lunedì 30 aprile 2007

IL FANTASMA DI TRIESTE SULLA BORSA DI CHICAGO

Secondo gli americani, i futures (e le relative contrattazioni in derivati) sarebbero stati inventati al Chicago Board of Trade, la Borsa merci della splendida città che si stende sul lago Michigan. Gli italiani hanno versione differente: sarebbe stati inventati alla Borsa merci di Trieste, come documentato, tra l’altro, dalla descrizione minuziosa del loro funzionamento in La coscienza di Zeno di Italo Svevo (che si arricchi non con la penna ma con i contratti a termine di derivati su derrate). Per i britannici, l’origine è ancora più lontana: nel Mercantile Exchange di Londra, dove investiva freneticamente Georg Frederich Händel il quale, per questo motivo, due volte portò alla stelle e due alle stalle (ossia al fallimento giudiziario) la sua intrapresa principale – una compagnia d’opera.
La geopolitica e la telematica hanno cambiato tutto ciò. Trieste è diventata una sonnolente città, abitata per lo più da anziani. Londra si è trasformata: nonostante l’importanza del London Metal Exchange (il Mercantile Exchange conta poco), la vera piazza è lo Stock Exchange finanziario. E Chicago? L’ultimo fascicolo del Journal of Derivatives Markets traccia una prospettiva poco allegra dell’avvenire: senza un’iniezione di capitale umano e di tecnologia – afferma Linda Darragh che ha condotto una lunga indagine di campo nel settore – il trading elettronico – facilitato dalla banda larga e dall’utilizzazione di modelli finanziari avanzati – “usurperà” una volte per tutte le grida in sala Borsa merci e le contrattazioni allo sportello a cui gli operatori di Chicago sembrano tanto affezionati. Le tecnologie – sottolinea – consentono di individuare spread infinitesimali ed eseguire ordini in un millesimi di secondo con un computer da tavolo (od anche con un portatile). Dato che il comparto dei futures è quello che ancora genera più ricchezza nella città, la trasformazione – conclude il lavoro – richiede l’impegno politico della City of Chicago e dello Stato dell’Illinois che dovrebbero lavorare d’intesa con i leader del comparto per formulare ed attuare una strategia di comunicazione tale da convincere i tradizionalisti. Altrimenti come oggi, persa la leadership dei futures, i triestini vanno a passeggio da Piazza Unità d’Italia al Castello di Diramare, ai Chicagoans (ossia i residenti di Chicago) delle prossime generazioni resteranno passeggiate sul magnificent mile – il miglio tra il Museo di Storia Naturale al Museo di Arte sul lago, dove a sud del Lincoln Park si stagliano gli edifici più belli ed i negozi più eleganti della città.

WOLFOWITZ E I WORLD BANK BONDS APPESI A UN FILO

Il tormentone della Banca Mondiale si prolunga con la possibilità di effetti sui bonds dell’istituto. Il Consiglio di Amministrazione (CdA) del 24 aprile - come può vedere chi si addentrarsi nel labirinto del sito www.worldbank.org – ha riguardato prestiti a vari Paesi in via di sviluppa. Una breve “sessione informale” ha tentato di fare il punto sul futuro del Presidente Paul Wolfowitz. Il 25 aprile, si è svolta un incontro straordinario del CdA con Wolfowitz che ha chiesto di essere rappresentato da un suo legale di fiducia (Robert Bennet) nei suoi contatti con il Board; la richiesta è stata respinta. In parallelo, Wolfowitz ha riunito i 30 Vice Presidenti della Banca e domandato che costituissero, nel loro ambito, un comitato esecutivo per co-adiuvarlo a gestire la Banca nei tre anni restanti del suo mandato; altro diniego. Ultimi sviluppi nel fine settimana, dopo concitati contatti tra le diplomazie economiche e finanziarie dei maggiori Paesi. Gli europei (guidati da Germania a Francia) hanno convinto i più tolleranti Paesi nordici a tenere una posizione dura. Il 30 aprile si è svolta una riunione a porte chiuse dei sette maggiori azionisti della Banca con Wolfowitz; riferiranno al Board il primo od il 3 maggio per porre fine alla vicenda o chiedendo le dimissioni del Presidente, o emettendo una censura oppure ancora cedendo alle pressioni della Casa Bianca) e non prendendo, quindi, alcuna azione.
Nonostante nuove accuse (questa volta di conflitti di interesse: la stesso ufficio legale che ha negoziato il suo contratto con la Banca ha ricevuto una lauta consulenza dall’istituto), Wolfowitz sembra intenzionato a non dimettersi ed a ingaggiare , se necessario, una battaglia legale. Argomenta che le dimissioni danneggerebbero la Banca (ed i detentori di Worlb Bank bonds) più di una sua permanenza alla guida dell’istituzione. Sa, o pensa, di avere il pieno sostegno dell’Amministrazione Bush: Robert Holland, un industriale del Texas molto vicino alla Casa Bianca e sino all’anno scorso nel Board della Banca, afferma (in interviste a destra ed a manca) che le accuse sono “strumentali” e vengono da Paesi a corruzione endemica e da una burocrazia contraria ai programmi di sfoltimento (del personale) proposti da Wolfowitz. I suoi collaboratori più stretti affermano che l’affare di letto e prebende è stato montato oltre ogni misura dai critici della “svolta” effettuata dalla Banca specialmente in materia di misure per frenare la corruzione: sono stati sospesi prestiti a Paesi importanti (come l’India) in quanto c’erano prove di diffuse tangenti e bustarelle nella pubblica amministrazione.Basta scorrere il sito di contro-informazione www.whirledbak.org per leggerne di cotte e di crude (provenienti probabilmente dall’interno dello stesso istituto).
Uno dei dirigenti più alti in grado, Greame Wheeler, ha ammesso che la Banca è alle prese con la crisi più grave della sua storia. In effetti, lo scandalo di letto e promozioni è la punta di un iceberg complesso che coinvolge la missione della Banca. Creata 65 anni fà per finanziare tramite progetti specifici la ricostruzione e lo sviluppo dei Paesi devastati dalla seconda guerra mondiale; il suo mandato è stato progressivamente esteso ai Paesi in via di sviluppo che avevano difficoltà ad avere accesso al mercato internazionale dei capitali. Gradualmente non solamente gran parte del mondo considerato a basso reddito ha pienamente accesso al mercato dei capitali (si pensi all’Asia, all’America Latina ed a buona parte del Medio Oriente) ma dal 1987 la Banca ha smesso in pratica di finanziare progetti per sostenere, invece, programmi non solo di investimento ma anche di politica economica e di attività fumose come la lotta alla corruzione
Nel frattempo, il personale dell’istituto è aumentato rapidamente: nel 1968 l’organico era di 2500 (e la Banca faceva prestiti per progetti nei 5 continenti, anche alla Spagna ed all’Irlanda); è giunto a oltre 10.000 persone che si devono inventare nuove cose da fare per giustificare il proprio stipendio.
Moody’s e le altre agenzie di classificazione (pur mantenendo il più stretto riserbo) non celano preoccupazioni sul futuro dei bonds della Banca- specialmente se l’attuale crisi si protrae ancora a lungo e Wolfowitz viene dimissionato o costretto alle dimissioni prima che l’Amministrazione Usa (che per consuetudine propone il Presidente) tira fuori dal cappello un candidato di livello ed accettato dagli altri. Il nodo dell’individuazione (e nomina) di un successore ritarda, comunque, la conclusione della vicenda. A renderla ancora più complicata, le dimissioni (per una storia di donnine, lo corso fine settimana, di Randall Tobias, sottosegretario agli esteri incaricato della cooperazione con i Paesi poveri. Nella capitale Usa, si dice che il Presidente Bush abbia chiesto al Consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca Stephen Hadley (un repubblicano di lungo corso sessantenne, ma anche molto amico di Hillary Clinton dagli anni in cui frequentavano l’Università di Yale) di mettersi alla ricerca di candidati qualificati. Quanto più la ricerca sarà lunga tanto più innervosirà i mercati.

LE TROPPE LEGGI BUCANO LE CONDOTTE D'ACQUA

Venerdì 4 maggio il Consiglio dei Ministri esaminerà un documento dei dicasteri interessati per decidere se ed in qual misura dichiarare lo stato di emergenza per la crisi idrica. Prima di delineare i rimedi, vediamone le cause e gli effetti possibili.
In primo luogo, su base mondiale oggi una persona su cinque ha, secondo le Nazioni Unite, accesso ad acqua potabile. Il Consiglio Mondiale per le Acque (un’organizzazione specialistica non governativa) ricorda che nel XX secolo la popolazione mondiale è triplicata, ma il consumo di acqua sestuplicato. Nei prossimi 50 anni si prevede un aumento del 50% della popolazione mondiale ed una domanda sempre più forte di acqua. Il Consiglio sottolinea che il problema chiave è la gestione (più che il destino cinico e baro alla base del buco nell’ozono e del riscaldamento della calotta terrestre).
In secondo luogo, lo stessa Unicef (non certo l’avanguardia del capitalismo selvaggio e del libero mercato) evidenzia che una determinante importante è una politica delle acque ambigua e contraddittoria ed un’amministrazione, quasi sempre pubblica, con più buchi di quelli degli acquedotti. Così come – ci ha insegnato il Premio Nobel Amarta Sen – è alla base delle carestie , la politica (specialmente la cattiva politica) è pure all’origine delle crisi idriche.
In secondo luogo, la situazione italiana. In questi giorni vengono sciorinate cifre su cifre: nelle aree urbane (e quasi tutto il Paese è coperto da città e cittadine), si sprecherebbe il 50% dell’acqua disponibile, non si ha contezza che ogni anno si perdono 2000 litri da un rubinetto che perde una goccia ogni cinque minuti, le perdite della rete sono pari al 52% dell’acqua immessa nella parsimoniosa Belluno ma raggiungo il 70% nella sprecona Cosenza: E via discorrendo. Pochi riflettono sul fatto che , negli ultimi sette anni, la situazione (già non buona all’inizio degli Anni 80 quando me ne dovetti occupare in prima persona al Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica) è diventata pessima per una determinante politica: il nuovo Titolo V della Costituzione , approvato frettolosamente al termine della XIII legislatura, da un centro-sinistra che sperava, così, di strappare voti alla Lega. Da allora vige il caos delle competenze , aggravato (a livello centrale) da quello (costosissimo) ancora in corso per lo spacchettamento dei Ministeri. Organizzazioni tecniche considerate per decenni esemplari pure da osservatori stranieri – come il Magistrato delle Acque per il Po – sono state depotenziate prima che le Regioni avessero mezzi e soprattutto esperienza per affrontare problemi che diventavano ogni giorno più gravi. Nella XIV legislatura si è fatto un tentativo per rimettere un po’ d’ordine ma nella confusione relativa alla riforma dello Stato in direzione federalista non se ne è concluso nulla.
Esistono, in Italia, le capacità tecniche ed amministrative per evitare che acquedotti colabrodo, famiglie ed imprese di manica larga (in tema di consumi idrici), municipalizzate travagliate da mille problemi provochino la prossima estate black out ed altre emergenze di breve periodo. Occorre però stabile chiare competenze e responsabilità e fare un vero gioco di squadra.
Per il medio e lungo periodo, il problema è più complesso. Occorre, innanzitutto, riflettere sulle politiche che hanno portato al nuovo Titolo V della Costituzione ed al confusionario ed oneroso spacchettamento dei Ministeri. Si deve, poi, prendere sul serio una delle considerazioni emerse dal recentissimo seminario internazionale organizzato dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace su cambiamento climatico e sviluppo , divulgate dall’Istituto Bruno Leoni (non certo una congrega di statalisti): il cambiamento del clima non crea problemi nuovi ma aggrava quelli esistenti. Dipende da noi migliorare le nostre capacità per fronteggiarlo e risolverlo.

mercoledì 25 aprile 2007

HIGH TECH E SENSUALE LA TRAVIATA DI ZEFFIRELLI

A 84 anni Franco Zeffirelli si è preso una rivincita nei confronti della fredda accoglienza alla discutibile “Aida” scaligera con un nuovo allestimento di “La Traviata” di Giuseppe Verdi, quasi contemporaneamente a Roma (dove resterà in scena sino al 3 maggio, ma si annunciano repliche aggiuntive ed una ripresa il prossimo anno) ed a New York (dove il management del Metropolitan ha dichiarato l’intenzione di replicarlo ogni anno per i prossimi 25 anni). La lettura è leggermente differente (pure a ragione dei limiti tecnici del palcoscenico romano). Nella capitale, la vicenda del triste amore di Violetta ed Alfredo (contrastato dal padre del ragazzo, Giorgio) è mostrato in flashback (la morte di Violette è presentata durante l’ouverture) mentre a New York si segue lo svolgimento convenzionale. In ambedue le versioni, l’impianto scenico (altamente tecnologico, impostato su una struttura unica a tre livelli, sipari, scene dipinte e proiezioni) e gran parte degli interpreti sono gli stessi (a Roma si alternano 3 cast). In Italia, grazie ad un sistema ad altissima definizione sia per il video sia per l’audio , la “prima” del 20 aprile è stata seguita in diretta da 12.000 spettatori in una ventina di sale di provincia – un’attività che il teatro della capitale vuole ripetere per aumentare la fruizione degli spettacoli ed attirare nuovo pubblico.
Lo spettacolo è grandioso e curato nei minimi dettagli (anche in vista della sua programmazione pluriennale). La vicenda non viene attualizzata ai giorni nostri (come in edizioni recenti) ma calata nella metà Ottocento. Abili i giochi di luci e di colori che rispecchiano partitura e stati d’animo: al secondo atto al verde luminoso del giardino si passa al rosso ed al nero della festa ed al un grigio e bianco spettrale del concertato finale. La caratteristica di questa ottava “Traviata” di Zeffirelli è la carica sensuale: baci ed amplessi dominano il rapporto tra i giovani protagonisti . Quindi, anche Gianluigi Gelmetti offre una concertazione sensuale della partitura, dilatandone i tempi nei momenti chiave. Ha entusiasmato il pubblico, alla “prima”, Angela Gheorghiu (Violetta): per i critici ha solo mostrato di essere un soprano lirico spinto di agilità con grande dimestichezza per il ruolo. Le vere sorprese sono state Vittorio Grigòlo (Alfredo), aitante trentenne dal timbro chiaro e virile e di grande presenza scenica ed il 71nne Renato Bruson, la cui voce non ha più lo smalto di un tempo ma tanto calato nel personaggio di Giorgio che ha bissato l’aria del secondo atto. Venti minuti di applausi al termine dello spettacolo.



La Traviata- melodramma in tre atti di Francesco Maria Piave musica di Giuseppe Verdi
Regia e scene: Franco Zeffirelli.
Costumi: Raimonda Gaetani.
Maestro concertatore e direttore d’orchestra: Gianluigi Gelmetti
Protagonisti: A. Georghiu/Irina Lungu/Myrtò Papatanasiu/Anna Rita Talento, Vittorio Grigòlo/ Marius Brenciu/ Alfredo Postilla; Renato Bruson/Paolo Coni/ Dario Solari.
Al Teatro dell’Opera di Roma sino al 3 maggio. Un allestimento analogo entra in repertorio al Metropolitan di New York.

IL GOVERNO EXTRAPARLAMENTARE

In un sistema bipolare, in cui si giustappongono due visioni dell’interesse del Paese, è normale che quando una maggioranza si avvicenda ad un'altra , i nuovi inquilini dei Palazzi del Governo dedichino tempo ed energia a disfare quanto fatto dai loro predecessori. E’ meno normale che ci si dedichi a quelle che Mario Monti, su “Il Corriere della Sera” del 22 aprile, ha chiamato le “controriforme di strutture” attuate ben sapendo che esse freneranno, con la crescita, l’aumento del benessere per tutta la collettività. E’ ancora meno normale, ove non contrario alla Costituzione, che per effettuare tali “controriforme di strutture” si ricorra a metodi e procedure extra-parlamentari, nel senso che si verificano al di fuori del Parlamento (tenendolo spesso all’oscuro). Non è affatto normale che l’opposizione – quali che siano i meriti dei singoli temi – non rivendichi che in una democrazia parlamentare lo scettro torni al Principe (il Parlamento). L’economista del Mit Avinash Dixit vede in questo controriforismo extra-parlamentare un degrado e della democrazia e del potenziale sviluppo economico, sociale e politico.
Tre casi possono essere citati. In primo luogo, quello, denunciato dal Senatore Michele Vietti su varie testate, secondo cui la riforma del diritto fallimentare – su cui ha sudato più di una legislatura – venga inopinatamente inserita nel cosiddetto decreto “mille proroghe” tra i provvedimenti da modificare con decreto legislativo (ossia ottenendo solamente un parere dalle Commissioni Parlamentari). Qualsiasi riforma può essere modificata ; anzi , deve esserlo se non più al passo con le esigenze. Tuttavia, pare difficile arguire che ciò avvenga soltanto dopo mesi dal varo di una legge (specialmente se ci sono stati anni di dibattiti per giungere al testo in vigore). Pare ancora più arduo – ove non contrario alla Costituzione – utilizzare uno strumento d’urgenza (tale da escludere il Parlamento da un esame approfondito) invece della via del disegno di legge.
In secondo luogo, la riforma della previdenza. E’ argomento difficilissimo anche in quanto, se si intende modificare la normativa del 2004 prima che entrino in vigore alcuni suoi aspetti (specialmente quelli dei requisiti per le pensioni di anzianità), il Governo avrebbe dovuto dare da tempo al Parlamento il proprio indirizzo tramite un pertinente disegno di legge. Invece, sembra essere tornati agli “accordi inter-confederali” della fine degli Anni 60, “accordi” che venivano presi al di fuori delle aule parlamentari e che Camera e Senato venivano chiamati a ratificare frettolosamente. Un economista non centro vicino al centro destra come Augusto Graziani ha individuato in tale prassi di 40 anni fa le radici dello sfascio della finanza pubblica e dell’Everest di debito pubblico che blocca lo sviluppo dell’Italia.
In terzo luogo, il riassetto della formazione per le pubbliche amministrazioni e statali e locali. Si possono avere i punti di vista più differenti sui meriti e sui demeriti del sistema attuale (su questi ed altri temi si è dibattuto a lungo dal 19 al 20 aprile al X congresso dell’Associazione italiana di valutazione, Aiv, svoltosi a Roma). Senza dubbio, però, in un Paese normale la riforma avrebbe richiesto un disegno di legge ed un forte coinvolgimento degli stakeholder (dirigenti e funzionari pubblici, innanzitutto) nella sua preparazione, nonché un approfondito esame da parte del Parlamento, mentre pare affidata ad un regolamento basato su alcuni commi introdotti, all’ultimo momento nella legge finanziaria, e nei cui confronti alcune Regioni hanno già fatto ricorso alla Corte Costituzionale.
Altri esempi potrebbero essere menzionati. Sono più eloquenti dei 13 voti di fiducia richiesti dall’Esecutivo in pochi mesi. Se tanto illustra il modo di pensare e di fare del Partito Democratico del futuro, il soggetto politico nascituro dovrebbe già pensare a cambiare nome.

lunedì 23 aprile 2007

M & A: CHI CI GUADAGNA

Chi sono i veri vincitori dei giochi dell’Opa, o, più in generale, delle operazioni di fusioni e concentrazioni (M&A, in gergo) che hanno caratterizzato gli ultimi 15 anni? I manager più degli azionisti. Non solo ma i manager se la sono cavata molto bene , anzi splendidamente, anche quando gli azionisti ci hanno rimesso le penne. Questa è la conclusione che si ricava dalla lettura dei saggi sul tema nell’ultimo fascicolo del Journal of Finance, una delle riviste accademiche Usa di maggior prestigio. Uno dei lavori passa al setaccio tutti i M&A avvenuti negli Usa dal 1990 al 2005 e ne deriva alcune caratteristiche interessanti. Quando la s.p.a acquirente è ad azionariato diffuso, le quotazioni dei titoli della compagnia che si vuole comprare aumentano mediamente del 32%; se invece, l’azionariato dell’acquirente è ristretto l’incremento di valorizzazione di chi sta per essere comprato è del 22%; se l’acquirente è una impresa controllata da un numero limitato di fondi di private equità, si arriva a malapena ad una crescita 20% delle azioni della impresa oggetto di desiderio In parole povere, le public companies ad azionariato diffuso pagano mediamente di più delle altre (e quindi di guadagnare di meno dall’operazione). Il differenziale (a svantaggio delle public companies) sparisce se il manager controlla o direttamente o tramite stock options il 20% del portafoglio: tratta l’affare come proprio in quanto ha un forte interesse personale a non pagare un prezzo troppo alto per l’impresa che si vuole acquistare e spesso passano all’incasso delle loro options molto tempestivamente (in quanto hanno le informazioni per determinare il momento ottimale).
Sempre in tali casi, poi, - mostra un altro lavoro nel fascicolo - può scatenarsi un vero e proprio tormentone (si pensi al caso Telecom di queste settimane) con potenziali acquirenti che scappano; le aziende ad azionariato ristretto sembrano essere le prima a sentire puzza di bruciato ed a scappare. Un’analisi della canadese University of British Columbia (sempre su dati Usa) mette in evidenza nel 75% dei M&A i manager sono usciti dall’operazione più ricchi di quanto erano prima anche quando i loro azionisti hanno sofferto. Una spiegazione è che un M&A spesso porta la compagnia acquirente in una scala di dimensioni molto più consistente di quella in cui era precedentemente. Con il risultato che il management chiede, ed ottiene, un aumento dei compensi anche se il valore delle azioni cala a ragione ad esempio della forte leva finanziaria con cui si è fatta l’operazione. Pure in questo caso, i paralleli con vicende italiane sono fin troppo evidenti.

PRODI DOVREBBE IMPARARE LA VIRTU' DEL SILENZIO

Una soluzione, piccola ma eloquente, ai problemi economici (e politici) di queste settimane è, cari lettori, nelle vostre mani: ciascuno di voi invii a Romano Prodi a Palazzo Chigi un libro sull’elogio e sulla virtù del silenzio. C’è un’ampia gamma tra cui scegliere (in edizioni di tutti i prezzi e per tutti i gusti – dal tascabile supereconomico al libro dono con rilegatura di lusso, che, però, non verrebbe apprezzato data la notoria parsimonia del Presidente del Consiglio). Al ritorno dal Giappone, gli ho fatto trovare una vera chicca: l’Epilogo dei dogmi politici del Cardinal Mazzarino, Primo Ministro di Luigi XIV. Inizia così: “A sole due massime restringevano gli antichi filosofi la lor più sincera filosofia, e sono le seguenti: sopportati e astieniti”. E’ disponibile soltanto in francese , lingua che come è noto Prodi ha appreso in un corso accelerato nel centro di formazione dei carabinieri a Perugina e praticato a Bruxelles. Si possono scegliere testi di poeti e filosofi romani (come Virgilio, Seneca e Marco Aurelio) o della vastissima letteratura dei Padri della Chiesa (da San Benedetto a San Bernardo) oppure ancora pagine del post-moderno Michel Foucault) od ad esempio “Il silenzio di Tomaso” del teologo Bruno Forte.
Ho selezionato il breviario per i politici di Mazzarino perché il Cardinale, sulla scia di Richelieu, enfatizza l’esigenza di non mostrare ciò che non è indispensabile mettere in campo per ottenere i propri obiettivi profondi. Prodi, a sua volta, dovrebbe, al primo Consiglio dei Ministri, regalare ai 112 dell’Esecutivo (Sottosegretari compresi) parte dei libri sull’elogio e sulla virtù del silenzio da voi inviati (e che saranno tanti, auspico, da eccedere la capacità degli scaffali di Palazzo Chigi), invitandoli a tener la bocca il più chiusa possibile. Non soltanto il loro continuo sentenziare su questo o quello toglie a Silvio Sircana il poco lavoro che gli è rimasto ma – come è noto a chi conosce i rudimenti di teoria economica dell’informazione – può turbare il mercato. Con effetti devastanti.
Nei giorni scorsi, ad esempio, ha creato vero e proprio sconcerto nel mondo delle telecomunicazioni (un comparto fortemente globalizzato) tanto da spingere la AT&T a scappare dall’Italia, portandosi dietro non solo i propri capitali e tecnologia ma anche molte altre imprese straniere che stavano per investire nel Belpaese (creando valore aggiunto ed occupazione): i rapporti periodici dell’Ice (e, a livello internazionali, quelli dell’Unctad- agenzia Onu) documentano che siamo il Paese Ue con meno investimenti diretti esteri.
Altra confusione circonda la gara Alitalia – in primo momento chiamata impropriamente asta ed ora diventata un mero beauty contest : il 16 aprile sarebbe dovuta scattare alle 17 in punto l’ora zero per la presentazione di offerte tecniche e finanziaria, ma un coretto a cappella di Ministri e Sottosegretari non solo ha indicato quelli che dovrebbero essere i segretissimi contenuti finanziari delle offerte ma anche affermato, in vario modo, che nelle prossime settimane altre imprese e banche possono aggregarsi alle cordate esistenti. Frasi e parole da comportare (se qualcuno fa ricorso) il probabile annullamento da parte della Corte di Giustizia Europea.
Soprattutto in materia di “partito-aziende” (ossia un soggetto politico privo di un elettorato ma con tante aziende collaterali – Intesa Sanpaolo, le nuove Telecom ed Alitalia), Romano Prodi e la sua pattuglia dovrebbero seguire il precetto di Mazzarino. Ci rimetterebbero gli italiani in italiani. Ma se continua a parlane, ci rimetterebbe pure lui. Ed il “partito-aziende” farebbe la fine del tentativo di istituire il Partito Democratico (da cui ha già preso le distanze mezzo Ulivo e due terzi dell’Unione). Il silenzio è d’oro, lo diceva pure Maurice Chevalier in un indimenticabile film di René Clair.

REGOLE SEMPLICI SOLO PER BISCOTTI E VIVAI

Quanto costa alla collettività (ed in particolare alle imprese) la regolamentazione? E’ stato uno dei temi fondanti dell’ultima parte della XIII legislatura, quando venne varato il programma di Analisi di impatto della regolazione (Aiv), sulla scia di una strategia analoga allora al centro dell’attenzione da parte dell’Ocse. Nella XIV legislatura si è cercato di portarlo avanti, dando la priorità a deregolamentare, e delegiferare, al fine di ridurre il vero e proprio Everest di norme primarie, secondarie, terziari, decreti e quant’altro da cui rischia di essere non solo frenata ma anche schiacciata l’economia. L’idea di fondo nel 2001-2005 era non tanto di cercare di trovare un filo di Arianna per attraversare la selva oscura (di norme primarie, secondarie, terziari, decreti e quant’altro) ma di prendere un diserbante serio (come la sunset regulation) in base al quale tutte le leggi debbano hanno una validità temporale ben precisa – non si accavallano all’infinito le une sulle altre). In questa ottica si sarebbero fatte analisi rigorose di costi e benefici e di impatti (quali l’Aiv) alla collettività. A tale scopo era stato messo al lavoro un comitato per la semplificazione a Palazzo Vidoni (sede del Dipartimento della Funzione Pubblica) Gli studi iniziati nella XIII legislatura sono, tuttavia, continuati nella XIV e completati – dopo ritardi biblici- all’inizio della XV legislatura. Anni ed anni di analisi e consulenze hanno partorito un topolino: si è arrivati ad avere contezza dei costi alle imprese della regolamentazione in materia di biscotti, vivai e qualche altra piccola cosa. Adesso i consulenti lavorano sui costi ed i benefici della regolamentazione in tema di privacy, tema importante (specialmente dopo gli ultimi scandali sulle intercettazioni) ma non fondamentale per la politica economica.
Nella XII legislatura si era, come si è accennato, al traino dell’Ocse che nel 1997 aveva lanciato un programma di deregolamentazione, a completamento ed integrazione dei programmi di privatizzazione e di liberalizzazione allora in corso in gran parte dei 30 Stati membri dell’organizzazione. Le istanze stataliste hanno gradualmente inciso non solo in Italia ma anche a Château de la Muette, prestigiosa sede parigina, dell’organizzazione. Adesso di privatizzazioni e di liberalizzazioni si parla molto poco nel maniero parigino che appartenne ad André Pascal. Più raffinato il modo con cui si è declassata, in sede Ocse, la priorità della deregolazione – unica arma per tagliare il nodo della rete di regole e contro-regole che avviluppano le imprese europee. Il programma è stato trasformato in strategia per “migliorare” la qualità della regolazione”.
In Italia, sempre sulla scia dell’Ocse, il comitato per la semplificazione normativa (in effetti per la deregolazione) creato a Palazzo Vidoni nella XIV legislatura, è stato sostituito con un’architettura barocca: a Palazzo Chigi un comitato di Ministri per dare indirizzo sulla “qualità” della regolazione (il comitato si riunisce di rado) non su come sfoltirla, un tavolo permanente (in pratica intermittente) per la semplificazione, una unità per la semplificazione e la qualità della regolazione (allo scopo, pare, di chiudere il comitato nominato dal Governo precedente a Palazzo Vidoni, perdendo il lavoro già fatto), 20 esperti esterni (i soliti jobs for the boys).
L’Abi ha avuto la buona idea di mettere a confronto, esponenti Ocse e l’Ue per esaminare esperienze internazionali : il seminario (di cui è da augurarsi che gli atti vengano pubblicati e diffusi) riguardava naturalmente la regolazione (e la sua qualità) nel campo bancario e finanziario; non ha potuto, però, non toccare il quadro più vasto (ossia il metodo per calcolarne i costi). In primo luogo, è apparso che l’analisi della regolazione fatta dalla Financial services authority britannica sia ben superiore a quella delle altre agenzie: con una seria analisi costi ricavi e/o costi benefici, si possono disboscare le regole inutili da quella che i francesi chiamano la montagna legislativa. Molto criticato il modello danese, seguito (pare) dell’Italia, in quanto troppo elementare e privo del rigore economico. Del caso Italia si è parlato poco ed in termini generali. Meglio così. Le stessa analisi sui costi della regolazioni per vivai e forni non sono state pubblicate o rese di evidenza pubblica: gli addetti ai lavori sanno qualcosa sull’impatto, in termini di costi, delle regolazione sulle piantine e sui biscotti, ma poco o nulla sui settori davvero rilevanti (come le banche). Tevye, il lattaio russo, protagonista del noto romanzo di Sholom Aleichem, da cui sono stati tratti una commedia musicale ed un film diffusissimi, diceva che di una situazione del genere non ci si deve necessariamente vergognare ma non si può neanche essere orgogliosi. Il Sottosegretario Enrico Letta a cui è stata affidata questa grana (con visibilità internazionale) ha la potestà di cambiare metodo e squadra. Speriamo lo faccia presto. Ne “Il mercante di Venezia” di William Shakespeare, Porzia, travestita da avvocato, invoca the quality of mercy , la qualità della tolleranza, come argomento per sbrogliare il complesso nodo giuridico-regolatorio in cui, a fin di bene, si è ficcato il suo amato Antonio. Il mercy - lo sapeva bene Porzia – è più importante della sua qualità. Invochiamo anche noi the quality of mercy. Perché si ritorni all’obiettivo iniziale di semplificazione delle regole (senza tante costose architetture barocche e schiere di barracuda- esperti). (g. p.)

LA TECNOLOGIA SALVERA' VIOLETTA DAL SOSTEGNO PUBBLICO?

La “musa bizzarra e altera” – dice Herbert Lindeberger – è l’opera lirica, ultimo rifugio dello stile elevato, in cui dramma, musica, canto, scene e luci si fondono in una unità. E’ anche la musa che più soffre del “morbo di Baumol”, dal nome dell’economista americano che negli Anni Sessanta ha teorizzato come il sostegno pubblico fosse essenziale per tutte le forme di arti dal vivo in cui il progresso tecnologico non può incidere (e non può abbassare i costi): oggi per suonare una sinfonia di Mozart o di Beethoven ed ancor più per mettere un’opera di Verdi e Wagner ci vogliono gli stessi orchestrali e gli stessi cantanti di allora. All’epoca, musicisti e cantanti (tranne poche eccezioni) vivevano in condizioni di mera sussistenza, mentre ora reclamano (come tutte le altre categorie) contratti nazionali di base ed integrativi. In aggiunta, il pubblico non si accontenta più delle scene dipinte ed in cartapesta.
La “musa bizzarra ed altera” è destinata a sparire proprio nell’Italia dove è nata e dove ricorrono i 400 anni dalla prima rappresentazione de “L’Orfeo” di Claudio Monteverdi, l’opera che pur nata per una serata a Palazzo Ducale a Mantova uscì per diventare uno dei primi lavori di grande successo (e cassetta) nei teatri veneziani? E’ costretta a mendicare per sempre aiuto pubblico? Sono temi che richiedono un ampio dibattito, di cui si avrà un assaggio ad un seminario organizzato dall’Istituto Bruno Leoni a Milano il 3 maggio. Aspetto poco noto , però, è come una delle Fondazioni Liriche che in passato non ha goduto della migliore stampa non solo da sei anni sia l’unica in Italia a presentare bilanci consuntivi in attivo ma persegua una strategia di coniugare high tech (che abbassa i costi degli allestimenti ed amplia le possibilità di fruizione) con spettacoli mirati a riportare il pubblico all’italianissima “musa bizzarra ed altera”. Si è iniziato con un’ “Adia” importata da Washington il cui allestimento è in un paio di cd-rom (proiettati sulle rovine di Caracalla hanno effetti ben superiori a quelli nel teatro della capitale Usa), si è proseguito con un “Oro del Reno” ed una “Carmen” interamente computerizzati. Ci sono stati passi falsi (un “Attila” in cui l’high tech non ha reso quanto si pensava). Ma, con “La Traviata” in scena sino al 3 maggio (se non ci saranno repliche aggiuntive) a Roma e (in una versione leggermente differente) in repertorio al Metropolitan di New York per il prossimo quarto di secolo) si è posta (anche a detta della critica internazionale) una pietra miliare.
L’ha concepita, a 84 anni Franco Zeffirelli, che ha già al suo attivo sette differenti allestimenti dell’opera verdiana. A Roma, la vicenda del triste amore di Violetta ed Alfredo (contrastato dal padre del ragazzo, Giorgio) è mostrato in flashback (la morte di Violetta è presentata durante l’ouverture) mentre a New York si segue lo svolgimento convenzionale. In ambedue le versioni, l’impianto scenico (altamente tecnologico ed impostato su una struttura unica a tre livelli, sipari, scene dipinte e proiezioni computerizzate) e gran parte degli interpreti sono gli stessi (a Roma si alternano 3 cast). In Italia, grazie ad un sistema ad altissima definizione sia per il video sia per l’audio, la “prima” del 20 aprile è stata seguita in diretta da 12.000 spettatori in una ventina di sale di provincia – un’attività che il teatro della capitale vuole ripetere per aumentare la fruizione degli spettacoli ed attirare nuovo pubblico e che verrà replicata (con un collegamento in diretta internazionale) per alcuni spettacoli del Festival verdiano di Parma in ottobre.
E’ una “Traviata” grandiosa e curata nei minimi dettagli (anche in vista della sua programmazione pluriennale). La vicenda non viene attualizzata ai giorni nostri (come in edizioni recenti) ma calata nella metà Ottocento. Abili i giochi di luci e di colori che rispecchiano partitura e stati d’animo: al terzo atto al verde luminoso del giardino si passa al rosso ed al nero della festa ed al un grigio e bianco spettrale del concertato finale. Importante il ruolo degli specchi, anche esse computerizzati; che in alcuni momenti chiave, danno l’illusione di portare platea e palchi in palcoscenico. La caratteristica di questa ottava “Traviata” zeffirelliana è la carica sensuale: baci ed amplessi dominano il rapporto tra i giovani protagonisti. Quindi, anche Gianluigi Gelmetti offre una concertazione sensuale della partitura, dilatandone i tempi nei momenti chiave. In altra sede, mi sono soffermato sugli aspetti artistici e sulla vocalità del lavoro. In questa è importante sottolineare come la tecnologia può ridurre i costi e portare nuovo pubblico ad un settore, tradizionalmente italiano, e da anni a rischio di essere considerato un reperto da museo.
E’ necessaria ma non sufficiente. L’altro elemento essenziale è introdurre competizione e concorrenza anche tra fondazioni finanziate da Pantalone ed incoraggiare circuiti integrati tra i più piccoli teatri di tradizione. Ma di questo ne parleremo in un altro intervento su “L’Occidentale”)
Scheda La Traviata- melodramma in tre atti di Francesco Maria Piave musica di Giuseppe Verdi
Regia e scene: Franco Zeffirelli.
Costumi: Raimonda Gaetani.
Maestro concertatore e direttore d’orchestra: Gianluigi Gelmetti
Protagonisti: A. Georghiu/Irina Lungu/Myrtò Papatanasiu/Anna Rita Talento, Vittorio Grigòlo/ Marius Brenciu/ Alfredo Postilla; Renato Bruson/Paolo Coni/ Dario Solari.
Al Teatro dell’Opera di Roma sino al 3 maggio. Un allestimento analogo entra in repertorio al Metropolitan di New York.
Per approfondimentiLeon A.F., Tuccini V. “La crisi delle fondazioni liriche: un problema solo gestionale?” in “Economia della Cultura” n. 1/2006 Il Mulino
Pennisi G. “Le tribolazioni delle musa bizzarra e altera- l’economia in crisi del teatro lirico italiano: cause e rimedi” in “Musica” aprile 2006
Trimarchi M. e Ponchio R. “I fantasmi dell’opera: la lirica in Italia ed in Francia tra palcoscenico e massa media” in (a cura di De Carlo M..) “I mercati della lirica: strategie per l’organizzazione e la crescita” Utet, 2004
23 Aprile 2007 opera lirica traviata zeffirelli Cultura

venerdì 20 aprile 2007

IL PARTITO AZIENDE DI PRODI COSTA CARO ALLA COLLETTIVITA'

Per Romano Prodi più importante del Partito Democratico, a cui si sta tentando di dare vita in questi giorni, è “partito-aziende”- un soggetto politico che, per la pattuglia di fedelissimi portati in Parlamento avrebbe la propria forza non nel suffragio elettorale ma in una rete di aziende ad esso collaterali. E’ un disegno non condiviso affatto dal resto del sinedrio dell’Unione a cui va benissimo un Presidente del Consiglio debole a cui si può dare lo sfratto da Palazzo Chigi quando ci sono altri inquilini (sempre a sinistra) pronti a subentrare.
Il primo blocco del “partito-aziende” è stato messo con la fusione Intesa- San Paolo. Un banchiere serio come Giovanni Bazoli, in interviste concesse negli ultimi giorni, non ha fatto mistero né dei suoi collateralismi bolognesi né dei ripetuti inviti a entrare in politica attiva a cui ha risposto sostenendo di essere più utile come fiancheggiatore che come attore.
La banca di Prodi (chiamiamola così) si sta rivelando molto importante nel dipanare la matassa Telecom. Dopo il ritiro di AT & T, Intesa. San Paolo potrebbe diventare il “cavaliere bianco” a garanzia dell’italianità dell’ex-monopolio, nonostante le mire (e la liquidità) dei messicani (rimasti ancora in campo). Sotto il profilo economico, non soltanto non si abbandona il programma, peraltro piuttosto ragionevole, di dare vita a quello che potrebbe diventare un “campione europeo” se Intesa- San Paolo fa da collante ad una cordata industriale in cui potrebbero entrare anche gruppi che non hanno grande simpatia per Prodi e la s.p.a. spagnola delle telecomunicazioni. L’intervento dell’istituto finanziario vicino alla pattuglia del Presidente del Consiglio (se ci sarà), porrebbe un’ipoteca di collateralismo anche sulla nuova Telecom, quale che sia la compagine azionaria.
Su un altro fronte, il recente contratto Eninftgaz (la joint venture Eni-Enel – ah quelle partecipazioni statali sempre nel cuore di Romano Prodi e della sua squadra!) per bocconi appetitosi della ex-Yukos sta diventando la leva per un’altra componente importante del “partito- aziende”; l’Alitalia, compagnia anche essa sempre presente nei sogni di suoi fedelissimi come Giovanni Bisignani e Alessandro Ovi. Ai russi - è noto- piace il baratto: se Eninfgatz assapora le parti più succulente della ex-Yukos perché alzare barriere ai piani (non tanto segreti) che Aeroflot ha per Alitalia (farla diventare un linea di superlusso, dando una tagliata ai rami in perdita o a bassa redditività)? Potrebbe essere anche più promettente (sotto il profilo del “partito-aziende”) di una vendita dell’Alitalia all’Air One.
Ai politologi l’ardua sentenza sui meriti e demeriti del “partito-aziende”. Agli economisti, una riflessione: i suoi benefici alla collettività sono difficili da individuare mentre il suo costo è facilmente stimabile, soprattutto in termini di posti di lavoro (la riorganizzazione delle rete Intesa Sanpaolo già in atto, il riassetto di Telecom chiesto dalla banca di Prodi a voce ancor più alta di quella degli americani e dei messicani, una cura dimagrante siberiana per Alitalia). Quanti? Almeno sui 30-50 mila. I 20 maggiori istituti di previsioni econometriche prevedono un aumento del tasso di disoccupazione , ora al 6,5% della forza lavoro, nel 2008. Risultato del “partito-aziende” di cui si stanno tessendo le fila nelle merchant bank di Palazzo Chigi (dove di questi tempi si parla bene l’inglese e si parlotta pure un po’ di russo)?

BONINO ALLE PROVE DI DOHA

Emma Bonino è alla guida di un dicastero diventato eminentemente economico, ed in quanto tale concorrente (almeno sul piano delle idee) del conglomerato di cui è titolare TPS, ma in cui il posto del conducente è stato richiesto (ed ottenuto) da Vincenzo Visco. Non è una economista (peraltro non lo è neanche Visco) ma la ha introdotti alla “triste scienza” il suo fidatissimo Paolo Reboanti. Elemento chiave: la lettura del libro di Diane Coyle (con cui ha molti tratti in comune) “The soulful science: what economists really do e why it matters” (“La scienza dell’anima: cosa fanno gli economisti per davvero e perché il loro lavoro conta”) appena pubblicato dalla Princeton University Press. E’ un’utile, anzi utilissima, introduzione ad utilizzare con passione gli strumenti della disciplina.
Tra le tante tematiche economiche alla sua attenzione, quelle europee e quelle del commercio internazionale (e dell’internazionalizzazione del sistema Italia in senso lato) hanno la priorità. Quasi tutti i suoi colleghi si occupa d’Europa. Quindi, deve trovare un tratto distintivo. Anche se non ha ancora prodotto un Pico (Programma per l’innovazione, la competitività e l’occupazione) come hanno fatto Giorgio La Malfa e Paolo Savona (inquilini precedenti nelle stanze che adesso lei ha in comodato), l’”agenda di Lisbona” è il filo conduttore. A riguardo, Reboanti le ha indicato un saggio di Deborah Mabbett e Waltraud Shelkle (della sua Alma Mater londinese) su "Bringing Macroeconomics Back into the Political Economy of Reform: The Lisbon Agenda and the 'Fiscal Philosophy' of EMU" (“Portare la macroeconomia nell’agenda politica delle riforme : l’agenda di Lisbona e la filosofia fiscale dell’unione monetaria” pubblicato nel fascicolo di marzo del Journal of Common Market Studies. Al di là degli aspetti più squisitamente tecnici, il saggio mostra come puntando sull’Agenda di Lisbona ci si incunea nelle materie in cui molto sui colleghi di Governo (quelli della sinistra radical-conservatrice) non vorrebbero fare passi in avanti ma anzi tornare indietro: il percorso riformatore in materia di mercato del lavoro, della previdenza, delle tasse e delle imposte, delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni. Micheal S. Knoll nella University of Pennsylvania fa un ragionamento analogo nel lavoro “Taxes and Competitiveness" (“Tasse e competitività”) – in sintesi Visco fa male alla competitività (quindi sarebbe bene che TPS, tra un viaggio a Parigi e l’altro, si riappropri dello scettro portatogli via). Reboani non le mostra , però, - il pretesto è che c’è troppa alta matematica- il lavoro di Susan Basu, John Ferland e Miles Kimball (nell’ultimo numero dell’ American Economic Review) in cui mettono in questione strategie come quelle di Lisbona sostenendo (con un’analisi econometrica articolata su 60 anni) che le politiche per il progresso tecnologico possono frenare la crescita.
L’attenzione sull’Europa non riduce quella sui più vasti aspetti dell’internazionalizzazione , soprattutto sul negoziato multilaterale sugli scambi (Doha development agenda, Dda) da mesi in fase di stallo. Un saggio di Sam Laird
"Economic Implications of WTO Negotiations on Non-Agricultural Market Access" (“Implicazioni economiche del negoziato in termini di accesso al mercato per i prodotti non agricoli “) apparso su “The Wold Economy”) la ha davvero interessata: quantizza in 70-150 miliardi di dollari i benefici di un esito positivo della trattativa. Queste stime includono unicamente la liberalizzazione del commercio di merci . Non i guadagni (per tutti) della liberalizzazione nel campo dei servizi. Sarebbero ancora più consistenti.



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mercoledì 18 aprile 2007

PRIVATIZZAZIONI: ESPERIENZA DEL PASSATO, LEZIONI PER L'AVVENIRE

1. Premessa

Il processo di privatizzazioni in Italia è iniziato negli Anni Novanta. L’avvio è stato arduo (a ragione, principalmente, delle difficoltà di trovare un’adeguata impalcatura giuridico istituzionale) sia i notevoli successi in termini di esiti finanziari ottenuti da cessioni e da collocamenti (Pennisi, Zecchini, 2001). Tali successi, in gran misura attribuibili alla fase di “esuberanza irrazionale” che ha caratterizzato i mercati finanziari negli Anni Novanta (soprattutto nella seconda metà del decennio , Schiller 2005) , non sono stati , però, accompagnati da risultati paragonabili in materia di liberalizzazioni effettive; sovente i monopoli pubblici sono stati sostituiti da conglomerati privati in posizione dominante in un fase in cui pure le stesse Autorità di regolazione, peraltro di recente istituzione erano in condizioni di non facile decollo. Alla fine del 20simo secolo, il sistema produttivo italiano appariva in gran misura privatizzato ma anche ingessato; questa si è rivelata una determinante della perdita di competitività progressivamente avvertitasi nei primi anni del 21simo secolo (Istituto del Commercio per l’Estero, 2005; Ministero delle Attività Produttive, 2003,Visco, Toniolo 2004) Nella primo anno della legislatura iniziata nel giugno 2001 (Pennisi, Zecchini 2002), da un lato, veniva accentuata la centralità delle privatizzazioni nei programmi di governo (Ministero dell’Economia e delle Finanze, 2001). Da un altro, però, dalla primavera del 2000 i mercati finanziari erano entrati in un periodo di difficoltà che si sarebbe esacerbato dopo l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001; le Borse segnavano marcate perdite di valorizzazione che rendevano difficili o poco appetibili collocamenti sul mercato. Il quadro generale non incoraggiava neanche le cessioni dirette.
E’ rimasta, però, una la mancanza di chiarezza sugli obiettivi e sul loro peso relativo: a) le esigenze di “fare cassa” per ridurre il fardello dello stock del debito pubblico, a cui sono destinati i proventi delle privatizzazione; b) la riduzione dell’intervento pubblico per favorire il mercato, c) la necessità di migliorare l’efficienza delle imprese sia private sia di recente privatizzazione sia ancora controllate dalla mano pubblica ; d) la liberalizzazione dell’economia italiana nell’ambito di più vaste riforme di cui le privatizzazioni sono unicamente una delle componenti. Ciò si è verificato anche negli altri ai principali Paesi dell’Unione Europea (Belke, Baugmärtner, Schneider, Setzer, 2005). Senza chiarezza sugli obiettivi e sul loro peso quantitativo è virtualmente impossibile effettuare una valutazione economica tanto della politica e strategia di privatizzazioni quanto delle singole operazioni di denazionalizzazione. Si può solamente fare un’analisi finanziaria dal punto di vista delle aziende acquirenti e degli introiti che le privatizzazioni comportano per l’erario.
L’obiettivo che è prevalso, e prevale, nelle classificate pubblicate periodicamente da parte dell’Ocse, del Fondo Monetario e da istituti privati (quali quelli che curano il sito web www.privatization.org, sempre molto aggiornato ).è stato, in pratica, quello di fare cassa. Ove fossero state messe in atto procedure di valutazione, si sarebbe forzato un chiarimento degli obiettivi e delle priorità (Pennisi-Scandizzo, 2003; Pennisi-Scandizzo, 2006).
Questo lavoro esamina le privatizzazioni nella XIV legislatura e nel primo scorcio delle XV legislatura e delinea come la mancanza di trasparenti metodi di valutazione sia alla base del rientro in forza, sulla scena italiana, dell’intervento pubblico anche in settori privatizzati (come le telecomunicazioni, comparto di grande rilievo per il benessere sociale del Paese, Ho Lee, 2006) od in corso di privatizzazione (come il trasporto aereo) – temi all’ordine del giorno delle cronache di queste settimane.

2 Le privatizzazioni nella XIV legislatura . Orientamenti generali.

Nel 2001, per la prima volta dalla costituzione del Regno d’Italia è risultata vincente alle elezioni politiche una coalizione il cui programma di governo faceva perno sulla liberalizzazione dell’economia ( e quindi anche sulle privatizzazioni.). Al tempo stesso, però, l’economia europea, è entrata in una fase di rallentamento con tendenza alla stagnazione. Ciò ha avuto un effetto immediato: i ricavi di privatizzazione in Europa sono crollati da 650 miliardi di dollari tra il 1990 al 2000, ad appena 38 milioni di dollari nel 2001. Sono rimasti attorno a tale livello nel 2002 e nel 2003 per sfiorare di nuovo i 50 miliardi di dollari nel 2004[1] Tra privatizzazioni e andamento dei mercati finanziari sussiste un nesso molto forte: da un lato, le privatizzazioni sono un veicolo essenziale per ampliare ed irrobustire la capacità dei mercati finanziari, nonché la capitalizzazione stessa dei mercati azionari; dall’altro lato, uno dei primi effetti dei ribassi generalizzati delle quotazioni è la minore propensione al rischio, e, dunque, la ridotta disponibilità degli operatori ad investire in imprese in via di privatizzazione. Ciò vale specialmente in un contesto di “incertezza valutativa regolatoria” in cui non sono chiare importanti implicazioni (in termini di metodi per la selezione del management, vincoli relativi ai livelli occupazionali, strategie di prezzi e tariffe, mercati di sbocco, concorrenza interna ed internazionale) Nel Dpef per il periodo 2002-2006 venivano tracciati gli obiettivi dell’azione da sviluppare nell’intera legislatura e si fissano alcuni criteri per il loro raggiungimento. L’obiettivo a cui si dava preminenza era realizzare introiti per il bilancio pubblico; questi sono quantificati in circa € 62 miliardi. Vi si affiancavano due esigenze di politica industriale: “rafforzare gli assetti produttivi nazionali e migliorarne l’efficienza”. Tali obiettivi di politica industriale sono rimasti immutati nel corso della legislatura (Ministero delle Attività Produttive 2003, Pennisi 2005a e 2005b) . Il Dpef dava per la prima volta risalto all’esigenza di privatizzare e liberalizzare servizi pubblici e di pubblica utilità a livello locale. Rispetto all’obiettivo di proventi da privatizzazione di 62 miliardi proposto sono stati realizzati introiti per circa 45 miliardi (includendo un 5-6 miliardi di introiti da dismissioni del patrimonio immobiliare ed i ricavi da cessioni del Gruppo Iri/Fintecna)[2]. L’avvio è stata molto lento: pochi introiti nel 2002 (quando tuttavia è stata effettuata un’operazione di importanza strategica, la vendita della residua partecipazione dello Stato nella Telecom), un’impennata significativa nel 2003 quanto raggiunsero i 16.6 miliardi di euro (grazie principalmente alla vendita dell’Ente tabacchi italiano, di cessione di quote del capitale Enel ed Eni alla Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) ed alle vendita di parte del capitale della Cdp alle Fondazioni bancarie), un livello complessivo circa 8 miliardi di euro nel 2004 (da imputarsi in gran misura alla vendita della terza tranche Enel) ed una stima di circa 15-17 miliardi di euro (di cui 12 miliardi di euro proveniente dalla quarta tranche della privatizzazione dell’Enel ed il resto da dismissioni immobiliari) nel 2005.
Nella seconda metà degli Anni Novanta, l’entità quantitativa (misurata in dollari Usa) dei ricavi da privatizzazioni in Italia sul totale mondiale è stata attorno al 10% l’anno (con un’impennata al 17% nel 1997[3]); nei primi quattro anni del 21simo secolo, tale indicatore si è posto sul 15% l’anno mediamente ed ha toccato il 34% nel 2003 e nel 2004. Questo indicatore suggerisce che verosimilmente le condizioni del mercato non consentivano di ottenere risultati significativamente maggiori. Per questa ragione, l’incidenza delle privatizzazione sul rapporto tra stock di debito pubblico e pil è stata, tutto sommato, abbastanza modesta. E’ importante sottolineare che l’aumento della quota dei profitti sul valore aggiunto registrata negli Anni Novanta e nel primo lustro del nuovo secolo riguarda in gran misura il settore privato non manifatturiero ; è, quindi, plausibile l’ipotesi che sia imputabili alle privatizzazioni ed alla ristrutturazioni aziendali che le hanno precedute (Torrini, 2005), nonché a rendite di posizione mantenute da imprese de-nazionalizzate. In effetti, appare evidente che la grande industria italiana non ha colto la finestra di opportunità aperta delle privatizzazioni: invece, di ampliare la propria base ha chiaramente rincorso il sedersi sulla rendita. Senza, peraltro, raggiungere risultati duraturi- come mostrato dalle vicende della Telecom di questi ultimi anni. E settimane.
A questo aspetto finanziario, si aggiunge il cambiamento di atteggiamento da parte degli investitori; la delusione, ove non il vero e proprio scetticismo nei confronti delle imprese di recente denazionalizzazione (in particolare le banche ed alcuni servizi pubblici, le cui valorizzazioni azionarie sono diminuite quasi poche settimane dopo l’euforia dei collocamenti), nonché il crescente favore nei riguardi di nuove forme di parteniarato pubblico-privato , specialmente in comparti o settori, come l’energia, ritenuti, a torto od a ragione, di importanza strategica. Non è fenomeno solo italiano od unicamente europeo (per una rassegna di metodologie ed esperienze, Stern and Seligman , 2004) anche se nel nostro Paese si è pure meditato seriamente sull’assetto giuridico-normativo (Chiti, 2005) che assicuri governance efficiente ed efficace anche nel rispetto di obiettivi di politica pubblica. Alcune esperienze di partenariato pubblico-privato promuovano la liberalizzazione dell’economia e della società anche più di quanto non riescano a fare le privatizzazioni (Rennebogg L., Simons T, 2005; Yaya, 2005) .


3. Le caratteristiche salienti delle privatizzazioni nella XIV legislatura

Gli aspetti salienti delle privatizzazioni si colgono nelle pagine 37-39 dedicate all’argomento nel Dpef del 2004 (Ministero dell’Economia e delle Finanze, 2004), il penultimo della legislatura. Vengono specificati quattro criteri di valutazione: finanziario – ossia tanto fare cassa quanto redditività di lungo periodo-, sostenibilità, equità, attenzione alle attività strategiche. Non viene precisato, però, il peso relativo di ciascuno dei quattro criteri: è più importante la redditività o l’equità, oppure ancora la sostenibilità ovvero l’attenzione alle attività strategiche? Unicamente precisando pesi relativi si può ricavare quella che gli economisti chiamano la “funzione obiettivo” del policy maker e da essa derivare un sistema cogente di prezzi ombra (Pennisi, Scandizzo, 2003).. Non è mera questione di lessico o di eleganza accademica; senza tale “funzione” è difficile valutare, sia ex ante sia soprattutto ex post, se siamo alle prese con privatizzazioni effettive e realmente inserite in un quadro di liberalizzazioni tale da favorire accumulazione di capitale e crescita (Mendez, Glom 2005; Tabellini, 2005). Inoltre, occorreva dare corpo (ossia specificità e valutabilità) a ciascuno degli obiettivi: cosa si intende, ad esempio, per “attenzione alle attività strategiche” affinché con il termine non si intenda dire “privatizzazioni recalcitranti” come è suggestivamente intitolato un lavoro della Fondazione Eni Enrico Mattei (Bortolotti, Faccio 2004) sulla struttura di controllo di un vasto campione di imprese privatizzate nei Paesi Ocse negli Anni Novanta: al 2000, nel 62,4% di queste imprese la mano pubblica esercitava ancora il controllo (tramite golden share od altre forme). Ancora una volta ciò suggerisce che se le politiche pubbliche sono state carenti in materia di valutazione
A questo proposito interviene l’altro aspetto fondante: la “corporate governance”. Mark J. Roe (2004) pone il problema a tutto tondo: le public companies all’anglosassone (a cui si dice di mirare nei programmi di privatizzazione) sono realisticamente possibili in socialdemocrazie all’europea (di cui l’Italia è un esempio) in cui attenzione dei manager è rivolta più all’espansione (ed ai “lavoratori marginali”) che al profitto (ed agli “azionisti marginali”)? Tre aziendalisti della Università Erasmus a Rotterdam (Brounen, de Jogn, e Koedijk, 2004) confermano, sotto il profilo della struttura finanziaria di 313 imprese europee, le conclusioni di Roe. In parallelo, la “nuova” teoria giuridica della natura dell’impresa (Stout, 2004) che smussa le paratie tra public company e “nocciolo duro” e, quindi, le diatribe che hanno accompagnato gran parte delle privatizzazioni degli Anni Novanta. A questo riguardo occorre sottolineare che negli ultimi anni è stato fatto notevole progresso in materia di “corporate governance” con il complesso di norme che va sotto il nome di “Legge Vietti” ed i cui effetti si avvertiranno solo gradualmente e nel medio e lungo periodo.
. Già nell’estate 2004 , tuttavia, si dubitava sulla capacità dei mercati finanziari, tanto italiani quanto stranieri, di mettere a disposizione 100 miliardi euro nel quadriennio per privatizzazioni in Italia (e, soprattutto, una prima tranche di 20 miliardi entro la fine dell’anno). Appariva già allora a maggior ragione essenziale precisare cosa si intendesse per “attività strategiche” e quale è il peso relativo nella funzione obiettivo del policy maker in materia di privatizzazioni. Tanto più che da un’analisi empirica condotta dalla Banca d’Italia (Committeri, 2004) si ricavava che per attirare investimenti stranieri in Italia occorre rimuovere “barriere ambientali” (quali le “arretratezze istituzionali e strutturali). La conclusione è confermata anche da un lavoro più recente (Basile ., Benfratello ., Castellani . ,2005)
Alla fine della XIV legislatura, restavano molti altri nodi. In primo luogo, la mancata liberalizzazione dei servizi pubblici locali. Quasi all’inizio della legislatura, una raccolta di saggi, frutto di una importante conferenza scientifica internazionale, curata dalla Banca d’Italia indicava quanto si potesse, e si dovesse, fare per migliorare, con privatizzazioni e soprattutto liberalizzazioni , l’efficienze nei servizi pubblici locali (Banca d’Italia, 2002). Tre anni dopo una ricerca supportata dal Cnr ed a cui hanno contribuito specialisti interdisciplinari, sottolineava il divario tra il progresso effettuato dalle discipline sia giuridiche sia economiche sia organizzative in questo campo e “la dura realtà”: “attuare per legge processi di riforma così delicati che coinvolgono rapporti economici ed istituzionali così radicati, come l’esperienza delle municipalizzazioni ci ha mostrato, richiede una sensibilità politica capace di interpretare con efficacia le esigenze di mediazione economica e sociale che si presentano nella realtà territoriale, che gli orientamenti normativi devono saper recepire (Termini, 2004, p. 22). Progressi concreti si sarebbero potuti fare stabilendo obiettivi puntuali economici e finanziari e programmi specifici per i servizi pubblici (Boyne, Law, 2005) ma si sono fatti addirittura passi indietro, prevedendo come normale l’utilizzazione di società di capitali equiparate ad un servizio interno dell’ente territoriale (De Vincenti, Termini, Vigneti, 2005).
In secondo luogo, la ristrutturazione del sistema finanziario, non solo la riforma della tutela del risparmio. Le fondazioni bancarie restano al cuore del sistema finanziario italiano, anche se sono soggetti né propriamente pubblici né veramente privati, pur se protagoniste di una importante operazione, ovvero il passaggio di proprietà del 30 per cento della Cassa depositi e prestiti (Cdp), una privatizzazione limitata ove non spuria (Scarpa, 2004) In terzo luogo, l’Alitalia è un'impresa tecnicamente fallita, da tempo tenuta in vita, tramite garanzie pubbliche ed ora (come si vedrà al para.6 in corso di denazionalizzazione.
Tracciando un bilancio in poche righe, il processo di privatizzazioni e liberalizzazioni in Italia nella XIV legislatura appare avere avuto risultati finanziari maggiori di quelli riscontrati nello stesso periodo nel resto d’Europa, ed in particolare negli altri Paesi dell’area dell’euro, ma di essere impattato in difficoltà analoghe a quelle con cui si sono scontrati gli altri Paesi europei in materia di riforme (Pennisi, 2005b). Ancora una volta, è mancato un metodo di valutazione e della strategia e delle singole operazione che non fosse quello delle entrate apportate all’erario e del rispetto di alcuni vincoli a carattere sociale (come il mantenimento dei livelli occupazionali).

4 La tematica delle privatizzazioni all’inizio della XV legislatura . Orientamenti generali.

La coalizione di centro-sinistra ha vinto le elezioni del 2006 per pochi voti, è fortemente divisa tra le sue varie componenti e non ha le privatizzazioni tra le sue priorità. Il Dpef, 2006-2011 del luglio 2006 (Ministero dell’Economia e delle Finanze, 2006) dedica unicamente poche righe alle privatizzazioni , affermando, essenzialmente, che l’Esecutivo appena giunto in carica non può “fornire una quantificazione, perché in assenza di operazioni già pianificane dal precedente Governo occorre prima procedere ad una valutazione delle opzioni strategiche relative alle dismissioni del patrimonio residuo dello Stato (Dpef, 2006, p. 161)”.
Tale giustificazione è di per se stessa fragile. Occorre esaminarla sia dal lato della capacità del mercato di assorbire nuove denazionalizzazioni sia dal lato della consistenza del “patrimonio residuo dello Stato” da potere essere offerto sul mercato. La liquidità è in rapida espansione: a livello mondiale nel 2003-2005 risulta aumentata del 20% - il tasso di incremento più alto rilevato dal 1974-75. Inoltre, nonostante la bassa crescita economica, gli utili delle s.p.a. sono pingui: nel 2006, in Italia sono stati erogati dividendi per quasi 30 miliardi di euro con un tasso di rendimento contabile spesso superiore al 3% (Torrini 2005) . Nel 2006, le Borse hanno segnato risultati eccellenti anche in Paesi dove la crescita reale è stata lenta: aumenti degli indici, se computati in dollari del 30% nell’area dell’euro (di oltre il 18% se calcolati in moneta unica europea), ossia quasi il doppio circa di quelli derivati nel 2005[4]. Quindi non fa difetto la potenziale domanda di acquisto di cespiti che si decida di denazionalizzare (Kelooharju M., Knüpfer S. Torsytila S.,2007).
Per quanto attiene il “patrimonio residuo dello Stato” , il Dpef 2006-2009 e la legge finanziaria del 2005 prevedevano un’accelerazione del programma di dismissioni; l’accento era sulla cessione di ulteriore quote di Enel, di Eni e di Finmeccanica con la prospettiva di ottenere proventi per 30 milioni di euro nel 2006 e di mettere sul mercato, in una seconda fase (ma non troppo lontana nel tempo), anche la Rai e le Poste. La differenziazione temporale veniva spiegata con il fatto che Enel ed Eni sono già quotate in Borsa e, quindi, il collocamento di ulteriori quote è più agevole; è stata esclusa l’ulteriore impiego di “transiti” o “parcheggi” più o meno lunghi presso la Cdp. La privatizzazione di Rai e Poste ha anche delicati aspetti politici come documentato da un’analisi effettuata dalla Banca Mondiale (Kenny, 2005).
In effetti, la sequenza (Pennisi, Scandizzo, 2006) della politica economica del Governo Prodi prevedeva una fase orientata al risanamento dei conti pubblici seguita da una fase di riforme atte ad accelerare la crescita economica; le privatizzazioni e le liberalizzazioni sarebbero state elemento di tale seconda fase. Un anticipo di tale fase di riforme veniva dato in estate con il cosiddetto “decreto Bersani” (Decreto Legge del 4 luglio 2006) che riguardava alcune misure davvero minute . Nel Dpef del luglio 2006, le riforme su cui veniva posta enfasi (ma di cui non si specificavano i contenuti) riguardavano la previdenza, la sanità, il pubblico impiego e l’ammodernamento delle infrastrutture, non ulteriori privatizzazioni. Nell’ultima fase della precedente legislatura, tuttavia, si era provveduto ad una ricognizione del valore delle attività dello Stato valutate a prezzi di mercato. Tale ricognizione evidenziava un “valore residuo” pari a circa il 130-140% del pil, rispetto ad uno stock di debito pubblico pari al 106% del pil. (Camera dei Deputati, 2005). Una parte consistente di queste attività veniva detta “valorizzazione di medio periodo” in grado, pertanto, di essere collocata sul mercato per un controvalore di 400 miliardi di euro. All’inizio della XV legislatura c’era ampio spazio, quindi, per una politica attiva di privatizzazioni. Ciò avrebbe consentito di poter, nel medio termine, abbattere in misura significativa il peso dello stock del debito pubblico sull’andamento dell’economia dell’Italia, anche nell’ipotesi che la riduzione del debito pubblico fosse l’unico obiettivo delle privatizzazione ed il solo criterio implicito per la loro valutazione. Non avere voluto perseguire questa strada rappresenta, pertanto, una scelta precisa di politica economica che sta ponendo nuovi freni all’economia italiana (Barca, 2006; Bortolotti, Perotti, 2005).

5. Le liberalizzazioni e le privatizzazioni dei servizi pubblici locali.

Le liberalizzazioni sono state sino ad ora così modeste da non incidere, al margine, sull’economia italiana e sul suo andamento [5] La parte più importante dovrebbe riguarda i servizi pubblici locali. Il ddl 772/66– che va sotto il nome di “legge Lanzillotta” dal nome del Ministro che ne ha predisposto il testo – prevede la privatizzazione di trasporti, gas, acqua, nettezza urbana e via discorrendo ed indica procedure d’asta perché tale privatizzazione avvenga in modo efficiente e trasparente. Tuttavia, è stato praticamente accantonato il programma di liberalizzazione (prima ancora che di privatizzazione) nel settore delle acque: è amaro constatare che, mentre gli acquedotti italiani restavano di modeste proporzioni e scarsa efficienza Francia, Germania e Gran Bretagna hanno creato colossi del settore (Comelli, 2007).
Nel resto del settore dei servizi pubblici locali che c’è ampio spazio per privatizzare e liberalizzare. Dalla seconda metà degli Anni Novanta, la “gestione diretta” da parte degli enti locali è stata sostituita da una progressiva trasformazione di municipalizzate dotate di personalità giuridica e spesso organizzate in quanto s.p.a. (Banca d’Italia, 2002; Termini, 2005). Secondo Conservizi (Conservizi 2004), nel 1997 solo 57 loro affiliate erano s.p.a., mentre ne erano 448 alla fine del 2002, 650 alla fine del 2003 e 710 nel 2004. Appena 24 di tale totale era passata sotto controllo di privati, nel 24% delle municipalizzate il capitale privato e presente ma minoritario e nel 73% l’ente locale mantiene il controllo totale. Molti enti locali sono restii a privatizzare: gli utili delle municipalizzate (risultato di posizioni dominanti ove non di monopoli) sono una fonte di finanziamento (pure di spese di parte corrente, come gli stipendi) a cui ricorrono per contro-equilibrare le riduzioni dei trasferimenti dallo Stato (Barocci, Pierobon, 2006).
Nelle consultazioni tra Governo centrale ed autonomie locali, nessuno ha sollevato due temi di rilievo: a) l’interazione tra privatizzazioni e liberalizzazioni e b) il quadro europeo. In primo luogo, occorre evitare di ripetere l’errore degli Anni Novanta quando le privatizzazioni di grandi gruppi a partecipazione statale venne effettuata prima di un quadro ben definito di liberalizzazioni, innescando la sequela di problemi che ha condotto, ad esempio, alle vicende Telecom di questi giorni. Liberalizzare i servizi pubblici locali è ancora più arduo (come si è indicato), ma è fattibile, come provano, da anni studi di Banca mondiale; specialmente nel settore dei trasporti si possono mettere in concorrenza varie modalità e varie tipologie di servizio nell’ambito della medesima modalità. Un piccolo tentativo in questo senso iniziato[6] a Roma nel 2000 è terminato dopo pochi anni a ragione della ostilità della municipalizzata. In secondo luogo, si devono portare i sussidi (specialmente nel comparto trasporti) alla media europea. Altrimenti non solo avremmo censure nell’Ue, ma salterebbe il patto di stabilità interno (Reviglio 2006). Mai , come nel settore dei servizi pubblici e dalla loro privatizzazione, sarebbe auspicabile un’attenta valutazione dei costi e dei benefici economici e finanziari estesa alle opzioni reali degli stakeholder coinvolti sul tipo del metodo seguito dalla Fondazione Ugo Bordoni , per conto del Ministero delle Comunicazioni, ai fini della valutazione finanziaria ed economica della transizione da televisione analogica a digitale terrestre (Cioffi, Palambini, Pennisi, 2006).

6. La vendita dell’Alitalia

Dato che la denazionalizzazione della Rai e delle Poste (nonché ulteriori collocamenti sul mercato di azioni dell’Enel e dell’Eni e la vendita della residua quota dei Finmeccanica in mano allo Stato) sembrano accantonate, la vendita dell’Alitalia (in cantiere da tempo) è la maggiore privatizzazione attualmente in campo e l’atto di politica industriale (e del manifatturiero ad alta tecnologia) che caratterizzerà la XV legislatura. L’atmosfera non è molto differente da quella che aleggiava ai tempi del “gioco dell’Opa” in cui era in palio il controllo della Telecom – il principale evento di politica industriale del Governo D’Alema. Molti i punti in comune: posizione dominante in numerosi segmenti del mercato, alta tecnologia, possibilità di convergenza con altri comparti. La differenza principale è che i conti Telecom apparivano in buono stato (nonostante la forte leva finanziaria) mentre l’Alitalia è ,secondo alcuni economisti e giuristi, avrebbe dovuto, da tempo, portare i libri in tribunale (Scarpa, 2004) ed iniziare una procedura formare di fallimento.
L’essenza del parallelismo sta in un aspetto tecnico-procedurale della gara Una lettura attenta del bando relativo alla richiesta di intenzione di acquisto mostra che è in corso non un’asta (come più volte annunciato dallo stesso Presidente del Consiglio) ma un beauty contest (Dimitri, Piga, Spagnolo, 2006) – il termine tecnico con il quale vengono definite le gare per commesse pubbliche o vendite a privati di beni sotto il controllo dello Stato quando vengono effettuate tramite una procedura di spogli successivi. La procedura è mirata ad individuare , tra gli aspiranti acquirenti, quello con i requisiti e la proposta (sia tecnica sia finanziaria) che più si avvicinano all’idea che la stazione appaltante ha di quanto sia da considerarsi ottimale. La “bellezza” in palio viene definita a poco a poco, specialmente quando si ha a che fare con un bene o servizio di cui è difficile descrivere le caratteristiche. Ciò è frequente nel caso di beni o servizi con una forte componente immateriale (come l’umts e la telefonia mobile) dove è difficile stendere un capitolato dettagliato dotato di un computo metrico puntuale. Per l’Alitalia, si è scelto il beauty contest ,invece che l’asta, o per la difficoltà di redigere un capitolato dettagliato o per la volontà di dare un ampio margine di manovra alla commissione di aggiudicazione oppure ancora per varie combinazioni di queste determinanti . Viste le cordate che si profilano, ed il ruolo di banche e finanziarie collaterali a questo o a quel gruppo politico , non occorre essere maligni per ritenere che il desiderio di avere un ampio margine di scelta sia entrato nella decisione di effettuare un beauty contest invece di una vera e propria asta. La prima fase del beauty contest per l’Alitalia si è svolta con una clausola inconsueta nelle gare internazionali di appalti e commesse: si poteva esprimere interesse (ed entrare in lizza) senza sborsare un solo euro. In breve, in queste condizioni 11 offerenti non rappresentano un successo, ma uno smacco.
La partecipazione era ancora più attraente in quanto non è affatto certo che la privatizzazione sarà completa e totale. Anzi, sino a risanamento compiuto, è probabile che lo Stato resti azionista e garantisca la liquidità per risanare e ristrutturare (mantenendo la pace sindacale). Nella procedura del beauty contest si annida, in effetti, un Iri con le ali, molto più insidioso dell’Iri per le opere pubbliche che potrebbe essere sotto il mantello di F2i (di cui al paragrafo successivo). In effetti, quando si tratterà di mettere sul piatto i 3 miliardi di euro che servirebbero per acquistare Alitalia si vedrà quanti degli 11 saranno ancora in gara. Probabilmente tra due e quattro
Il Presidente del Consiglio Romano Prodi e il Ministro dell’Economie e delle Finanze dovrebbe dare una sferzata al beauty contest. Dovrebbero annunciare, in breve, che si è trattato unicamente di una procedura per individuare candidati potenziali da fare seguire , prima, da una prequalificazione vera e propria (con una “fee” cospicua per acquistarne il bando e la dimostrazione di capacità tecniche e finanziarie per poter rilanciare, senza un euro dei contribuenti, la malconcia compagnia) e, poi, da un’asta alla Vickrey (il primo aggiudicato deve pagare il prezzo del secondo- ) con un dettagliato capitolato tecnico e finanziario, l’unica in grado di massimizzare efficienza e minimizzare collusione (Vickrey, 1961 ) .Anche una valutazione economica elementare avrebbe portato a queste conclusioni. Esse sembrano, però, lontane dal percorso che pare si intenda seguire.

7. La Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) ed il nuovo Fondo per le Infrastrutture (F2i).

Le preoccupazioni che la Cdp perdesse la propria finalità di raccolta del risparmio postale per il finanziamento di infrastrutture a livello locale (specialmente di competenza dei Comuni) per diventare un nuovo ente analogo alle partecipazioni statali del passato sono aumentate con l’istituzione di nuovo fondo per finanziare infrastrutture pubbliche facendo ricorso a capitali pubblici e privati: si chiama F2i. I suoi soci iniziali sono la Cdp, UniCredit, le Fondazioni bancarie, il Fondo dei Geometri; sono entrati anche soci esteri di qualità e di livello. Si tratterà, si chiedono in molti, di una nuova Iri? Questo interrogativo è innescato dalle perplessità, anche europee, in materia di partecipazioni della Cdp in società di recente privatizzazione nel ramo elettrico? Oppure, sarà lo strumento per dare finalmente corpo alla finanza di progetto (Boyne, Law, 2005; Chiti, 2005; Mendez-Gloon, 2005; Renneboog L, Simons T. 2005; Stern S. , Seligman S. ,2004) ?. E’ difficile dare una risposta puntuale . Le prime interviste dell’Amministratore Delegato (espressione del mondo delle partecipazioni statali degli Anni Ottanta) inducono a propendere che F2i rappresenti un nuovo tentativo di resuscitare, alla grande, l’intervento pubblico nell’economia tramite l’investimento pubblico in infrastrutture. Viene appropriatamente sottolineato il rischio che conflitti di interessi si producano al momento di selezionare gli investimenti. Se gli investimenti rispondono a logiche e convenienze di mercato, il Governo impegna inutilmente risorse. In caso contrario, la scelta, per gli altri soci, risulta subottimale: ed essi esigeranno di essere ripagati, in altro modo (Debenedetti, 2007). Le infrastrutture sono sovente monopoli naturali, regolati da contratti di concessione, con Authority indipendenti (Auriol, Picard, 2007) Lo Stato ha comunque ampi poteri regolatori e autorizzatori , mentre come concessionario diventa un soggetto regolato e autorizzato. Se fa prevalere il ruolo di regolatore, danneggia se stesso in quanto investitore; in caso contrario danneggia i consumatori. “Più si approfondisce l’analisi – afferma Debenedetti - e più viene da chiedersi quale sia il vero obbiettivo che spinge le due parti, quella pubblica e quella privata, a stare insieme in una partita che entrambi potrebbero giocare in trasparenza, senza vincoli reciproci, ciascuno facendo il suo mestiere. Viene il dubbio che qui ci sia qualcosa di più che non il solito scambio di favori reciproci, nel solito mondo in cui le azioni si pesano e a contare sono le relazioni. E si fa strada l’idea che la posta in gioco sia molto più alta: consentire a poche banche italiane, a portata di telefonata dai Palazzi di Roma, di esercitare il controllo su tutti i flussi finanziari in Italia, occupando anche il settore del credito non bancario. Con il che la costruzione di un capitalismo senza mercato sarebbe completata. Se così fosse, dovremmo riconoscere che erano sbagliati i paragoni al passato dell’Iri e delle partecipazioni statali. Sbagliati alla grande: per difetto”. Inoltre, F2i ha dimensioni tali da potere incidere su scelte di politica pubblica, ad esempio, in materia tariffaria (Carabini, 2007) come facevano l’Iri e le sue finanziarie. Esercitando, quindi, una vera e propria “cattura” in numerosi comparti.
In primo luogo, occorre chiedersi di quali infrastrutture si prenderà carico – se di quelle della “legge obiettivo” o di altre. In secondo luogo, non è chiaro se si utilizzeranno Special Purpose Vehicles (Spv), uno strumento finanziario ad hoc, per ciascuna iniziativa oppure per ciascun comparto e se la tecnica utilizzata sarà il BOO (Build, Own, Operate) o il BOOT (Build. Own, Operate, Transfer): le implicazioni sono molto differenti in materia di regolazione e di terminazione di tariffe, pedaggi e simili in quanto, nella seconda ipotesi, dopo un lasso di tempo concordato l’opera viene trasferita all’amministrazione pubblica. Dalla risposta a queste dipende quali tecniche finanziarie ed economiche adottare. Potrebbe essere utile che F2i segua l’esempio dei cugini francesi, tedeschi e britannici con la pubblicazione di un manuale.
Infine, perché la Cdp è in F21? Per dare una garanzia pubblica? Per orientare le scelte operative presso obiettivi di politica economica? Per catturare utili e dividendi (se sono elevati)? Per incidere sull’allestimento dei progetti? Un’altra scuola di pensiero (Pennisi a), 2007) sottolinea che il nuovo Fondo, se ben gestito, potrebbe rappresentare una svolta nella finanza di progetto. In materia, è stata varata una normativa apposita (aggiornata di recente) ed una unità tecnica presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef), nel cui ambito è stata creata (alcuni anni fa) Ispa (ossia Infrastrutture Spa), i cui esiti sono stati molto inferiori alle attese. La Scuola superiore della pubblica amministrazione (Sspa) sta realizzando 48 corsi specialistici in queste materie per le Pa, specialmente di quelle a livello locale (Regioni, Province, Comuni) dove le restrizioni ai trasferimenti di finanza pubblica sta suscitando un forte interesse in forme di partnership con il settore privato.
Esistono indubbiamente rischi che il nuovo strumento possa venire distorto per finalità di salvataggio di aziende decotte tramite la loro partecipazione, con la garanzia dello Stato o di enti locali, alla realizzazione e gestione di infrastrutture di modesta utilità per la collettività (quindi, discorsive). Tuttavia, se operano efficacemente, i fondi chiusi per le infrastrutture rendono bene anche sotto il profilo strettamente privatistico; ossia, portano dividendi di tutto rispetto a chi li sottoscrive. Ad esempio, il bilancio consuntivo 2006 del Tata Infrastructure Fund di Mumbai espone un utile lordo (prima di tasse, dividenti ed ammortamenti) del 62% e il Sundaran Bnp Paribas Select MidCap Fund uno addirittura del 92%. Indubbiamente si è alle prese con economie emergenti a rapida crescita (come quella dell’India). Un’analisi del servizio studi della Banca centrale europea suggerisce che in economia mature (come quella dell’Italia), i rendimenti saranno molto più contenuti. Ci si dovrebbe accontentare di un Saggio di rendimento interno (Sir) finanziario superiore al 10% - da assumere come livello di soglia.
Gli italiani sono stati tra i precursori della finanza di progetto – basti pensare alla ferrovia Napoli-Portici finanziata da banche belghe quando il Re delle Due Sicilie in persona mise bocca sul tracciato. Si possono, poi, trarre lezioni utili dalle attività della Banca mondiale dalla sua creazione nel 1944 alla fine degli Anni Ottanta (quando l’enfasi passò dal finanziamento di progetti alla lotta alla povertà). La provvista della Banca proviene interamente dal mercato dei capitali. Le sue obbligazioni hanno la classificazione più alta (da parte delle agenzie di rating) a ragione della qualità dei progetti e del rigore con cui venivano valutati. F2i potrebbe trarre utili indicazioni dalle sperimentazioni di analisi di progetti con la tecnica delle opzioni reali effettuate , in Italia, dal Mef, dal Ministero delle Comunicazioni , già introdotta in fondi analoghi di altri Paesi europei.
Inoltre, F2i deve equilibrare prudenza con innovazione. In Australia ed ora negli Usa (nonché in Argentina e Bolivia), fondi analoghi hanno concluso, o stanno concludendo contratti di acquisto o di leasing a lungo termine di infrastrutture pubbliche di grande rilievo (tra cui il Pennsylvania “turnpike” presentata, quando nel lontano 1940 venne inaugurata, coma la superautostrada più avanzata al mondo ed ora in esigenza di ammodernamento), in effetti privatizzandole. Sono iniziative che hanno attratto pure gruppi di private equity ma che richiedono un’analisi finanziaria molto accurata.Molto dipende, quindi, dalle scelte manageriali e regolatorie che verranno effettuate (Guthrie, 2006).

8. Il riordino delle Authority

Nel febbraio 2007, il Governo ha varato un disegno di legge per il riordino delle Authority. Il disegno di legge , in sintesi, interviene in materia di Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità, di vigilanza sui mercati finanziari e di adeguamento degli ordinamenti delle Autorità. Per quanto concerne i servizi di pubblica utilità, si rafforzano i poteri di regolazione al fine di rendere effettiva l’introduzione della concorrenza e di tutelare anche con misure urgenti gli utenti e i consumatori. Con riguardo ai singoli settori, si dispone che le funzioni di autorità nazionale di regolamentazione previste dalla disciplina comunitaria siano affidate all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, ferme restando tutte le altre competenze del Ministro delle comunicazioni. Il ddl prevede che le funzioni di regolazione dell’erogazione dei servizi idrici ai cittadini siano affidate all’Autorità per l’energia elettrica e il gas, ferme restando le scelte in materia di pubblicità delle risorse idriche e delle relative gestioni e le competenze di tutela ambientale del Ministero dell’ambiente. Viene , infine, istituita l’Autorità dei trasporti con competenze di regolazione economica, in materia di tariffe, prezzi, standard qualitativi, condizioni di accesso alle infrastrutture, estese ai settori aereo, autostradale, ferroviario e marittimo. Restano fermi i poteri di indirizzo e di programmazione nel settore, le scelte in materia di investimento delle risorse pubbliche, le prerogative di stipula di convenzioni e contratti, e le funzioni di tutela della sicurezza dei Ministri dei trasporti e delle infrastrutture. Per quanto riguarda il riordino delle autorità del settore finanziario, si supera l’attuale modello fondato sulla divisione delle competenze in ragione della materia e dei soggetti vigilati. A questo sistema, il disegno di legge intende sostituire un modello di vigilanza per finalità, più razionale ed efficiente. Secondo il nuovo disegno, la Banca d’Italia diventa il soggetto regolatore e vigilante unico in materia di stabilità degli operatori (bancari, assicurativi, finanziari), mentre la Consob è regolatore unico in materia di trasparenza e di informazione al mercato (quindi anche sull’offerta dei prodotti assicurativi e pensionistici). L’Isvap (istituto di vigilanza sulle assicurazioni), la Covip (commissione di vigilanza sui fondi pensione) l’Uic (ufficio italiano cambi) sono soppressi - e le competenze attuali sono ripartite tra Banca d’Italia e Consob (ciò si giustifica anche in ragione degli assetti proprietari delle assicurazioni e della componente finanziaria dei nuovi prodotti assicurativi). Sarà quindi soppresso il Comitato interministeriale per il credito e il risparmio (Cicr) e sostituito, in linea con l’esperienza di altri ordinamenti europei, dalla costituzione presso il Mef di un Comitato per la stabilità finanziaria, anche al fine di consentire l’esercizio dell’alta vigilanza sul sistema finanziario. Il ddl mira infine a consentire l’immediata operatività della riorganizzazione funzionale operata dalla legge adeguando gli ordinamenti delle Autorità in materia di modalità di nomina dei componenti delle Autorità e ad alcune regole di organizzazione e di funzionamento.
Il numero dei componenti è fissato a cinque per ciascuna Autorità, così rendendo più efficiente il processo decisionale e abbandonando criteri di rappresentanza politica. La designazione sarà del Consiglio dei Ministri con il parere vincolante espresso a maggioranza dei due terzi di una Commissione parlamentare bicamerale per le politiche della concorrenza e la regolazione dei mercati e i rapporti con le Autorità indipendenti. La revisione non si applica alla Banca d’Italia, le cui regole sono state recentemente riformate. Il mandato è fissato in sette anni, non rinnovabile neanche in altre Autorità. La Commissione bicamerale ha anche il compito di curare il raccordo istituzionale tra il Parlamento e le Autorità con riguardo alle funzioni legislative e regolamentari di rilevanza strategica sull’assetto concorrenziale dei mercati e sulla tutela dei consumatori e degli utenti. La strada del ddl è appropriata perché consentirà di migliorare il testo durante l’iter parlamentare. E’ auspicabile che sia un miglioramento bipartisan (o che si dia almeno ascolto all’opposizione) poiché si è alle prese con una materia che coinvolge gran parte del sistema economico. Prima di entrare nel merito del ddl (di cui peraltro, al momento della stesura di questo “Rapporto” non si conoscono ancora i dettagli) è bene che il Parlamento tenga presente che ci sono due visioni differenti di interpretare cosa è un’Authority all’interno di un’area come l’Ue (ed ancor più nell’unione monetaria) in cui, in molti terreni (si pensi alla concorrenza), regole ed istituzioni nazionali devono convivere con regole ed istituzione sopranazionali, evitando di sovrapporsi le une alle altre causando costi elevati per tutti i soggetti coinvolti e frenando, quindi, produttività e competività. Lo descrive con efficacia Simon Deakin della Università di Cambridge (Regno Unito) in un saggio pubblicato l’estate scorsa (Deakin , 2006). Da un lato, c’è il modello anglossassone di federalismo competitivo : lo Stato che ha le Authority più efficienti (e meno ingombranti) è quello che cresce meglio e di più, come documenta, tra l’altro, con ricchezza di dati empirici un lavoro della Banca mondiale (Loyaiza, Oviedo, Serven, 2005). C’è, poi, il modello dell’Europa continentale che, secondo Deakin, si basa sul “concetto, interamente europeo, di armonizzazione riflessiva” – ossia di mutuo riconoscimento di regolazione e di authority. Ciò comporta pure un processo, di apprendimento e miglioramento graduale che consente di evitare alcune rozzezze delle Authority dei singoli Stati dell’Unione (negli Usa). E’ interessante notare che nel diritto societario europeo, il primo modello sta gradualmente entrando nel secondo e che tale processo ha avuto un’accelerazione dall’ampliamento dell’Ue da 15 a 27 Stati membri. Non è unicamente congettura che le Authority dei singoli Stati europei di domani (per la quali si programma con il ddl di oggi) ed ancora di più le Authority comunitarie si avvicineranno sempre più ad un modello competitivo atlantico (come, peraltro, già sta avvenendo in materia di mercati finanziari e di Borse). Il ddl comporta senza dubbio una semplificazione dell’architettura delle Authority all’italiana, unitamente ad una uniformazione della loro normativa e delle procedure per le nomine dei loro componenti che dovrebbero essere di evidenza pubblica (quindi trasparenti) e caratterizzate da un indirizzo di governo fortemente temperato dall’esigenza di un consenso bipartisan (la maggioranza di due terzi) in Parlamento.Non risolve, però, il nodo di fondo di quale modello sia stato scelto , esplicitamente o implicitamente, tra quello anglosassone (ora esteso anche ai Paesi del bacino del Pacifico) e quello dell’Europa continentale (per certi aspetti in via di revisione). Un nodo ora molto più importante di quanto vennero istituite negli Anni Novanta le prime Authority , allora essenzialmente concepite in via strumentale come veicolo per le privatizzazioni (Pennisi, Zecchini, 2001). Adesso (si ricordino, a mero titolo di esempio tra i molteplici a cui si potrebbe fare riferimento, le vicende recenti ed ancora non concluse ,come quella della fusione Autostrade –Abertis) l’interazione competitiva tra regolazione europea e nazionale è sempre più pregnante. Si pensi, ad esempio, all’istituenda Autorità dei trasporti (immersa nel contesto europeo perché immerse nel contesto europeo sono le grandi reti di comunicazioni attraverso l’Europa). Certe parti del ddl , ad esempio la ripartizione delle competenze tra Banca d’Italia e Consob, hanno il sapore del compromesso per la difesa di competenze del passato. Altri articoli guardano più a ieri che a domani: un caso evidente è la lunga agonia prevista per l’Isvap e la Covip, campi in cui da lustri si sarebbe potuto pensare a meccanismi di riassicurazione tali da non gravare sui contribuenti (quali la Pension Benefits Guarantee Corporation Usa).Un passo importante è stato fatto ma in Parlamento c’è ancora strada da fare.

10. Conclusioni

Se la politica economica deve essere letta e valutata come una sequenza e come una serie di finestre di opportunità (Pennisi, Scandizzo, 2003), il 2006 (e probabilmente il 2007) devono essere letto come una pausa (e forse una marcia indietro) nella strategia di privatizzazioni e di graduali liberalizzazioni cominciata all’inizio degli Anni Novanta, nonché delle relative finestre di opportunità per l’economia e per la società italiana. Occorre ammettere che il Governo eletto nella primavera 2006 è composto da una coalizione molto variegata in cui hanno la preponderanza partiti che si richiamano all’ideologia comunista ed alla programma omnicomprensiva centralizzata e, quindi, molto distanti da metodiche di valutazione (come quelle dell’analisi costi benefici o del “metodo degli effetti”) che sotto-intendono una programmazione unicamente indicativa ed il ricordo a strumenti di mercato.. Di conseguenza, una parte significativa della maggioranza si oppone attivamente ad una politica di privatizzazione e di liberalizzazione. Stime econometriche effettuate con il blocco “Italia” del modello della Banca centrale europea (Angelini, D’Agostino, Mcadam, 2007) suggeriscono che, unitamente all’aumento della pressione tributaria, ciò potrà dimezzare la crescita effettiva dell’economia italiana nei prossimi anni, rispetto a quella ritenuta potenziale. Sino ad ora solo tale valutazione (a carattere macro-economico) è disponibile. Non è stata contraddetta da nessuno.
Ci auguriamo che i fatti e gli avvenimenti ci inducano a ricrederci in merito all’analisi qui presentata del futuro delle privatizzazioni dei servizi pubblici locali e dell’Alitalia , nonché di F2i e che il riassetto delle Authority (unico aspetto positivo del periodo preso in considerazione) possa contribuire ad un ripresa del sempre difficile percorso delle privatizzazioni (Armstrong, Sappington; 2006).



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[1] Stima ricavata dall’autore di questa nota sulla base di newsletter finanziarie di J.P. Morgan e Thompson Financial European Capital Markets.
[2] Stima ricavata dall’autore sulla base di dati del Ministero dell’Economia e delle Finanze.
[3] In quell’anno sono state effettuate le prime “grandi privatizzazioni” italiane, ed i proventi da esse derivanti, sono stati un tassello delle misure di finanza pubblica attuate per essere ammessi nell’area dell’euro.
[4] Dati ricavati da più fonti, essenzialmente Fondo Monetario Internazionale, Economist Intelligence Unit e J.P. Morgan
[5]Lo si ricava dai principali modelli econometrici quale quello di Rafael Gomez e Pablo-Hernandez de Cos che hanno appena pubblicato un saggio (Bce working paper n. 670) sul potenziale di aumento del pil in economie maturemento e dalla sezione italiana del modello econometrico della Bce, le cui specifiche sono state pubblicate un paio di settimane fa in un lavoro di Elena Angelini, Antonello d’Agostino e Peter Mcadam come working paper della Banca n.660 , nonché al modello pubblicato (in versione preliminare) a fine 2006 da Daniel Gros, Presidente del Ceps e Ansgar Belke dell’Università di Hohenheim come Iza working paper n. 254. In sintesi:
1. I 20 maggiori istituti econometrici privati stimano per l’area dell’euro nel 2007, un aumento medio del pil tra l’1,7% ed il 2,3%, mentre quello dell’Italia oscillerebbe tra lo 0,8% e l’,7%., a ragione in gran misura della stangata fiscale. La sezione italiana del modello Bce giunge a esiti analoghi. In breve, le mini-riforme possono avvantaggiare alcune categorie (a danno di altre) ma non incidono sugli andamenti macro-economici (mentre vi incide – e come!- la stangata.
2. Un programma di riforme effettive – che modifichi la previdenza (rivedendo l’età minima per andare in pensione ed adeguando il grado di copertura all’aspettativa di vita) e liberalizzi ulteriormente il mercato del lavoro – potrebbe invece avere effetti positivi sulla crescita. Oltre al modello strutturale Gros-Belke lo afferma un altro lavoro della Bce (il working paper n. 666).

[6] Un servizio di minibus o taxi multipli a tariffe pari a tre volte quelle dell’autobus o del tram ma organizzati in modo da prenotare i posti ed assicurare un servizio veloce tra aree residenziali ed il centro della capitale. Il servizio iniziato da una cooperativa privata è stato rilevato da una cooperativa di dipendenti della municipalizzata , a conclusione di una gara al maggior ribasso, e dopo pochi mesi dimesso.