quindi anche sull’offerta dei prodotti assicurativi e pensionistici). L’Isvap (istituto di vigilanza sulle assicurazioni), la Covip (commissione di vigilanza sui fondi pensione) l’Uic (ufficio italiano cambi) sono soppressi - e le competenze attuali sono ripartite tra Banca d’Italia e Consob (ciò si giustifica anche in ragione degli assetti proprietari delle assicurazioni e della componente finanziaria dei nuovi prodotti assicurativi). Sarà quindi soppresso il Comitato interministeriale per il credito e il risparmio (Cicr) e sostituito, in linea con l’esperienza di altri ordinamenti europei, dalla costituzione presso il Mef di un Comitato per la stabilità finanziaria, anche al fine di consentire l’esercizio dell’alta vigilanza sul sistema finanziario. Il ddl mira infine a consentire l’immediata operatività della riorganizzazione funzionale operata dalla legge adeguando gli ordinamenti delle Autorità in materia di modalità di nomina dei componenti delle Autorità e ad alcune regole di organizzazione e di funzionamento.
Il numero dei componenti è fissato a cinque per ciascuna Autorità, così rendendo più efficiente il processo decisionale e abbandonando criteri di rappresentanza politica. La designazione sarà del Consiglio dei Ministri con il parere vincolante espresso a maggioranza dei due terzi di una Commissione parlamentare bicamerale per le politiche della concorrenza e la regolazione dei mercati e i rapporti con le Autorità indipendenti. La revisione non si applica alla Banca d’Italia, le cui regole sono state recentemente riformate. Il mandato è fissato in sette anni, non rinnovabile neanche in altre Autorità. La Commissione bicamerale ha anche il compito di curare il raccordo istituzionale tra il Parlamento e le Autorità con riguardo alle funzioni legislative e regolamentari di rilevanza strategica sull’assetto concorrenziale dei mercati e sulla tutela dei consumatori e degli utenti. La strada del ddl è appropriata perché consentirà di migliorare il testo durante l’iter parlamentare. E’ auspicabile che sia un miglioramento bipartisan (o che si dia almeno ascolto all’opposizione) poiché si è alle prese con una materia che coinvolge gran parte del sistema economico. Prima di entrare nel merito del ddl (di cui peraltro, al momento della stesura di questo “Rapporto” non si conoscono ancora i dettagli) è bene che il Parlamento tenga presente che ci sono due visioni differenti di interpretare cosa è un’Authority all’interno di un’area come l’Ue (ed ancor più nell’unione monetaria) in cui, in molti terreni (si pensi alla concorrenza), regole ed istituzioni nazionali devono convivere con regole ed istituzione sopranazionali, evitando di sovrapporsi le une alle altre causando costi elevati per tutti i soggetti coinvolti e frenando, quindi, produttività e competività. Lo descrive con efficacia Simon Deakin della Università di Cambridge (Regno Unito) in un saggio pubblicato l’estate scorsa (Deakin , 2006). Da un lato, c’è il modello anglossassone di federalismo competitivo : lo Stato che ha le Authority più efficienti (e meno ingombranti) è quello che cresce meglio e di più, come documenta, tra l’altro, con ricchezza di dati empirici un lavoro della Banca mondiale (Loyaiza, Oviedo, Serven, 2005). C’è, poi, il modello dell’Europa continentale che, secondo Deakin, si basa sul “concetto, interamente europeo, di armonizzazione riflessiva” – ossia di mutuo riconoscimento di regolazione e di authority. Ciò comporta pure un processo, di apprendimento e miglioramento graduale che consente di evitare alcune rozzezze delle Authority dei singoli Stati dell’Unione (negli Usa). E’ interessante notare che nel diritto societario europeo, il primo modello sta gradualmente entrando nel secondo e che tale processo ha avuto un’accelerazione dall’ampliamento dell’Ue da 15 a 27 Stati membri. Non è unicamente congettura che le Authority dei singoli Stati europei di domani (per la quali si programma con il ddl di oggi) ed ancora di più le Authority comunitarie si avvicineranno sempre più ad un modello competitivo atlantico (come, peraltro, già sta avvenendo in materia di mercati finanziari e di Borse). Il ddl comporta senza dubbio una semplificazione dell’architettura delle Authority all’italiana, unitamente ad una uniformazione della loro normativa e delle procedure per le nomine dei loro componenti che dovrebbero essere di evidenza pubblica (quindi trasparenti) e caratterizzate da un indirizzo di governo fortemente temperato dall’esigenza di un consenso bipartisan (la maggioranza di due terzi) in Parlamento.Non risolve, però, il nodo di fondo di quale modello sia stato scelto , esplicitamente o implicitamente, tra quello anglosassone (ora esteso anche ai Paesi del bacino del Pacifico) e quello dell’Europa continentale (per certi aspetti in via di revisione). Un nodo ora molto più importante di quanto vennero istituite negli Anni Novanta le prime Authority , allora essenzialmente concepite in via strumentale come veicolo per le privatizzazioni (Pennisi, Zecchini, 2001). Adesso (si ricordino, a mero titolo di esempio tra i molteplici a cui si potrebbe fare riferimento, le vicende recenti ed ancora non concluse ,come quella della fusione Autostrade –Abertis) l’interazione competitiva tra regolazione europea e nazionale è sempre più pregnante. Si pensi, ad esempio, all’istituenda Autorità dei trasporti (immersa nel contesto europeo perché immerse nel contesto europeo sono le grandi reti di comunicazioni attraverso l’Europa). Certe parti del ddl , ad esempio la ripartizione delle competenze tra Banca d’Italia e Consob, hanno il sapore del compromesso per la difesa di competenze del passato. Altri articoli guardano più a ieri che a domani: un caso evidente è la lunga agonia prevista per l’Isvap e la Covip, campi in cui da lustri si sarebbe potuto pensare a meccanismi di riassicurazione tali da non gravare sui contribuenti (quali la Pension Benefits Guarantee Corporation Usa).Un passo importante è stato fatto ma in Parlamento c’è ancora strada da fare.

10. Conclusioni

Se la politica economica deve essere letta e valutata come una sequenza e come una serie di finestre di opportunità (Pennisi, Scandizzo, 2003), il 2006 (e probabilmente il 2007) devono essere letto come una pausa (e forse una marcia indietro) nella strategia di privatizzazioni e di graduali liberalizzazioni cominciata all’inizio degli Anni Novanta, nonché delle relative finestre di opportunità per l’economia e per la società italiana. Occorre ammettere che il Governo eletto nella primavera 2006 è composto da una coalizione molto variegata in cui hanno la preponderanza partiti che si richiamano all’ideologia comunista ed alla programma omnicomprensiva centralizzata e, quindi, molto distanti da metodiche di valutazione (come quelle dell’analisi costi benefici o del “metodo degli effetti”) che sotto-intendono una programmazione unicamente indicativa ed il ricordo a strumenti di mercato.. Di conseguenza, una parte significativa della maggioranza si oppone attivamente ad una politica di privatizzazione e di liberalizzazione. Stime econometriche effettuate con il blocco “Italia” del modello della Banca centrale europea (Angelini, D’Agostino, Mcadam, 2007) suggeriscono che, unitamente all’aumento della pressione tributaria, ciò potrà dimezzare la crescita effettiva dell’economia italiana nei prossimi anni, rispetto a quella ritenuta potenziale. Sino ad ora solo tale valutazione (a carattere macro-economico) è disponibile. Non è stata contraddetta da nessuno.
Ci auguriamo che i fatti e gli avvenimenti ci inducano a ricrederci in merito all’analisi qui presentata del futuro delle privatizzazioni dei servizi pubblici locali e dell’Alitalia , nonché di F2i e che il riassetto delle Authority (unico aspetto positivo del periodo preso in considerazione) possa contribuire ad un ripresa del sempre difficile percorso delle privatizzazioni (Armstrong, Sappington; 2006).



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[1] Stima ricavata dall’autore di questa nota sulla base di newsletter finanziarie di J.P. Morgan e Thompson Financial European Capital Markets.
[2] Stima ricavata dall’autore sulla base di dati del Ministero dell’Economia e delle Finanze.
[3] In quell’anno sono state effettuate le prime “grandi privatizzazioni” italiane, ed i proventi da esse derivanti, sono stati un tassello delle misure di finanza pubblica attuate per essere ammessi nell’area dell’euro.
[4] Dati ricavati da più fonti, essenzialmente Fondo Monetario Internazionale, Economist Intelligence Unit e J.P. Morgan
[5]Lo si ricava dai principali modelli econometrici quale quello di Rafael Gomez e Pablo-Hernandez de Cos che hanno appena pubblicato un saggio (Bce working paper n. 670) sul potenziale di aumento del pil in economie maturemento e dalla sezione italiana del modello econometrico della Bce, le cui specifiche sono state pubblicate un paio di settimane fa in un lavoro di Elena Angelini, Antonello d’Agostino e Peter Mcadam come working paper della Banca n.660 , nonché al modello pubblicato (in versione preliminare) a fine 2006 da Daniel Gros, Presidente del Ceps e Ansgar Belke dell’Università di Hohenheim come Iza working paper n. 254. In sintesi:
1. I 20 maggiori istituti econometrici privati stimano per l’area dell’euro nel 2007, un aumento medio del pil tra l’1,7% ed il 2,3%, mentre quello dell’Italia oscillerebbe tra lo 0,8% e l’,7%., a ragione in gran misura della stangata fiscale. La sezione italiana del modello Bce giunge a esiti analoghi. In breve, le mini-riforme possono avvantaggiare alcune categorie (a danno di altre) ma non incidono sugli andamenti macro-economici (mentre vi incide – e come!- la stangata.
2. Un programma di riforme effettive – che modifichi la previdenza (rivedendo l’età minima per andare in pensione ed adeguando il grado di copertura all’aspettativa di vita) e liberalizzi ulteriormente il mercato del lavoro – potrebbe invece avere effetti positivi sulla crescita. Oltre al modello strutturale Gros-Belke lo afferma un altro lavoro della Bce (il working paper n. 666).

[6] Un servizio di minibus o taxi multipli a tariffe pari a tre volte quelle dell’autobus o del tram ma organizzati in modo da prenotare i posti ed assicurare un servizio veloce tra aree residenziali ed il centro della capitale. Il servizio iniziato da una cooperativa privata è stato rilevato da una cooperativa di dipendenti della municipalizzata , a conclusione di una gara al maggior ribasso, e dopo pochi mesi dimesso.

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